Ieri il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha approvato il Piano Triennale dell’informatica nella PA: un piano coerente, innovativo nell’approccio e nel linguaggio e – si sa – le parole sono importanti e sono quelle che ci aiutano a definire (e quindi anche a ridefinire) la realtà. Soprattutto, il Piano fornisce davvero, e finalmente, un quadro completo e comprensivo di “che cosa” deve fare la PA per adeguare i propri sistemi e strumenti al contesto digitale e alla scommessa di riavvicinare l’Amministrazione alla società e ai bisogni e aspettative delle persone.
Il lavoro svolto e la cornice presentata offrono visione, strumenti e risposte sul “cosa fare”, dando una prospettiva pro-futuro allo sviluppo dei servizi e al miglioramento della gestione operativa della PA per i prossimi anni, basandosi – finalmente – su soluzioni e tecnologie in linea con gli standard di oggi, senza titubanze e senza cedere alla visione amministrativo-centrica che ha caratterizzato per decenni la PA, sia nella sua iniziale informatizzazione, sia nel suo più recente approccio alla trasformazione digitale.
Non mi soffermerò a descrivere le soluzioni proposte. Il Piano è oramai noto e di facile consultazione, anche grazie alla pubblicazione di un sito dedicato, che – fra le altre cose – fornisce uno strumento che permette a tutti, anche i non addetti ai lavori, di leggere e capire quale dovrebbe essere l’evoluzione della PA (e anche questa è una gran bella novità).
Il punto che invece credo meriti un approfondimento è il “come” di questo “che fare”, perché l’obiettivo strategico è troppo importante, direi necessario, nel percorso di modernizzazione del paese, per poterci permettere, ora che il cosa fare è più chiaro, di non avere gambe su cui far camminare (e velocemente) il progetto.
Se è giusto che il Piano sia basato su un approccio finalmente al passo con le evoluzioni della tecnologia, con le pratiche del settore, con un’attenzione alla cultura del servizio che la PA deve scoprire verso la società e sull’utilizzo razionale ed efficace delle risorse disponibili, non possiamo non considerare che il progetto s’inserisce in un quadro esistente, in una struttura amministrativa con diversi livelli di governo, con sistemi e “macchine” presenti, ma frammentate, spesso obsolete seppure quotidianamente utilizzate e derivanti da ingentissimi investimenti che non possono essere ignorati. E, soprattutto, s’inserisce in un contesto che non possiede, se non in alcune eccellenti eccezioni, competenze, risorse e visione coerenti con quanto proposto.
Tre cose, quindi, mi permetto di sollecitare come urgenti integrazioni di analisi e di proposta operativa.
1) Una due diligence seria, rigorosa e obiettiva sull’esistente, che consenta di mettere in campo soluzioni e strumenti concreti, percorribili e tempestivi.
Dare risposte sul “come fare” non può prescindere dall’accompagnare tutti gli attori al necessario “reboot”. E non si può cambiare (o meglio, direi, rivoluzionare) qualcosa che non si conosce. Gran parte della spesa, delle infrastrutture e dei sistemi HW e SW dell’amministrazione alberga nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni italiani. E dell’analisi di questa spesa e dei relativi asset non c’è traccia nel Piano.
Viviamo nel paese dove a un unico e omogeneo Testo Unico degli Enti Locali, che fissa regole e procedure identiche per ogni ente, corrispondono centinaia di software gestionali diversi, prodotti da decine di diverse fornitori o fatti in casa, realizzati in anni diversi e con tecnologie diverse. Come ho già avuto modo di dire, l’Italia è quel paese, dove l’informatica, che risponde essenzialmente a obiettivi di integrazione, è stato uno degli strumenti “principe” di disintegrazione e disarticolazione (certe volte perfino all’interno delle stesso ente). Pensare che tutto questo possa essere ricondotto a coerenza, e magari centralizzato, senza offrire percorsi certi, soluzioni percorribili date le competenze e le abitudini del personale preposto e stringenti sanzioni (o allettanti incentivi) è giusto, ma velleitario, perché semplicemente impossibile.
E se è vero che – correttamente – il Piano sposta il focus sul servizio (finalmente dando più importanza al front che al back), tutti sappiamo che la qualità, l’affidabilità e la stessa possibilità d’integrazione e interoperabilità dei servizi finali, non può prescindere da sistemi gestionali ripensati, omogenei sul territorio nazionale e in linea con le tecnologie e gli standard di oggi. A maggior ragione, se – come è – uno degli obiettivi del Piano è quello di razionalizzare la spesa. Costringere gli Enti a utilizzare un solo sistema per tutti è la chiave di volta per consentire che i risparmi ci siano “davvero”. Questo ha un impatto dirompente: organizzativo (a diversi sistemi corrispondono differenti abitudini di gestione delle procedure), culturale (il campanilismo e una spiccata tendenza autonomista sono la cifra di molto del nostro paese) e “di mercato” (a centinaia di software stratificati nel tempo corrispondono decine di fornitori). Ma è un nodo da sciogliere se vogliamo dare concretezza al Piano, e che non è più rimandabile.
Alla Riforma Madia che ha già meritoriamente introdotto, al suo articolo 1, il concetto di “Cittadinanza Digitale” non dovrebbero accompagnarsi dei Livelli Minimi di Cittadinanza Digitale (sul modello dei LEA in Sanità) per garantire i quali il Governo centrale dovrebbe poter agire, in via sussidiaria, qualora gli Enti Locali e le Regioni non facessero il necessario?
2) Un governo stringente e centrale delle risorse economiche.
Gran parte delle risorse disponibili per gli investimenti a breve e medio temine sono oggi gestite da singoli Ministeri (i vari PON), dalle Regioni (i fondi FESR e parzialmente i FEASR), dalle Città Metropolitane (il PON Metro). Il Piano propone indicazioni precise su come queste risorse dovrebbero essere utilizzate, con quali priorità e con quali obiettivi. Ma alle tempistiche stringenti non corrispondono (per ora) adeguati (e necessari) sistemi di controllo, sanzione e incentivo. Tenendo conto che quasi tutti gli attori (peraltro i più diligenti) hanno già pianificato i propri interventi e hanno già avviato lavori e procurement, quali sono le modalità operative che si propongono per riportare a coerenza il tutto? E, inoltre, rimane la necessità di trovare soluzioni pratiche alla capacità degli Enti di contemperare il rispetto delle norme con l’evoluzione tecnologica. Il forte indirizzo verso il Cloud e il SAAS indicato dal Piano è sacrosanto, ma come conciliare questo con la dualità “spesa corrente” (servizi) e “spesa a investimento” (cespiti e nuovi beni) che ogni bilancio pubblico impone? Trasformare la spesa (oggi a investimento) dei Comuni sui propri sistemi centrali o sul proprio data-center in spesa corrente per servizi per usufruire di sistemi cloud è oggi tecnicamente impossibile. Occorre, dunque, rivedere le regole. Contemplare, per esempio, la possibilità che cespiti “immateriali” come la capacità di calcolo o storage in cloud possano non essere classificati come servizi, ma come investimenti.
3) Uno straordinario sforzo di riorganizzazione e change management.
Qui il Piano prova a dare qualche risposta (cfr cap.10. Gestione del cambiamento), ma gli strumenti delineati non sembrano, a dire il vero, sufficienti.
Accompagnare al cambiamento più di 8000 comuni, 20 regioni, decine di enti centrali e i milioni di operatori pubblici coinvolti è uno sforzo titanico. L’Agid e il Team Digitale, con le risorse attuali, non possono, in nessun modo, svolgere questo ruolo in tempi ragionevoli.
E non è solo di competenze digitali che si parla, seppure queste siano prioritarie. Ma si tratta, piuttosto, di realizzare quell’imprescindibile passaggio dalla cultura dell’adempimento a quella del servizio, che agogniamo e immaginiamo da molti anni, senza trovare gli strumenti giusti. Come si cambia, nel senso del nuovo Piano, il linguaggio abituale della Pubblica Amministrazione esistente?
Last but not least, c’è il tema della sensibilizzazione del policy maker.
Finché i decisori politici e i vertici delle amministrazioni, almeno in maggioranza, non metteranno davvero la cultura dell’innovazione al primo posto della loro agenda di governo, è utopico pensare che il personale abbia questa priorità. Ma il cambiamento delle persone non è un accessorio, è la precondizione senza la quale il Piano avrà molte, forse troppe, difficoltà a diventare pratica.
Quel genio di Patch Adams lo sapeva: “Se si cura una malattia si vince o si perde, se si cura una persona, vi garantisco che in quel caso, si vince qualunque esito abbia la terapia.”