Ho avuto il privilegio, qualche giorno fa, di essere invitato alla presentazione del Rapporto “Lo Stato Digitale”, frutto del lavoro degli ottimi Alfonso Gambardella, Greta Nasi, Aura Bertoni e Andrea Fosfuri. Torno sempre molto volentieri nella Sala Tarantelli a Palazzo Vidoni: sarà sicuramente casuale, ma tutte le volte che ci sono stato ho avuto modo di constatare come lo spread tra le cose che si dicono a porte più o meno chiuse e quelle che si vanno proclamando nei convegni continua – fortunatamente – a essere alto. Fuori dal “circo mediatico”, tutti acquistano una dimensione di concretezza che fa decisamente bene al cuore e lascia ampi margini di speranza in un futuro migliore.
“Lo Stato Digitale”, in estrema sintesi, prova a disegnare un modello concreto e sostenibile di evoluzione delle ormai rottamabili strategie di e-government. Un modello fortemente orientato al superamento del localismo e del protezionismo nei confronti delle società ICT “in-house”, da attuare attraverso una decisa centralizzazione della governance, non escludendo ripensamenti rispetto all’architettura attuale governata da un articolo 117 della Costituzione modificato forse troppo frettolosamente qualche anno fa.
Ma non è di questo che voglio parlare qui oggi. Preferisco riprendere un ottimo e circostanziatissimo intervento di Yoram Gutgeld, consigliere economico del Presidente del Consiglio, intervenuto insieme a Paolo Coppola e a Carlo Cottarelli alla presentazione del Report.
Gutgeld ha iniziato il suo intervento con una provocazione: “e se l’Agenda Digitale non servisse a niente?” Non male, come inizio, non c’è che dire. Mentre pronunciava queste parole, mi tornavano in mente cose che vado scrivendo ormai da qualche mese e che – fortunatamente – non sono il solo a pensare. Mi riferisco alla necessità di far uscire il tema “agenda digitale” da una sorta di “ghetto di lusso” nel quale lo si è voluto infilare a forza. Una specie di “zona franca”, di territorio popolato da idolatri dell’autoreferenzialità. Con lo straordinario risultato rappresentato dalla sostanziale indifferenza con la quale tutto il resto del mondo circonda qualsiasi tentativo di “incursioni digitali” nella sfera della burocrazia e della politica.
Gutgeld, in sostanza, dice: “non ha senso l’agenda digitale, quello che si deve fare è lavorare alla realizzazione di obiettivi di sistema che vedano le tecnologie come semplici strumenti di attuazione”. Tenendo anche presente che “di soldi per l’e-government ne abbiamo investiti davvero tantissimi, con risultati non proprio entusiasmanti”. E anche qui, mi ci ritrovo benissimo: le mie critiche nei confronti di mirabolanti piani di e-government dove nessuno si chiedeva che cosa ci si aspettava a fronte di centinaia di milioni spesi in portali e smart card datano ormai qualche annetto: ho iniziato nel 2009, se ricordo bene, iniziando una tavola rotonda di cui ero moderatore dicendo più o meno una cosa come “noto con disappunto che anche oggi non ci sono in sala sindaci e presidenti di regioni, quindi anche questa volta ce la cantiamo e ce la suoniamo tra di noi”.
Mi risulta quindi facile sposare l’ipotesi di Gutgeld: partiamo da una serie di obiettivi di sistema, rigorosamente non declinati come “catalogo di tecnologie disponibili”. Proviamo a mettere in fila obiettivi come “ridurre del 30% il tempo di lavorazione di un procedimento amministrativo”, “ridurre di x tonnellate il consumo annuale di fogli A4”, “abolire la consegna di lastre radiografiche”, “espletare entro x giorni la procedura di reperimento e convocazione di un teste nei processi penali”, eccetera. Il resto, viene da sé. Le tecnologie, conseguono. Specie se si prevedono adeguate penalizzazioni (in termini di mancata attribuzione del premio di risultato) per i dirigenti “distratti” o non collaborativi.
A questo punto, l’agenda digitale perde completamente di significato ma contemporaneamente va a permeare anche l’angolo più recondito della pubblica amministrazione. Con evidenti risultati sia in termini di impatto verso i cittadini e le imprese che di risultato in termini di sviluppo del mercato ICT per il public sector. E l’Agenzia può tornare a fare quello che dovrebbe fare: il braccio tecnologico di una PA le cui strategie digitali vengono riportate – finalmente – a livello politico.