Lo scenario

Programma nazionale per la ricerca, ecco gli obiettivi dei prossimi sette anni

In Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il PNR, Programma nazionale per la ricerca, documento che orienta gli indirizzi strategici per i prossimi sette anni: insieme alle misure previste in Legge di bilancio 2021 e nel PNRR il testo permette di fare il punto sugli obiettivi per la ricerca pubblica

Pubblicato il 04 Mar 2021

Gianpiero Ruggiero

Esperto in valutazione e processi di innovazione del CNR

microscopio ricerca

Mentre Mario Draghi giurava come nuovo premier, sulla Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il PNR – Programma Nazionale per la Ricerca 2021-2027[1] , uno degli ultimi atti del Governo Conte, passato un po’ in sordina per via della crisi politica. Eppure si tratta del documento che orienterà le politiche della ricerca in Italia per i prossimi sette anni, in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e le priorità della Commissione europea.

Da molti anni il settore della ricerca ricopre il ruolo di cenerentola nel panorama delle politiche pubbliche. Molto evocata a parole, da tutti, nei fatti la ricerca non assume mai il ruolo centrale, non viene mai messa dalla politica tra le battaglie di sistema. Come se spendere di più in ricerca e sviluppo fosse una partita che non vale la pena di giocare fino in fondo. E così facendo, in aggiunta anche a una endemica frammentazione del settore tra più dicasteri, la ricerca italiana, come sistema, non riesce a crescere e svilupparsi come dovrebbe.

Eppure non bisognerebbe mai dimenticare qual è il posizionamento del nostro Paese (“innovatore moderato” secondo lo scoreboard europeo), con una ricerca pubblica di qualità ma sottodimensionata per risorse umane, economiche e strutturali; con una ricerca privata che, seppure in crescita, riflette una specializzazione produttiva non “science based”, con forti disparità territoriali e tecnologiche.

Cosa dice il Programma Nazionale per la Ricerca 2021-2027

Guardando alla struttura del PNR salta subito all’occhio l’allineamento con i cluster di Horizon Europe:

  • Salute
  • Cultura umanistica, creatività, trasformazioni sociali, società dell’inclusione
  • Sicurezza per i sistemi sociali
  • Digitale, industria, aerospazio
  • Clima, energia e mobilità sostenibile
  • Prodotti alimentari, bioeconomia, risorse naturali, agricoltura, ambiente

Questi sei grandi ambiti di ricerca e innovazione sono declinati, a loro volta, in aree d’intervento (sotto ambiti) che il Ministero dell’Università e della Ricerca ha individuato in coerenza con le specificità del contesto nazionale.

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Da sottolineare che il PNR contiene, in appendice, una pregevole matrice di conversione dei grandi ambiti di ricerca e innovazione con le politiche multilivello, con un aggancio agli obiettivi dell’Agenda 2030 (SDGs) e ai domini per la misurazione del benessere equo e sostenibile (BES). È un esempio concreto, da replicare in altre ambiti, di come iniziare a strutturare nei documenti programmatici l’orizzonte del benessere e dello sviluppo sostenibile, attraverso l’identificazione e realizzazione di azioni coerenti, convergenti e, quando possibile, congiunte fra le diverse amministrazioni.

Il PNR sposa l’approccio mission-oriented, che “mira a orientare e coordinare gli interventi pubblici al fine di raggiungere obiettivi sociali ambiziosi”. In questo contesto la ricerca diventa uno degli elementi funzionali, che – insieme ad altre iniziative politiche – consentirà “all’azione innovatrice di dispiegarsi e raggiungere l’obiettivo”, trovando soluzioni alle attuali sfide della società. Il PNR include anche due piani nazionali:

  1. il Programma nazionale per le infrastrutture di ricerca, che intende definire una rete delle infrastrutture di ricerca, espandendo il loro ruolo nell’innovazione e potenziando i rapporti con l’industria;
  2. il Piano nazionale per la scienza aperta, per garantire l’accesso aperto agli strumenti di produzione della ricerca, ai dati e alle pubblicazioni scientifiche.

I fondi per l’attuazione del PNR

All’attuazione del PNR sono destinati fondi di provenienza diversa, tra i quali risorse di bilancio del Ministero per l’università e la ricerca i fondi strutturali e di investimento europei, i fondi nazionali destinati alla Politica di Coesione e i programmi europei a gestione diretta (Horizon Europe, InvestEU, Europa digitale, Erasmus+, Europa Creativa, LIFE). Sui sette anni del programma (2021-2027), sono indicati 14,5 miliardi (non aggiuntivi), considerati i 12 miliardi del Fondo ordinario degli Enti, 1,5 del First, 1 del Prin Covid. Il PNR comprende anche le risorse per le assunzioni.

Il documento è il risultato di un lungo processo di concertazione e trae vantaggio dall’essere stato concepito tenendo conto sia della nuova programmazione della ricerca europea (il programma quadro “Orizzonte Europa”), sia di quanto andava maturando per dare concretezza al piano europeo Next Generation EU. Nel PNR viene ribadita la necessità di approcci di governance condivisa tra il MUR e le altre amministrazioni, uno punto cruciale del Piano, in quanto “la volontà di progettare e realizzare opportune sinergie tra strategie e programmi che intervengono in ambiti diversi, ad esempio quello della ricerca e quelli di sostegno alle capacità produttive, deve essere supportata da una efficace azione di coordinamento delle amministrazioni nel momento in cui questi programmi prendono forma e le autorità responsabili sono impegnate a definirne le priorità. Si intende, in questo modo, promuovere e sostenere azioni organizzate del sistema nazionale della ricerca su temi prioritari di carattere interdisciplinare o intersettoriale, come la realizzazione delle politiche sulla scienza aperta, l’innovazione aperta o sull’Intelligenza artificiale”.

Ricerca, l’obiettivo: investire di più

Per capire meglio dove sta andando il “sistema ricerca”, il PNR andrebbe letto inquadrandolo con altri due documenti di indirizzo e programmazione strategica, una lettura comparata dalla quale emergere con più chiarezza la visione “straordinaria”, richiesta a livello internazionale, con la gestione “ordinaria” pensata dall’Italia: il riferimento è al Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza, il cui testo è in discussione in Parlamento, e alla Legge di Bilancio 2021, approvata a fine dicembre.

Il PNR, insieme a Legge di Bilancio e PNRR, in primo luogo esprimono lo sforzo di invertire la tendenza del taglio di risorse da immettere nel settore. Per fortuna gli investimenti risultano in aumento, seppur debolmente. Certamente non si è ancora vicino a quanto richiesto da quattordici scienziati, più noto come “Piano Amaldi” (dal nome del primo promotore), che può essere riassunto nello slogan: investire nella ricerca pubblica 15 miliardi in 5 anni. Una cifra corrispondente a un aumento di 1 miliardo ogni anno, che permetterebbe di arrivare, nel 2025, a un livello strutturale dello 0,75% del Pil, il livello della Francia di oggi.

Gli appelli del mondo scientifico e culturale, a investire maggiori risorse nella ricerca pubblica, partono tutti da alcuni dati inconfutabili. L’Italia attualmente investe solo circa lo 0,5% del suo PIL in ricerca pubblica, di base e applicata (150 euro per ogni cittadino contro i 250 e 400 di Francia e Germania) e sommando anche i programmi di sviluppo industriale e i contributi del settore privato, contribuisce ai capitoli ricerca e sviluppo con l’1,4% del PIL, contro il 2,2% della Francia e il 3,1% della Germania. Di conseguenza i ricercatori pubblici sono circa 75.000 nel nostro paese, contro i 110.000 della Francia e i 160.000 della Germania. Inoltre, è da tener presente che lo 0,5% italiano viene speso per lo più in salari e non in attività di ricerca. È deludente vedere le statistiche dei ricercatori di nazionalità italiana, vincitori di bandi internazionali ERC, che decidono di svolgere le proprie ricerche all’estero; è altrettanto frustrante creare nuovi ricercatori, le cui proposte di ricerca non verranno mai adeguatamente finanziate.

La governance

Un’iniezione di risorse aggiuntive, in un sistema in forte sofferenza da troppi anni, è senz’altro da valutare positivamente. Ma sappiamo che le risorse vanno correttamente indirizzate e gestite, attraverso una rigorosa valutazione dei progetti attuativi, garantendo le necessarie sinergie tra i titolari dei programmi e i loro beneficiari. In tale prospettiva, è da registrare con favore l’approccio di governance condivisa tra MUR e le altre amministrazioni che emerge dal Programma Nazionale per la Ricerca.

L’aver istituito presso il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) la “Commissione per la ricerca”, composta da un rappresentante fiduciario di ogni Ministero, appare un idoneo strumento di coordinamento che potrà garantire, quando necessario, le azioni opportune a favorire l’attuazione di politiche multilivello e una partecipazione, appunto, coordinata alle numerose iniziative di partenariato europeo. L’aver istituito la Commissione per la ricerca in seno al CIPE, però, ha fatto emergere con più clamore un’assenza importante, di non poco conto.

In nessuno dei tre documenti programmatici esaminati, in particolare, viene mai citata l’Agenzia Nazionale per la Ricerca[2]. Istituita sulla carta per promuovere e finanziare progetti di ricerca altamente strategici, da realizzare in Italia ad opera di soggetti pubblici e privati, favorire l’internazionalizzazione delle attività di ricerca italiane, nonché definire un piano di semplificazione delle procedure amministrative e contabili relative ai progetti di ricerca, al momento dell’Agenzia si sono perse le tracce. Scomparsa dai radar, appare destinata a finire su un binario morto prima ancora di nascere.

L’Italia è l’unica fra le grandi nazioni ancora priva di una Struttura o Agenzia comparabile a NSF (Usa), DFG (Germania), ANR (Francia), MRC (UK), presenti in altri paesi in cui l’investimento in ricerca è considerato una priorità per lo sviluppo nazionale. Nel vuoto che si è creato, alcuni accademici ha proposto la creazione da parte del Governo di una Fondazione per la Creatività Scientifica[3], fondazione di diritto privato afferente alla Presidenza del Consiglio e dedicata allo sviluppo della creatività ed innovazione scientifica attraverso il finanziamento di progetti di ricerca scientifica di base meritevoli proposti da singoli individui (bottom-up).

La ricerca nella Legge di bilancio 2021

La legge di Bilancio 2021 ha istituito quattro nuovi fondi per la ricerca: il Fondo per la ricerca in campo economico e sociale (con una dotazione di 8,5 milioni annui dal 2021), il Fondo per la promozione e lo sviluppo delle politiche del Programma nazionale per la ricerca (con una dotazione di 200 milioni per gli anni 2021 e 2022 e di 50 milioni il 2023), il Fondo per l’edilizia e le infrastrutture di ricerca (con una dotazione di 100 milioni per ciascuno degli anni 2021 e 2022, 250 milioni per il 2023, 200 milioni di euro per gli anni 2024 e 2025 e di 150 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2026 al 2035) e il Fondo per la valutazione e la valorizzazione dei progetti di ricerca (con una dotazione di 10 milioni a decorrere dal 2021).

Sono state assegnate risorse ad hoc anche per creare ecosistemi dell’innovazione nelle Regioni del Mezzogiorno. La Manovra 2021 prevede anche la possibilità di trasferire, in tutto o in parte, le risorse destinate al Fondo per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione introdotto dal DL “Rilancio” alle amministrazioni pubbliche per il finanziamento di progetti di trasformazione digitale.

Oltre ad istituire nuovi strumenti finanziari a sostegno della ricerca e dell’innovazione, la manovra 2021 va anche a rifinanziare misure esistenti, come il Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca, che viene incrementato di 65 milioni di euro annui a decorrere dal 2021. Inoltre, assicurare la partecipazione dell’Italia al Trattato antartico, a decorrere dal 2021, potrà essere assegnato un contributo di 23 milioni agli enti pubblici di ricerca incaricati dell’attuazione del Programma nazionale di ricerche in Antartide (PNRA).

Pur senza stravolgimenti o novità sostanziali, la manovra di bilancio può essere vista come l’introduzione di presupposti per sostenere un disegno più armonizzato del “sistema ricerca” e per invertire, finalmente, la tendenza che aveva visto negli anni addietro un taglio di 1 miliardo al Fondo per l’Università e di circa 250 milioni a quelli degli Enti.

L’importanza del capitale umano

Contribuire alla costruzione di un sistema della ricerca, intervenendo sulle sue debolezze e con una visione di lungo periodo, non può prescindere dal considerare il “capitale umano” come fattore determinante. Nell’insieme dei tre documenti, il vero nodo ancora non sciolto è il reclutamento di nuovi ricercatori e l’aumento del numero di dottorati. Manca quell’investimento necessario per avvicinare il numero di ricercatori pubblici italiani a quelli di Francia e Germania e invertire la fuga dei cervelli.

Tuttavia, questa carenza di risorse non ha ancora minato la qualità della ricerca prodotta nel nostro paese. Assistiamo a un fenomeno che va sotto il nome di “Paradosso Italiano”, per cui nelle più rilevanti riviste scientifiche la presenza di articoli di autori italiani è più alta, in termini di qualità e risonanza, in rapporto ai pochi fondi stanziati per la ricerca, di quella degli altri Paesi avanzati. Il che dimostra che la qualità della scienza italiana è elevatissima. Lo stesso non si può dire della quantità; peraltro una quota notevole di questa ricerca scientifica proviene da scienziati in media non giovanissimi, molti dei quali ormai vicini alla pensione.

Nella lettera inviata a Draghi da illustri scienziati[4], si può leggere come “la ricerca di base sia la fonte primaria dell’innovazione nelle società tecnologiche avanzate e che gli investimenti in ricerca, specialmente quelli in capitale umano, siano moltiplicatori potenti di crescita e sviluppo socio-economico, a rendimento differito nel tempo ma con effetti di lunga durata. Da sottolineare, tuttavia, che le spese per la formazione del capitale umano possono sviluppare la loro potenzialità solo se, nelle infrastrutture scientifiche del Paese, c’è equilibrio tra ricercatori in entrata e quelli in uscita verso l’estero”.

La ricerca nel PNRR

Con le basi poste dalla legge di bilancio, ci si sarebbe aspettato che il PNRR presentasse una visione d’insieme, con la definizione delle proposte progettuali dove indirizzare le risorse. Ma così non è. Il livello di dettaglio (giustificazione risorse e descrizione progetti) è scarno, limitato a una tavola riassuntiva con poche righe per ogni iniziativa proposta. Troppo poco per un tema, come la ricerca, che necessita di visione, di un disegno preciso e di una continuità nel tempo.

Nel documento ora in discussione in Parlamento, la ricerca è presente nella quarta missione “Istruzione e Ricerca”, sotto il titolo “Dalla ricerca all’impresa”, con una dotazione totale di circa 11,7 miliardi di euro. Nelle pagine relative a R&S viene esposta una diagnosi delle nostre debolezze, abbastanza nota e condivisibile[5], unitamente alle linee di intervento che puntano al loro rafforzamento: la promozione delle iniziative di interesse comune europeo e del partenariato, il trasferimento tecnologico e il sostegno all’innovazione.

Obiettivi certamente condivisibili, ma il cui livello di dettaglio fornito dalle brevi descrizioni dei diversi interventi che lo compongono e, soprattutto, il dimensionamento economico attribuito, non sciolgono i dubbi sul grado di integrazione tra l’insieme delle attività previste. All’interno delle risorse destinate al rafforzamento della ricerca e delle iniziative di partenariato europeo (di cui una parte finanziate già dal bilancio nazionale, quindi non risorse aggiuntive), sono presenti voci come gli accordi di innovazione, il fondo per l’edilizia e le infrastrutture, il finanziamento ai partenariati per l’innovazione[6]. Non è chiaro, perciò, quante risorse fresche “aggiuntive” allora andranno effettivamente a beneficio della ricerca di base.

Le infrastrutture di ricerca, per fare un altro esempio, vengono citate in più progetti, senza un’indicazione sul ruolo attribuito o del disegno che ne giustifichi la presenza nelle singole proposte di spesa. Un quadro che può essere ricavato per deduzione, collegando altre voci, quali gli IPCEI, i partenariati, gli ecosistemi dell’innovazione e i campioni nazionali. Così facendo non si comprende come la scelta per le infrastrutture si rapporti con quanto detto a proposito delle dieci missioni citate nei partenariati allargati o dei sette centri “campioni nazionali di R&S”, di cui viene fornito un elenco dettagliato.

Gli aspetti problematici

Ci sarebbe davvero tanto da specificare su queste iniziative, soprattutto quali siano gli aspetti metodologici da portare avanti (quanto siamo avanti nel porci come innovatori nelle aree tematiche citate?) e quali gli apporti in termini infrastrutturali (siamo in grado di costruire consorzi e infrastrutture che siano in grado di assolvere con efficacia alle funzioni di rendicontazione, coordinamento e sfruttamento?).

Il progetto dei “campioni nazionali”, nondimeno, non chiarisce cosa accadrà dopo il 2026, che diventa il termine entro cui i Centri nazionali dovranno dimostrare di essere in grado di autosostenersi, creando strutture in grado di moltiplicare le risorse e trovare sbocchi occupazionali adeguati. Iniziative di questo genere necessitano di una pianificazione e lungo termine, per la formazione e strutturazione del capitale umano e il raccordo con le politiche in atto, alcune proprio con finanziamenti europei, che non possono essere interpellate “a sportello”. Occorrerebbe, quindi, coinvolgere ex ante atenei ed enti di ricerca, mettendo in chiaro fin da subito impegni e contributi.

Se lo schema del PNRR per il settore della ricerca è in linea di massima condivisibile, le voci che lo compongono al momento non sembrano volare alto e necessitano di ulteriori approfondimenti. Molte proposte sono avvincenti, ma un giudizio definitivo si potrà dare solo al momento in cui i progetti saranno resi definitivamente più chiari, con l’identificazione dei programmi di ricerca più rilevanti e le opzioni di policy scelte dal governo per sostenerle.

Conclusioni

Nelle settimane a venire che mancano alla stesura definitiva del PNRR, anche in vista della riunione congiunta dei Ministri competenti sull’innovazione e sulla ricerca del G20, che si terrà il 5 e 6 agosto a Trieste, occorre rendere il percorso per raggiungere gli obiettivi prefissati più chiaro e puntuale, cercando di far lievitare le risorse per la ricerca pubblica e consolidare la ricerca fondamentale. Il potenziale innovativo c’è, ma si sente molto l’esigenza di una visione unitaria di lungo periodo e della capacità di investirci con coerenza.

_

Note

  1. Testo approvato dal Comitato interministeriale per la programmazione economica con Delibera 15 dicembre 2020, n. 74, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 18 del 23-1-2021: Approvazione del «Programma nazionale per la ricerca 2021-2027». (Delibera n. 74/2020).
  2. La L. di bilancio 2020 (L. 160/2019: art. 1, co. 240-248 e 250-252) ha istituito l’Agenzia nazionale per la ricerca (ANR), sottoposta alla vigilanza della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Università e della Ricerca, dotata di autonomia statutaria, organizzativa, tecnico-operativa e gestionale.
  3. Cfr. Istituire una Fondazione per la Creatività Scientifica. Lettera a Mario Draghi apparsa su HUFFPOST il 16 febbraio 2021.
  4. Cfr. Appello a Draghi: “Investiamo nella ricerca pubblica per rilanciare l’economia”, lettera di quattordici scienziati al presidente del Consiglio apparsa su La Repubblica il 21 febbraio 2021.
  5. La prova delle nostra debolezza si evince anche da un indice non citato: tra il 2014 e il 2019, l’Italia ha contribuito agli oltre 850 mila brevetti europei solo per il 7%, mentre la Germania per il 47%.
  6. In particolare, lo strumento riguarda progetti di ricerca e sviluppo con soluzioni innovative di alto profilo, tramite la collaborazione con centri di trasferimento tecnologico, organismi di ricerca e di diffusione della conoscenza. Viene indicato come modello il Fraunhofer tedesco, ossia una rete di Istituti di ricerca applicata dove ogni centro si specializza in una tecnologia emergente e su questa stipula contratti industriali. Se in Germania è un modello di successo, tanto da farne uno tra i più studiati al mondo, viene da chiedersi quanto questo modello, così peculiare, possa essere adattato e replicato nel contesto del nostro Paese.

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