I più piccoli non sono certo virtuosi. Deboli e senza una vera destinazione. I numeri Istat sulla diffusione delle tecnologie ICT nella Pubblica Amministrazione, riferiti al 2015 e contenuti nel rapporto presentato nei giorni scorsi, inchiodano i mini-enti locali di fronte a una dura realtà: vi sono profonde differenze tra piccoli Comuni ed enti più grandi, complessi e strutturati. Una conferma rispetto a precedenti annualità. Ma con una situazione che, snocciolando i dati, diventa più grave e per certi versi pericolosa. Più volte anche qui abbiamo scritto che il digital divide del Paese si consuma su più direttrici: la prima è quella legata alla conformazione sociale di chi fruisce e di chi non può fruire, non abbienti o non dotati di competenze digitali sufficienzi. La seconda è quella nord-sud, eterna e ingestibile. La terza è territoriale, distinguendo dunque tra aree urbane e aree rurali dove il primo gap è infrastrutturale. La quarta, confermata dal rapporto, è legata al “piccolo e grande”. Il piccolo resta indietro, il grande invece avanza. Servizi interni ed estermi migliori, funzioni ICT messe al centro dell’attività amministrativa e vettore dell’attività stessa. Il piccolo arranca e – secondo Istat – fatica anche ad associarsi per digitalizzare processi e servizi. I temi di questo ennesimo divario, sottolineati nel rapporto, sono molteplici: dalla difficoltà di connessione, all’uso (o non uso) del cloud computing, dall’informatizzazione della gestione dei dati per le attività correnti (contabilità, tributi, protocollo, anagrafe) all’uso del web come mezzo di offerta di servizi, fino alla presenza di un ufficio autonomo di informatica interno – proprio un miraggio nei piccoli Comuni – e ai corsi di formazione sull’ICT (quasi inesistenti) nei piccoli Comuni.
Molti dei parametri rilevati e confrontati da Istat tra Regioni, Province, Comunità montane, piccoli e grandi Comuni, mostrano risultati attesi. È evidente che un Comune di mille abitanti, o meno, non può disporre di un ingegnere informatico a tempo pieno o anche sole due ore settimanali all’interno dell’ente. Ma sorprende che, nella logica dell’Unione di Comuni (e Unione montana di Comuni nelle terre alte e nelle aree interne) l’intera funzione informatica non sia stata conferita e gestita dai Comuni alle Unioni stesse. Cioé che i Comuni abbiano scelto una dimensione sovracomunale per fare insieme quello che da soli non riescono a fare. Cioé, migliorare la gestione delle procedure interne e migliorare i servizi alle loro comunità. Se è vero che tutta la PA, tutti gli enti indagati da Istat lavorano al 95 per cento, per il 90 per cento dei servizi con soggetti esterni, molto spesso in house delle Regioni, è anche vero che una Unione di Comuni strutturata garantirebbe maggiore efficienza e capacità operativa sul fronte ICT. Se non con un ufficio ad hoc, potrebbe comunque utilizzare una o più unità di personale presa da un Comune e coinvolgerla sul fronte in questione per tutti i Comuni. Vi sono virtuosi esempi in tal senso nelle grandi Unioni di Comuni dell’Emilia, mentre scarseggiano nelle regioni alpine, dove, con Unioni piccole e frammentazione dei Comuni, “associare” funzioni e servizi è più complesso. Come lo è individuare personale adeguato da formare e aggiornare. Molto spesso, Sindaci e funzionari, interrogati sul tema, ripetono che il problema non è economico, “non mancano i soldi”, bensì il problema è proprio legato alle competenze. Da dieci anni, gli enti locali non hanno potuto fare nuove assunzioni; in particolare nei più piccoli mancano completamente gli under 50. Niente nuove teste, niente nuove idee, niente competenze digitali. E non c’è bisogno di arrivare ai “nativi”.
Ma torniamo ai dati Istat, per evidenziare una necessità, questa volta sì economica. Molte delle opportunità verificate da Istat come non presenti nei piccoli Comuni e anche nelle loro Unioni, garantirebbero risparmio. Tema caro ad Amministratori e dirigenti, ovviamente, visti i drammatici e fortissimi tagli registrati nell’ultimo decennio al sistema degli Enti locali. Un esempio: uniformare i sistemi informativi tra 10 Comuni da mille abitanti ciascuno portandoli con un’unica licenza che viene acquistata dall’Unione, fa obiettivamente risparmiare. Non del 90 per cento sulla spesa storica, ma del 20 o 30 sì. Stessa cosa vale per il cloud. Non dover più avere ogni anno una spesa per la manutenzione delle macchine e disporre solo più di “terminali stupidi” è anch’esso un bel risparmio. Aggiungiamo poi, l’acquisto o la pruduzione centralizzata (anche a livello regionale) di software per servizi specializzati, come per il Suap o ufficio tecnico, permetterebbe un risparmio notevole. L’Unione (che è complessa politicamente da fare e da gestire) su questi fronti legati ad ICT e digitalizzazione, garantisce un risparmio quasi immediato.
Va poi aggiunta una dovuta riflessione sul tema infrastrutturale. Non sono mancate Regioni che hanno aperto bandi per dotare i comuni di sistemi wireless per la navigazione degli spazi pubblici. Molto spesso questi bandi sono stati veicolati sui piccoli Comuni e non su una logica di Unione come invece avrebbe richiesto la logica. Risultato, una frammentarietà di servizi e una generale insoddisfazione per chi non è stato ammesso. Il vettore sovracomunale avrebbe invece permesso un’ottimizzazione delle risorse, invitando Sindaci e dirigenti a una consultazione preventiva rispetto alle reali opporunità.
Ancora, è da rimarcare che molte regioni italiane hanno messo a disposizione risorse (statali, ma regionalizzate) per la gestione associata delle funzioni comunali. Tra quelle individuate dalla legge 138/2010 non vi è l’informatizzazione considerata giustamente trasversale a tutte le nove “fondamentali”