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Rete unica, i rischi della gestione privata: ecco di cosa abbiamo (davvero) bisogno

Perché la rete in fibra sia davvero l’infrastruttura abilitante alla connettività diffusa, alla concorrenza di servizi e alla digitalizzazione autentica del Paese non basta che sia capillare, bisogna che sia neutra e aperta a tutti. E affidare una reta unica a un incumbent privato è una pessima idea. Vediamo perché

Pubblicato il 16 Set 2020

Marco Forzati

RISE Research Institutes of Sweden, Esperto esterno per la Commissione europea

fibra

Che la costruzione di una rete FTTH capillare sia una necessità urgente per il Paese è un’evidenza sempre più pressante. Basta viaggiare un po’ per l’Italia, dalle periferie ai centri storici, dalle località turistiche ai borghi e le campagne per imbattersi in frustranti esempi di digital divide disseminati a macchia di leopardo per il territorio. Che una tale rete, specie nella parte d’accesso, sia sostanzialmente un monopolio naturale è altrettanto condiviso ma che la soluzione sia la “rete unica”, così come la si descrive nell’attuale dibattito, è meno evidente. Che questa nuova impresa poi debba essere in qualche modo a regia TIM proprio non si capisce. Mi spiego.

Un rete neutra e aperta a tutti

Perché la rete in fibra sia davvero l’infrastruttura abilitante alla connettività diffusa, alla concorrenza di servizi e alla digitalizzazione autentica del Paese non basta che sia capillare, bisogna che sia neutra e aperta a tutti. Il motivo è semplice: un operatore neutro (cioè wholesale only) avrà tutto l’interesse a rendere disponibile il maggior numero di punti d’accesso a qualunque operatore, mobile o fisso, che veda un’opportunità di mercato nel fatto di avere una connessione in fibra, attiva o passiva, senza passare dal proprio concorrente più forte, cioè l’incumbent. Poiché l’operatore neutro non vende connettività al dettaglio, non entra in concorrenza con i propri clienti, anzi crea una concomitanza di interessi nel vedere il maggior numero di utenti finali e di punti d’accesso mobile (backhauling 5G, ma anche LTE, IoT e quant’altro di innovativo il mercato si inventi per sfruttare connettività capillare e già installata).

Ai fini di massimizzare la concorrenza e l’innovazione, d’altra parte, importa meno che di reti ce ne siano una o due, o anche tre. Ciò che importa è che la somma delle reti rappresenti una copertura totale e capillare del territorio e che l’infrastruttura sia neutra e aperta a tutti. Certamente, avere duplicazioni di rete (cioè due o più connessioni FTTH concorrenti per alcune utenze) è una situazione non ideale dal punto di vista di ottimizzazione delle risorse ma è senz’altro preferibile all’alternativa di avere milioni di utenze senza nessuna connessione FTTH (come è stato il caso per decenni in tutti i mercati dominati dagli incumbent). Inoltre, un po’ di sana concorrenza infrastrutturale nelle aree commercialmente più interessanti può anche avere effetti positivi sull’intero mercato.

La rete unica affidata a un incumbent privato: i rischi

Questo non esclude che una rete unica non avrebbe dei vantaggi, in primis, appunto, quello di ridurre il rischio di sperperare risorse in inutili duplicazioni, concentrando le energie del sistema Paese sulla realizzazione di una rete capillare. A mio avviso, però, non è indispensabile. E affidare una rete unica a un incumbent privato come TIM sarebbe una pessima idea, per via di due ingombranti conflitti d’interesse che frenerebbero la creazione dello scenario da Gigabit society descritto sopra.

Per prima cosa, il monopolio di TIM sulla rete d’accesso in rame è il proprio asset più importante: costruire una rete FTTH capillare significherebbe annullarne il valore. Non a caso non solo TIM, ma pressoché tutti gli incumbent europei hanno costruito FTTH solo nella misura minima necessaria per non essere travolti dai concorrenti (vedi UK e Germania che rimangono fanalini di coda in Europa, grazie alla forza dei propri incumbent, o Svezia e Francia, dove gli incumbent hanno ora una buona rete FTTH, come risposta alle molteplici reti aperte comunali o regionali, o ancora l’Olanda, dove KPN si è acquistata la rete FTTH di Reggefiber e poi ha tirato il freno a mano sui progetti FTTH).

L’alternativa, chiaramente, sarebbe il copper switch off da parte di TIM, come investimento lungimirante per poter mantenere il monopolio sull’ultimo miglio (come hanno fatto Telefonica in Spagna e PT in Portogallo). Per far questo, però, ci vogliono capitali e piani industriali a lungo termine di cui TIM non sembra essere dotata. Una “rete unica” a regia TIM diventerebbe con ogni probabilità un pastrocchio di fibra mal sfruttata (dove già è stata posata) e rame col booster del FTTC. Insomma: lo stallo.

Il secondo conflitto d’interessi è quello classico degli operatori verticalmente integrati, cioè di essere, come wholesaler, in diretta concorrenza con i propri clienti (operatori che vendono servizi al dettaglio). Chi sostiene con entusiasmo la rete unica parla di assetti societari di garanzia, di governance, di un ruolo di CDP e ricorda che esiste già un regime di regolamentazione per il rame che potrebbe funzionare anche per il FTTH. Ma la domanda è: perché complicare le cose, quando la soluzione semplice esiste già?

Ciò di cui il Paese ha (veramente) bisogno

L’Italia, dopo decenni di stallo e di carenza non solo di investimenti ma anche di visione per un’infrastruttura chiave per il proprio futuro, si trova oggi con un chiaro piano nazionale, obbiettivi ambiziosi e un operatore FTTH neutro. Questo ha generato un’accelerazione dello sviluppo della rete, e portato il Paese, pur con prevedibili ritardi, difficoltà burocratiche e dispute legali, ad avere una penetrazione FTTH in rapida ascesa e già più che doppia rispetto a Germania e Regno Unito.

L’altro slogan spesso sbandierato dai sostenitori della rete unica a regia TIM è quello che la rete in fibra è un’infrastruttura strategica. Su questo siamo tutti d’accordo ed è molto positivo che anche la politica stia facendo dell’italianità della rete un cavallo di battaglia. Ma che vantaggio ci sarebbe nell’avere un’infrastruttura strategica in mano ad un attore privato, italiano o estero che sia? Se questo punto sta veramente a cuore, allora il modello da inseguire è piuttosto quello di cercare di portare la rete sotto maggior controllo pubblico (magari con un modello a concessione a operatori privati neutri), non di venderla ad un’azienda privata (la cui “italianità” è peraltro pure discutibile, specie nel lungo termine).

Ciò di cui il Paese ha bisogno è la soluzione rapida di contenziosi e mancati permessi per realizzare quanto prima l’infrastruttura FTTH pianificata, una soluzione per le aree grigie, tagliate fuori dal piano BUL e dimenticate dal mercato (la Commissione europea è peraltro sensibile al tema) e un rafforzamento del modello di rete aperta e neutra che Open Fiber è in poco tempo riuscita a stabilire sul mercato. Volendo essere veramente ambiziosi, si potrebbe anche parlare di unire la rete FTTH di Open Fiber con la rete d’accesso rame+fibra scorporata da TIM, trasformando quest’ultimo in un puro service provider internazionale con focus su servizi innovativi. Ma questa sarebbe veramente un’altra storia.

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