l'analisi

PNRR e razionalizzazione datacenter pubblici: luci e ombre

L’avvento del Recovery Plan e la redazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza segnano una nuova importante tappa nel complicato cammino verso la razionalizzazione delle infrastrutture digitali pubbliche. Ma emergono anche perplessità, zone d’ombra: ecco quali

Pubblicato il 16 Feb 2021

Giuseppe Arcidiacono

Responsabile Sistema Informativo at ARCEA

ovh privacy datacenter

Dalla lettura dell’ultima bozza attualmente disponibile del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, emerge come la razionalizzazione delle infrastrutture digitali delle pubbliche amministrazioni rappresenti una priorità assoluta per il nostro Paese, tanto da essere stata ricompresa tra gli obiettivi strategici da finanziare con i fondi dall’ormai famoso “Recovery Plan”.

Analizzando, però, con attenzione il corposo documento, disponibile ancora in una versione non ufficiale e al centro di un acceso dibattito politico che ha contribuito alla caduta del Governo Conte bis, e incrociando i suoi contenuti con i Piani Triennali (nelle edizioni 2017, 2019, 2020) e le normative approvate negli ultimi anni (l’ultima in ordine temporale è rappresentata dal “Decreto Semplificazioni”) emergono anche perplessità, zone d’ombra ed elementi di attenzione sui quali è doveroso soffermarsi.

Data center pubblici: prima le buone notizie

Va detto che l’inserimento della razionalizzazione delle infrastrutture digitali delle pubbliche amministrazioni fra le priorità del PNRR è certamente una notizia positiva soprattutto perché conferma i principi ispiratori degli ultimi Piani Triennali per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione e permette, almeno parzialmente, agli amministratori pubblici di ottenere una visione più chiara della direzione da seguire a lungo termine.

Se, infatti, un tema a lungo sottovalutato e spesso trascurato dalla maggior parte degli enti pubblici come quello della rivisitazione dei data center periferici a favore di strutture centralizzate e consolidate a livello nazionale trova posto all’interno di un Programma di altissimo respiro, accostato da molti addirittura al “Piano Marshall” del secondo dopoguerra, vuol dire che è arrivato finalmente il momento di affrontare l’argomento con la necessaria attenzione, anche in virtù delle ingenti risorse che vi saranno destinate.

In prima battuta, infatti, è possibile affermare che gli 1,25 miliardi previsti dal Governo (su un totale di 11 assegnati alla modernizzazione della PA) segnino una svolta decisiva non solo per l’ingente copertura finanziaria ma anche per il salto “culturale” dimostrato dai vertici politici ed ora richiesto a tutte le pubbliche amministrazioni italiane.

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Razionalizzazione dei data center pubblici: un processo che nasce da lontano

Per inquadrare al meglio la situazione, è necessario innanzitutto sottolineare come nel Piano in bozza la questione della razionalizzazione dei data center pubblici sia, comprensibilmente, sintetizzata in poche righe che, per essere completamente comprese e correttamente interpretate, devono essere collocate nel solco di un processo partito anni fa e finora costellato da non poche difficoltà.

Tra i tanti tasselli di cui si compone la strategia di modernizzazione della nostra PA, infatti, quello delle infrastrutture è certamente uno dei più dibattuti e, spesso, contrastati soprattutto dagli enti locali, che temono di perdere parte della propria autonomia e di depauperare i propri territori già messi a dura prova dalla crisi economica e dall’emergenza sanitaria.

Per tali motivazioni, è necessario spingersi ben oltre le stringate frasi riportate nel PNRR per individuarne i punti di forza ma anche, come anticipato, le tante criticità che rischiano di limitare l’impatto positivo derivante dalla nascita dei Poli Strategici e dalla migrazione verso il Cloud.

Le risorse finanziarie “vecchie” e “nuove”

Il primo dato che richiede necessariamente una riflessione approfondita è quello connesso alla composizione della cifra richiesta alla Commissione Europea nel contesto del Recovery Fund: i citati 1,25 miliardi di euro rappresentano, infatti, la somma di 50 milioni (0,05 miliardi) già previsti e stanziati dal Governo italiano e di 1,20 miliardi di nuove risorse.

In sintesi, come riportato testualmente nel PNRR, fino ad ora il Governo, all’interno di questa ambiziosa macroarea, aveva previsto di investire solamente 50 milioni, sufficienti per realizzare un datacenter del ministero dell’interno e potenziare le reti di connettività delle strutture operatrici del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco.

Considerando che l’idea di razionalizzare le infrastrutture digitali della pubblica amministrazione è partita da almeno 4 anni (il primo documento a parlarne in maniera diffusa ed organica è il Piano Triennale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione varato nel 2017 ai tempi del Governo Gentiloni), non avremmo dovuto trovarci di fronte a stanziamenti (o previsioni di stanziamenti) ben più consistenti?

Con quali risorse era stato pensato di realizzare, prima del Recovery Plan, il Polo Strategico Nazionale, ossia il quartier generale informatico in grado di fornire servizi digitali quanto meno alla pubblica amministrazione centrale?

Poiché il processo di razionalizzazione deve fisiologicamente coinvolgere in maniera forte e diretta anche gli enti locali, già alle prese con difficoltà finanziarie ataviche, oggi amplificate in maniera drammatica dall’emergenza sanitaria, come avrebbero potuto le amministrazioni territoriali anche solamente programmare la dismissione dei propri CED e la migrazione verso le nuove strutture?

Per un osservatore esterno e non esperto di processi di trasformazione digitale o di pubblica amministrazione, il problema potrebbe essere addirittura ribaltato: se prima erano considerate sufficienti risorse economiche così limitate, perché ora, nel contesto del Recovery Fund, il Governo italiano chiede alla UE di finanziare il programma con cifre decisamente elevate/sproporzionate?

Per gli addetti ai lavori, naturalmente, quest’ultima può essere classificata come una semplice domanda retorica o, ancora meglio, una piccola provocazione: per innovare in maniera radicale un’organizzazione così complessa ed articolata come la macchina burocratica statale sono necessarie ingenti risorse non solo in termini finanziari ma anche umane (ossia un piano assunzionale adeguato), culturali (tramite interventi formativi e di sensibilizzazione) e sociali (attraverso campagne mediatiche che spieghino agli utenti le finalità e i vantaggi inseguiti e, allo stesso tempo, “giustifichino” le spese affrontate).

Allora, perché tali risorse non erano state originariamente previste?

Il problema, invero, ha radici profonde ed è strettamente connesso a quella prassi ormai in uso da diversi anni secondo la quale gli enti centrali e periferici sono chiamati ad adempiere alle disposizioni previste dalla normativa, mutuando a titolo di esempio quanto affermato dall’ultimo “Decreto Semplificazioni”, “con le risorse disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

Si tratta certamente di un meccanismo volto a salvaguardare i bilanci dell’erario ma che difficilmente si concilia con la necessità di scardinare, in tempi rapidi, i rigidi schemi di funzionamento dell’apparato burocratico e, infatti, costituisce spesso un ostacolo decisivo nella realizzazione di interventi di innovazione.

Sotto questo punto di vista, le previsioni del PNRR devono essere lette anche come un messaggio forte ed inequivocabile alla pubblica amministrazione ma anche a tutti gli stakeholder: investire con decisione oggi nella modernizzazione dello Stato consentirà di cogliere fra qualche anno risultati decisamente importanti, in grado di semplificare la vita dei cittadini, sostenere l’economia e le imprese, creare posti di lavoro e, in ultima battuta, rilanciare l’intero sistema Paese nel panorama europeo ed internazionale.

La sostenibilità a lungo termine

Nel caso specifico, però, la sostenibilità a regime del modello deve essere valutata con estrema attenzione: una volta terminata la boccata d’ossigeno fornita dal Recovery Fund, infatti, le nuove infrastrutture dovranno essere realmente in grado di fornire valore aggiunto all’intero Paese, rendere più efficienti ed efficaci i servizi pubblici ma dovranno soprattutto “auto-sostenersi” senza gravare sulle casse non proprio floride dello Stato.

In tal senso, andranno necessariamente rivisti anche i modelli di finanziamento e i flussi di risorse tra centro e periferia: se, infatti, anche gli Enti Locali (come si spera) potranno utilizzare servizi forniti da poche strutture pubbliche iper-specializzate senza dover ricorrere a soluzioni di mercato, sarà certamente necessario prevedere meccanismi di remunerazione condivisi tra amministrazioni centrali e locali, evitando inutili doppioni o scelte individualistiche a livello territoriale.

Negli ultimi decenni, purtroppo, si sono concretizzati con eccessiva frequenza scenari nei quali siano state costruite infrastrutture informatiche “centralizzate” potenzialmente in grado di fornire servizi anche agli enti locali che sono poi state sotto-utilizzate (per ricorrere ad un eufemismo) a livello territoriale perché non pienamente rispondenti alle necessità delle singole comunità (in quanto progettati senza il necessario coinvolgimento di tutti gli stakeholder) o semplicemente per la volontà di ribadire, ed a volte esasperare, anche a livello digitale, il principio di autonomia tanto caro soprattutto alle amministrazioni regionali.

A titolo di esempio, si pensi al Sistema Informativo Agricolo Nazionale (SIAN) che potenzialmente avrebbe le capacità per funzionare, tra le altre cose, come piattaforma informatica unica (seppure declinata a livello regionale) per la gestione dei fondi comunitari in agricoltura ma è stato “replicato”, in maniera del tutto legittima, da quasi tutti gli Organismi Pagatori Regionali con software costruiti a livello territoriale ed in grado di adattarsi in una maniera ritenuta più completa, veloce ed efficiente alle differenti realtà locali.

Il risultato è stato quello di un sistema pensato per obiettivi ben più ambiziosi di quelli effettivamente raggiunti e che oggi appare sovra-dimensionato ed eccessivamente costoso, soprattutto alla luce delle ulteriori risorse che le Regioni devono investire per implementare i propri sistemi informativi “paralleli”.

Il problema dei tempi di realizzazione e la dead-line del 2026

Un ulteriore elemento da tenere in debita considerazione è quello dei tempi di realizzazione delle attività che, per essere finanziate all’interno del Recovery Fund, devono rispettare il termine perentorio fissato al 31 dicembre 2026.

Poiché il programma europeo richiede necessariamente, ai fini della certificazione della spesa (e per scongiurare l’ipotesi di restituzione delle somme erogate), l’ottenimento di specifici risultati tangibili nel quinquennio di riferimento (2021 – 2026), è necessario effettuare alcune riflessioni sulla fattibilità dell’intera operazione.

La fattibilità dell’operazione nei tempi previsti

In termini strettamente teorici, 5 anni costituiscono sicuramente un orizzonte temporale del tutto congruo con la concretizzazione delle attività di razionalizzazione che dovrebbero, in linea di massima, svilupparsi su due traiettorie: dal punto di vista della “governance” è necessario progettare, costruire e mettere in produzione i Poli Strategici Nazionali (ossia i mega-CED in grado di ospitare i servizi di tutte le amministrazioni, o almeno di quelle “centrali”) mentre nella prospettiva delle singole p.a. è indispensabile procedere con Piani di dismissione delle proprie infrastrutture e migrazione verso i nuovi quartieri generali digitali.

Come anticipato, tale percorso può apparire abbastanza semplice e lineare ma, ancora una volta, analizzando in dettaglio le previsioni (generiche) contenute nella bozza di PNRR e quelle già definite nella normativa vigente, sono numerosi gli elementi che possono mettere a rischio il rispetto dei tempi progettuali.

L’assenza di una chiara roadmap

Un elemento di criticità dell’intera operazione continua ad essere rappresentato, ad esempio, dall’assenza di una vera e propria road-map o di una “progettazione esecutiva” in grado di dettare operativamente i tempi e le modalità di migrazione.

Sia il Decreto “Semplificazioni” che l’ultimo Piano triennale, infatti, si affidano a generiche dichiarazioni di principio che, tra l’altro, impegnano la Presidenza del Consiglio dei Ministri a “promuovere” lo sviluppo di un’infrastruttura ad alta affidabilità localizzata sul territorio nazionale per la razionalizzazione e il consolidamento dei Centri per l’elaborazione delle informazioni, destinata a tutte le pubbliche amministrazioni.

Allo stesso modo, non sono esplicitate le modalità operative con le quali gli enti centrali e periferici debbano migrare, “nel rispetto dei principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa”, i propri CED privi dei requisiti fissati dal regolamento adottato da AgID verso soluzioni idonee e sicure.

Un ulteriore elemento degno di nota è rinvenibile nel Piano Triennale per l’Informatica nelle Pubbliche Amministrazioni 2020 – 2022 e specificatamente negli obiettivi OB.4.1 “Migliorare la qualità e la sicurezza dei servizi digitali erogati dalle amministrazioni locali favorendone l’aggregazione e la migrazione sul territorio” e OB.4.2 “Migliorare la qualità e la sicurezza dei servizi digitali erogati dalle amministrazioni centrali favorendone l’aggregazione e la migrazione su infrastrutture sicure ed affidabili”. Secondo i target definiti nel Piano, infatti, sarà sufficiente ridurre del 5% le dotazioni di memoria, elaborazione o storage nel 2021 per considerare le attività in linea con il cronoprogramma concordato.

Considerando che la percentuale di riduzione prevista sale al 20% entro l’anno 2022, si può ben capire come l’effettiva chiusura dei CED più a rischio seguirà una strada impervia e difficilmente compatibile con la dead-line del 2026.

La conferma del nuovo approccio “morbido”

In linea con quanto previsto nell’ultima versione del Piano Triennale, anche il PNRR prevede la migrazione verso i nuovi PSN dei soli datacenter di “categoria B” delle amministrazioni centrali.

Trova, pertanto, conferma la nuova linea “morbida” che nel corso del 2020 ha stravolto, senza fornire una vera e propria spiegazione, le previsioni iniziali salvando dalla dismissione i CED di categoria “A” degli enti statali e periferici e limitando di molto il ruolo della nuova infrastruttura nazionale.

In estrema sintesi, solamente i CED privi delle più elementari misure di sicurezza dovranno essere chiusi nei prossimi anni mentre quelli che presentano “carenze minori” potranno continuare ad operare ed a svolgere, per gli enti locali, anche il ruolo di strutture condivise in grado di fornire servizi a molteplici pubbliche amministrazioni.

Si tratta, com’è di tutta evidenza, di un sensibile ridimensionamento dell’ambizioso (forse troppo?) obiettivo iniziale che rischia di mitigare gli impatti positivi previsti e fa sorgere ulteriori dubbi sulla effettiva “coerenza” con la portata del recovery plan.

In altri termini, è necessario chiedersi quanto sia giustificato un investimento così ingente in considerazione del coinvolgimento, almeno nelle fasi iniziali, delle sole pubbliche amministrazioni centrali e, soprattutto, se non si rischi di depotenziare uno strumento così importante e non cogliere in pieno un’occasione probabilmente irripetibile.

La redazione del PNRR dovrebbe, al contrario, costituire un importante “driver” per calibrare la mira e rivedere nel suo complesso la strategia di razionalizzazione, sfruttando anche l’assist arrivato dalla Commissione Europea che ha più volte sollecitato gli Stati Membri a puntare in maniera decisa sulla digitalizzazione e modernizzazione dei propri apparati amministrativi e burocratici.

Conclusioni

L’avvento del Recovery Plan e la redazione del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” segnano una nuova importante tappa nel complicato cammino verso la razionalizzazione delle infrastrutture digitali pubbliche.

L’inclusione della tematica nel prestigioso novero delle iniziative destinate a risollevare il Paese dopo la crisi connessa alla diffusione del Covid-19 evidenzia certamente l’importanza di un obiettivo troppo spesso considerato “settoriale” o prettamente “tecnico” che, al contrario, riveste una valenza strategica e trasversale e può portare molteplici benefici in tutti i settori dell’economia e della società italiana.

In tale situazione, però, alle problematiche già emerse negli scorsi anni, che hanno condotto, di fatto, ad una rivisitazione della rotta ed un ridimensionamento in itinere degli obiettivi iniziali, si aggiungono ulteriori motivi di preoccupazione, connessi in particolare alla portata ed ai vincoli dello strumento messo a disposizione dalla Commissione Europea.

Il “Recovery fund”, infatti, rappresenta un’opportunità probabilmente irripetibile nel medio periodo tanto che in molti azzardano un accostamento con l’ormai celeberrimo “Piano Marshall” che alla fine della seconda guerra mondiale permise al nostro Paese di avviare una fase di ricostruzione sfociata poi nella rinascita economica degli anni ’60.

I progetti inclusi nel PNRR devono essere certamente ambiziosi, importanti e visionari ma dovranno anche essere difesi lungo il percorso, dotati di una cabina di regia forte e competente ma soprattutto dovranno essere portati a termine secondo i piani ed i tempi iniziali.

È fondamentale ricordare come il Programma della Commissione Europea richieda, ai fini dell’effettiva certificazione della spesa, tempi certi per la realizzazione delle iniziative e, prioritariamente, la misurazione concreta, ex post, di benefici ed impatti positivi generati.

Alla luce dell’accidentato percorso finora seguito, la strada della razionalizzazione delle infrastrutture pubbliche non appare esente da ostacoli o curve pericolose.

Guardando ancora una volta al passato, servirà una profonda riflessione e un’attenta interlocuzione tra tutte le parti in causa con l’obiettivo finale di dotare il Paese di una dorsale digitale attraverso uno sforzo condiviso ed unitario paragonabile a quello messo in opera qualche decennio fa quando furono costruite le grandi autostrade che hanno permesso, pur tra mille difficoltà e tante peripezie, di rendere raggiungibili quasi tutti i territori dello Stivale.

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