La parola chiave dello sviluppo digitale dell’economia e della società italiana deve essere: semplicità. Nessuno ha motivo di mettere in dubbio le buone intenzioni del Governo al riguardo, e da parte dell’industria delle telecomunicazioni si sono intensificate – nel corso dell’ultimo anno – le dimostrazioni concrete dell’impegno a fare tutto quanto possibile affinchè si chiuda il “gap” digitalei cui l’Italia soffre, sia in termini d’infrastruttura a banda larga e ultralarga, sia in termini di servizi.
Eppure i problemi di fondo ci sono ancora tutti. Ed è necessario ricordarli, indicando anche le possibili soluzioni che con un modesto impegno e nessuno stanziamento finanziario aggiuntivo le autorità potrebbero adottare.
Va innanzitutto fatta una premessa. Poiché gli operatori di Tlc si stanno impegnando, con importanti piani d’investimento, ad assicurare un contributo sostanziale per l’infrastrutturazione a banda ultralarga del Paese, hanno tutto il diritto di rivendicare che siano poste – da chi ne ha mezzi e doveri – le “condizioni abilitanti” per lo sviluppo delle reti e dei servizi digitali. Ed è qui che entra in gioco la parola chiave, la “semplicità”: se non si vuole che le nuove reti restino sottoutilizzate, occorre pensare a un modello digitale per il Paese che ponga al centro appunto la semplicità. Semplicità d’istallazione delle nuove infrastrutture, semplicità d’accesso e uso dei nuovi servizi.
Non commettiamo l’errore di considerare scontato questo percorso, perché gli ostacoli da superare sono ancora molti. A cominciare proprio dalle previste, promesse, e ancora mancanti semplificazioni.
Ricordiamo le più importanti.
Già il decreto “Crescita 2.0” del 2012, nel definire l’Agenda Digitale italiana, indicava alcune condizioni abilitanti da attuare, di cui quel Governo sembrava volersi far carico. Fra queste, la necessità di giungere a una disciplina omogenea per tutto il territorio nazionale che semplificasse l’iter di permessi e procedure per la messa in opera delle infrastrutture digitali, sia fisse che mobili. Disciplina che doveva essere emanata entro pochi mesi dal decreto. Ma a tre anni di distanza possiamo contare solo su misure parziali.
E’ il caso del regolamento sugli scavi della fibra ottica, emanato con un ritardo di un anno e per di più con un testo ancora carente che non recepisce tutte le opportunità di accelerazione e ottimizzazione dei lavori offerte dall’innovazione tecniche di posa della fibra. E’ anche il caso delle “linee guide per la rilevazione delle emissioni elettromagnetiche”, sempre previste dal “Crescita 2.0”, con l’obiettivo di consentire l’ottimizzazione della copertura mobile. Queste “linee guida” sono tre, ma solo uno dei relativi decreti è stato varato dal Ministero dell’Ambiente, mentre non è possibile formulare ipotesi sulla tempistica degli altri due. L’impatto di tali ritardi sullo sviluppo dell’infrastrutturazione a banda ultralarga è rilevante.
Questi ritardi della politica costano moltissimo all’economia italiana e a noi operatori. Per la rete fissa, quest’extra-costo causato dai ritardi sugli investimenti “pesa” dal 30% al 50% in più. A parità d’investimento, l’efficacia in termini di copertura del territorio in Italia risulta essere molto inferiore rispetto agli altri paesi europei.
Anche nel caso dello sviluppo della rete mobile i ritardi normativi pesano in termini molto negativi, poiché le linee guida dovrebbero uniformare – per l’intero territorio nazionale – valutazioni e parametri che sono utili sia all’attività delle Arpa e Appa, che a quella degli operatori. Le nuove norme, infatti, da un lato devono agevolare le operazioni di controllo delle emissioni da parte delle agenzie, dall’altro semplificare le operazioni di progettazione delle reti mobili. Se mancano, tutto è più difficile e – ancora – più costoso.
Se dobbiamo competere nel mercato unico europeo non possiamo più permetterci disallineamenti sulle regole del gioco e questo, con lo sguardo rivolto al ruolo del mobile nel mercato italiano, deve essere chiaro anche rispetto ai limiti fissati dal legislatore per l’emissione elettromagnetica. Tali limiti sono stati determinati senza alcun riferimento alle evidenze scientifiche e alle raccomandazioni europee e sono stati fissati a valori che sono i più bassi d’Europa, in omaggio a un malinteso senso di protezione degli utenti che, invece di tranquillizzare la popolazione, ha ottenuto il pessimo risultato di scatenare oltre misura la sindrome Nimby (Not In My Back Yard) ogni volta che si tratta di posare antenne sul territorio. In questo modo l’attività degli operatori è risultata doppiamente complicata, poiché si trovano costretti a posare un maggior numero di antenne rispetto a quanto potrebbe essere necessario e ad affrontare tempi di autorizzazione che spesso devono incorporare quelli, lunghissimi, del contenzioso amministrativo. Anche in questo ambito è necessario colmare il gap con l’Europa.
L’ecosistema digitale dei paesi dell’Unione viaggia inesorabilmente verso una sempre crescente integrazione di capitali, investitori e regole. E il nostro paese dev’essere bene attento a non scoraggiare questi investitori con regole inutilmente peggiorative e a non indurli a concentrarsi altrove.
Va inoltre sottolineato che il “Regolamento posa” per la fibra e le “Linee guida sulle emissioni elettromagnetiche”, se pur misure attesissime e fondamentali, non esauriscono le semplificazioni necessarie per accelerare gli interventi d’infrastrutturazione a banda ultralarga fissa e mobile. L’attuazione della strategia di digitalizzazione del Paese ha incontrato ostacoli derivanti anche dalla dinamica non sempre efficace tra le diverse amministrazioni in cui si articola lo Stato italiano. Non credo siano possibili progressi significativi senza individuare un punto centrale di coordinamento delle politiche sul tema della digitalizzazione.
Data la rilevanza della sfida di cui stiamo parlando, il luogo in cui insediare questa funzione di coordinamento, che deve essere dotata di poteri adeguati, non può che essere la Presidenza del Consiglio, dove un viceministro per l’innovazione digitale potrebbe diventare la figura istituzionalmente deputata a bilanciare in modo nuovo, anche attraverso un attento ascolto di tutti gli interlocutori, quegli interessi che sinora hanno bloccato la trasformazione del Paese.
La situazione attuale registra invece un fenomeno contrario: cioè, una crescente frammentazione di competenze tra più organismi, anche di natura consultiva, che non sembrano dotati di quell’impegno politico in grado di riorientare le priorità delle amministrazioni e del Paese. La figura che abbiamo in mente è quindi per noi assolutamente necessaria, al fine di gestire in modo coordinato i diversi filoni di attività, in corso anche a livello comunitario, per la realizzazione della strategia sul Digital Single Market.
Le imprese hanno bisogno di un unico punto di riferimento credibile, presso cui sia possibile ricondurre a unitarietà, nella logica dell’innovazione, i molteplici aspetti della trasformazione digitale del Paese.
Ma non ne hanno bisogno soltanto le imprese, anzi. Dobbiamo affermare con forza che le regole e la semplificazione che noi chiediamo sono invece innovazioni indispensabili al Paese. Indispensabili per il suo sviluppo economico e soprattutto per la soluzione del problema più acuto della nostra società: la disoccupazione, in particolare quella giovanile, ovvero di quella generazione che dispone di maggiore facilità e naturalezza nell’abbracciare il mondo del digitale.
Bene ha fatto il Governo a progettare le misure che vanno sotto il nome di “Garanzia giovani”, ma sarebbero monche se non si integrassero con le innovazioni normative necessarie per liberare gli investimenti ed accentuare l’efficienza del sistema: prime fra tutte, dunque, le innovazioni che impattano proprio sul nostro mestiere, quello di abilitare la digitalizzazione del Paese.