La vicenda della rete unica di TIM e Open Fiber (OF) continua a snodarsi come una telenovela sudamericana, sempre alla ricerca di un lieto fine tra nuovi intrecci, colpi di scena e annunci a sorpresa.
Mentre alcuni, forzando la mano, vorrebbero darla già per fatta, escono indiscrezioni su presunte pressioni governative per chiudere l’operazione entro il 4 agosto (data che coincide con il CDA di TIM per l’approvazione dei prossimi risultati trimestrali). Ma, intanto che sulla stampa sembra prevalere un pensiero sempre più acritico e acquiescente nei confronti del progetto della “rete unica” a guida TIM, sebbene in difetto di motivazioni e di analisi, da Il Sole 24 Ore si leva la voce autorevole e ricca di esperienza di Franco Bernabè per dire esattamente il contrario: è troppo tardi per realizzare la rete unica.
L’analisi di Bernabè è la più dettagliata che, nel mio piccolo, ho finora avuto modo di leggere sulla stampa e vale la pena riassumerla. La prima motivazione è tecnica: «Non si può più pensare di innestare l’una nell’altra» perché hanno strutture (topologie) diverse, partono da punti diversi e le sinergie sarebbero quindi scarse. La seconda è di metodo: con la rete unica il governo sembra perseguire quattro obiettivi: migliorare la dotazione infrastrutturale del Paese; evitare lo spreco di risorse pubbliche da parte di CDP; rafforzare la posizione di Telecom; mantenere un grado sufficiente di concorrenza. Ma, obietta Bernabè, una «semplice regola matematica, che vale anche in economia, dice che per perseguire una pluralità di obiettivi devi avere a disposizione una pluralità di strumenti. Finora, apparentemente, l’unico strumento sul tavolo è la rete unica». La terza va alla sostanza del problema: «anche mettendo insieme Telecom e Open Fiber non si arriverebbe ad una rete unica» perché in Italia ci sono anche altre reti e nei principali paesi ce ne sono almeno due. La quarta è di opportunità economica: «sottraendo la rete a Telecom, il Governo si troverebbe a dover gestire la crisi di un gruppo come Telecom». Quindi, Bernabè conclude suggerendo a CDP di ricapitalizzare TIM vendendo la sua quota in Open Fiber, facile da ricollocare, mentre TIM e OF con un accordo societario o commerciale potrebbero dividersi il mercato nelle aree grigie, dove nessuno ancora si sta muovendo. Come lo stesso Bernabè premette, la sua proposta si allontana dal dibattito in corso. Ma, occorre dargli atto, è una proposta motivata.
Anche io, come Bernabè, sebbene dal mio punto di vista, come ho più volte avuto modo di scrivere, sono molto scettico nei confronti della rete unica con TIM che acquisisce OF. A mio parere, non aiuta l’Italia sul fronte della digitalizzazione, su cui è molto in ritardo quando, stando al Recovery Plan appena concordato, dovrebbe invece accelerare e crea più problemi di quanti ne vorrebbe risolvere, senza dare garanzie di risolvere almeno quelli che già ci sono.
Pertanto, se a futura memoria è consentita una parentesi di parresia, vorrei contribuire al dibattito in materia aggiungendo alcuni punti dubbi al dibattito sulla questione della rete unica.
Serve davvero la rete unica?
Come sottolineato anche da Bernabè, il primo, e forse il più importante, nodo della questione «rete unica» è proprio l’essenza stessa del problema: perché abbiamo bisogno di una rete unica? Da un certo punto di vista, la rete unica l’abbiamo sempre avuta fino alla creazione di OF nel 2015. Non contiamo che dal 2000 c’era anche la rete di Fastweb, la prima in fibra al mondo, perché era concentrata in poche aree geografiche. Ma tutto il mondo più industrializzato, tranne l’Italia e la Grecia, ha due reti di telecomunicazioni: quella telefonica e la rete della TV via cavo.
Quest’ultima, di fatto, è una seconda rete di telecomunicazioni: porta la voce, Internet e il video. Anzi, gran parte della differenza di copertura tra l’Italia e gli altri paesi UE per le connessioni superiori a 100 Mbps è dovuta all’utilizzo di tecnologie Docsis sulle reti della TV via cavo, non ad altro. In Italia la rete della TV via cavo avrebbe dovuto essere il progetto Socrate che, per ragioni tuttora industrialmente poco chiare, fu inopinatamente sospeso ad un certo punto. Quindi, se in Italia c’è OF invece della rete della TV via cavo, che differenza fa? Come emerge da una ricerca di iDate, che ha analizzato ben 400 progetti di reti FTTH e FTTB in Europa al 2019, oltre il 59% di tutte le installazioni in fibra è realizzato da operatori alternativi, in concorrenza rispetto agli operatori incumbent, come la nostra TIM. Ciò non deve stupire.
Finanziariamente le società incumbent non hanno interesse a essere pioniere delle nuove infrastrutture in fibra. Per loro è più conveniente sfruttare il più a lungo possibile le proprie infrastrutture in rame già dispiegate e ammortizzate. Allora, perché preoccuparsi così tanto della duplicazione di infrastrutture di OF? Quel che accade in Italia è perfettamente in linea con quello che sta succedendo in altri paesi europei assolutamente comparabili con noi: Deutsche Glasfaser in Germania, Altice e Covage in Francia, Altice Portugal in Portogallo, Gigaclear, CityFiber e Hyperoptic in UK. In Italia, anche dopo la realizzazione delle “rete unica” ci saranno comunque altre reti di telecomunicazioni. Ad esempio, Irideos, Eolo, Linkem, per citarne alcune.
Da quando c’è OF la cablatura in fibra è ripartita e dalla penultima posizione che avevamo in Europa nel 2015, oggi siamo il secondo paese in più veloce crescita per cablatura in fibra FTTH (+72% dal 2018 al 2019) e il terzo in numero assoluto di case coperte dopo Francia e Spagna (iDate, 2020). Con questi numeri, se lasciassimo correre la competizione ancora un altro paio di anni, i ritardi della fibra in Italia sarebbero senz’altro colmati e si potrebbe parlare di rete unica da un’altra prospettiva.
La rete unica accelererà la cablatura in fibra dell’Italia?
Questa considerazione ci porta al secondo punto, strettamente legato al primo: la rete unica accelererà la cablatura in fibra dell’Italia? Come ha fatto presente qualche settimana Elisabetta Ripa, amministratore delegato di Open Fiber in un’intervista al Messaggero, in questa fase, con le regole appena modificate per riaccelerare la posa della fibra «qualsiasi operazione di fusione o acquisizione ora bloccherebbe le attività e gli investimenti che Open Fiber sta realizzando. Il risultato sarebbe un ritardo». D’altronde, le due reti sono profondamente diverse, i problemi regolamentari da affrontare per unire le due società enormi, le strutture organizzative perfettamente duplicate. Dal momento dell’approvazione dell’operazione, avere una rete unica non è questione di mesi ma di molto più tempo, perché i problemi regolamentari e legali sono davvero molto articolati, e siamo in Italia. Dato che TIM ritiene irrinunciabile mantenere la maggioranza di controllo della rete, sia l’AGCOM sia l’AGCM si sono già espresse pubblicamente in senso contrario. Non sarà facile superare le obiezioni già formulate. Inoltre, OF ha vinto 3 bandi con fondi europei (1,5 miliardi di euro in totale) per collegare circa 7.000 comuni come operatore wholesale-only. Gli altri operatori, da un lato potranno ricorrere alla giustizia amministrativa per accertare la decadenza di OF (se controllata da TIM) dalle condizioni che le hanno permesso di vincere sia per i comuni coperti sia per quelli ancora da coprire. Dall’altro lato, potranno segnalare alla Direzione Generale Concorrenza della Commissione Europea sia il venire meno delle suddette condizioni (rilevanti ai sensi della normativa sugli Aiuti di Stato, con l’effetto di perdita dei fondi comunitari per la Banda Ultralarga), sia il rafforzamento della posizione dominante in capo a TIM (rilevante ai sensi della Merger Regulation), da vietare ai sensi della giurisprudenza in materia.
Ma anche il Berec potrebbe essere chiamato a esprimersi, proprio per le sue nuove responsabilità in forza del nuovo Codice. Il tutto dovrà essere verificato alla luce degli effetti del nuovo codice delle comunicazioni, da poco entrato in vigore (21 dicembre 2018) ma il cui recepimento ancora non è stato completato dal Governo italiano. Il nuovo codice prevede trattamenti specifici per gli operatori wholesale only, come OF. Pertanto, l’esame dell’operazione sarà necessariamente molto attento, perché OF ha operato a cavallo dei due regimi ma anche perché gli operatori wholesale only stanno cominciando a fiorire un po’ dappertutto in Europa. Quel che sarà deciso per OF e Tim costituirà un precedente per tutti. A Bruxelles difficilmente qualcuno lascerà che si apra un varco in cui potrebbero volere passare eventualmente anche altri operatori verticalmente integrati che, basandosi sul precedente, furbescamente vogliano percorrere le stesse orme, mandando avanti società wholesale da reincorporare dopo averne sfruttato i benefici in modo strumentale. Infine, avendo Tim un significativo potere di mercato (SPM), operatori grandi e piccoli saranno legittimati ad opporsi all’operazione. Se Tim prende il controllo di OF – direttamente o indirettamente – per loro è chiaramente un danno. Ma questo è solo l’aspetto regolamentare. Dai dati appena pubblicati dall’Autorità per le Garanzie nelle Telecomunicazioni emerge che, fatto cento il mercato della connettività FTTH, TIM è ultima per quota di mercato tra i grandi operatori, con appena l’11%, mentre è di gran lunga leader del mercato DSL e FTTC. Come detto sopra, a TIM, come a tutti gli incumbent, semplicemente ritardare il passaggio alla fibra conviene finanziariamente. La rete unica potrebbe cambiare questa convenienza? Difficile immaginarlo. Quindi, dovrebbe succedere che la rete unica, controllata da TIM, come si sta discutendo, dovrebbe essere in grado di essere così autonoma dalla sua controllante da andare contro i suoi interessi? Molto difficile, ma non impossibile. Allora diventa centrale la questione della governance.
Con quale governance gestire la rete unica?
Questa ulteriore considerazione ci porta al terzo punto: che assetto dare alla rete unica? La vulgata dice che con CDP sia nella rete unica sia in TIM, come per la rete elettrica di Terna e quella del gas di Snam, l’interesse pubblico sarebbe salvo. Ma in Terna e Snam, entrambe quotate in Borsa, lo Stato è l’azionista principale. Nella rete unica e in TIM non lo sarebbe. Per quanto si possa essere fantasiosi nell’immaginare meccanismi di garanzia, il rischio di una governance che prima o poi finisca “catturata” dalla proprietà è fortissimo. Proprio perché, più delle formule legali, in questi casi funzionano meglio le relazioni personali. Siamo in Italia, lo abbiamo visto in Autostrade, ma anche in tanti altri casi, quanto sottile ed efficace possa essere la capacità di influenzare le decisioni e le azioni dei singoli servitori dell’interesse pubblico. I nostri governi durano poco, i governanti ancora meno, figuriamoci quelli da questi nominati. Mentre i privati sono sempre gli stessi, e ben più riconoscenti. Si potrebbe obiettare che coinvolgendo gli altri operatori nella gestione della società della rete unica il problema sarebbe superato. Ma l’interesse degli operatori non è quello dei cittadini e non è neanche l’interesse pubblico.
Non si può chiedere agli operatori di investire somme cospicue per entrare nella società della rete. Non ne hanno, purtroppo, soprattutto dopo l’asta delle frequenze per il 5G. Ma se anche le avessero, sarebbe meglio che le investissero nelle loro infrastrutture, come la realizzazione del 5G. Quindi, avendo investito relativamente poco, sarebbe normale facessero prevalere i loro interessi particolari rispetto all’interesse generale. Pertanto, ben presto i nodi veri arriverebbero al pettine. Proviamo a immaginarci, ma è soltanto un esercizio di fantasia, quali potrebbero essere: meglio abbassare i prezzi all’ingrosso pagati dagli operatori telefonici o portare la fibra a tutti gli italiani, anche quelli delle aree rurali? Meglio risparmiare qualche soldo sulla manutenzione o creare un operatore della rete unica più efficiente, capace di garantire un rapido ripristino dei guasti? Meglio distribuire un dividendo o razionalizzare la rete, rendendola più moderna? Diamo pure il beneficio del dubbio agli operatori ma chi deve scegliere l’assetto della governance da dare alla rete unica, queste domande se le dovrà porre. E trovare una soluzione appropriata non sarà facile. Sempre che si voglia porre la questione, perché finora dell’interesse dei cittadini si è sentito parlare poco o nulla. Come se fosse tutto sussunto nel generico interesse pubblico alla “rete unica”. Purtroppo, non è così. Soprattutto dopo il lockdown, queste domande sono quelle vere da porci.
Perché non decidere anche del servizio Internet universale e di Sparkle?
Questo ci porta al quarto punto: la questione del riassetto generale delle telecomunicazioni in Italia. In termini concreti, questo decide chi saranno gli italiani che dovranno essere collegati in fibra ed essere a prova di futuro. Gli operatori di telecomunicazioni hanno – giustamente – come mantra l’utilizzo razionale del capitale. Pertanto, se ci affidassimo al loro giudizio, non coprirebbero mai le aree poco densamente popolate in fibra FTTH e, dovendo servire una determinata area, non la servirebbero mai per intero. Per questo è stato creato il servizio universale sulla telefonia: per potere dare a tutti i cittadini il telefono senza che l’operatore ci debba rimettere. Invece, il servizio universale per Internet non esiste ancora in Italia. Ma, se si volesse introdurlo, anche usando i fondi europei per la crisi Covid, sarebbe opportuno deciderlo subito, specificando chi e come dovrebbe essere servito. Ciò semplificherebbe non poco la gestione della nuova rete unica. Se si volesse fare una riflessione politica in proposito, il momento migliore per farla sarebbe prima di decidere come fare la rete unica nazionale.
Un riassetto nazionale delle telecomunicazioni non potrebbe prescindere dal mettere in discussione anche la proprietà e il controllo di Sparkle. Tanto si è detto e si è scritto su Sparkle in mani straniere, un asset strategico per le telecomunicazioni nel Mediterraneo, che dovrebbe ritornare sotto il pieno controllo nazionale, il che sarebbe una garanzia per tutti. Pertanto, dovendo mettere mano a nuovi equilibri nelle telecomunicazioni nazionali, andrebbe risolto anche questo nodo.
Servirà una OF anche per il 5G al di fuori delle grandi città?
Un ulteriore punto di discussione è il futuro del 5G. Anche se la questione non è ancora al centro dell’attenzione pubblica, è già chiaro che gli operatori mobili italiani, appesantiti da ricavi in costante calo e tartassati dall’asta sulle frequenze del 5G, avranno serie difficoltà a portare il 5G in tutta Italia. Si ripete il copione della fibra, ma in una sua versione allargata, perché tolto il 35% della popolazione, il costo di portare il 5G al resto della popolazione potrebbe essere proibitivo. La soluzione potrebbe essere di usare lo stesso veicolo all’ingrosso utilizzato per la fibra con la stessa missione: creare infrastrutture condivise là dove gli operatori privati non hanno convenienza a farlo. Ancora una volta, se la questione fosse affrontata sin da subito, sarebbe meglio. Anzi, se addirittura OF l’avviasse prima dell’accordo per la rete unica, questa mossa non potrebbe non avere un effetto sulle condizioni dell’accordo incrementando sensibilmente il valore di OF e il potere negoziale di CDP ed Enel. Ma la questione, per quanto strategica, al momento non sembra attirare l’attenzione delle parti. Eppure, tra le ragioni addotte per il recente aumento di capitale di OF da 450 milioni di euro, sottoscritto da CDP ed Enel, c’è anche lo “sviluppo di nuovi servizi evoluti (cloud, edge computing e reti dedicate per il business)” oltre agli interventi nelle “aree grigie” in qualità di operatore privato wholesale only e l’accelerazione nelle “aree bianche” (cluster C e D).
Che sinergie tra TIM e OF?
Il settimo punto di attenzione riguarda invece le sinergie tra TIM e OF. Tutti le danno un po’ per scontate. Ma il perimetro deciso da Tim per l’accordo con KKR include soltanto il rame dagli armadietti di strada fino alle case. Tenuto conto dell’attuale struttura della rete di OF, come detto anche da Bernabè nella sua recente intervista, le sinergie sarebbero quasi nulle. Diverso sarebbe se fossero incluse anche le centrali e gli apparati attivi della rete di accesso, su cui grazie alla fibra si potrebbero fare enormi economie, soprattutto se ciò consentisse di accelerare lo switch-off dal rame alla fibra per tutto il paese. Ricordo che TIM è, dopo Ferrovie dello Stato, il secondo più grande consumatore di energia elettrica del Paese. La fibra è molto meno energivora del rame. Se trasformassimo in fibra tutte le linee di telecomunicazioni italiane, avrebbe un forte impatto ecologico. Scorporare il solo tratto dall’armadietto a casa ha un senso per un investitore puramente finanziario. Non lo ha affatto per un investitore industriale che ha l’obiettivo di cablare il Paese. Questo è sicuramente un punto da rivedere in caso di accordo per la rete unica.
Da dove arrivano i ritardi della fibra in Italia?
Una delle ragioni addotte per la realizzazione della rete unica sono i ritardi di OF, per cui gli obiettivi del piano banda ultra larga – copertura al 100% nel 2020 – saranno raggiunti nel 2022-2023 secondo il Mise.
A parte che la maggiore fonte di ritardo sono stati proprio i ricorsi di TIM contro l’aggiudicazione del bando a OF, in una sua recentissima segnalazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) a Governo, Parlamento, Agcom e comuni, pur non entrando nel merito della rete unica, si occupa invece proprio di questi ritardi. In proposito, l’Agcm sollecita la rimozione degli «ostacoli ingiustificati all’installazione di impianti di telecomunicazione mobile» e «auspica che vengano adottate misure che riducano i tempi di installazione delle reti di telecomunicazioni e che semplifichino gli iter di autorizzazione delle opere pubbliche necessarie per la costruzione delle reti in fibra ottica previsti dall’articolo 88 del CCE».
Con spirito certosino, l’Agcom ricorda che «in 533 comuni con cantieri in esecuzione (su 1.427 comuni con progettazione definitiva) risultano mancanti 786 permessi da oltre 45 giorni. Di questi 786 permessi, 115 (14,6%) sono richiesti da oltre 45 giorni, 296 (37,7%) da 46 a 90 giorni, 224 (28,5%) da 4 a 6 mesi, 121 (15,4%) da 7 a 12 mesi, 30 (3,8%) da oltre 12 mesi. Analoghe condizioni si ritrovano con riferimento ai cantieri in fase di progettazione, con 358 permessi mancanti suddivisi in 145 (40,5%) richiesti da oltre 45 giorni, 128 (35,8%) da 46 a 90 giorni, 66 (18,4%) da 4 a 6 mesi, 16 (4,5%) da 7 a 12 mesi, 3 (1,0%) da oltre 12 mesi. Gli enti che devono concedere le autorizzazioni sono ANAS S.p.A., Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. e le Soprintendenze». Infine, l’Agcm sollecita ad accelerare i «processi di collaudo da parte di Infratel Italia» perché «a fronte di più di 289 mila unità immobiliari già realizzate e collaudabili, solo circa 61 mila (21%) sono state collaudate e attivate». Se, da una parte, è un giusto invito ulteriore a rimuovere gli ostacoli burocratici che rallentano un’opera di infrastrutturazione importante per il futuro dell’Italia, dall’altra, è chiaro anche quale è la fonte dei ritardi e che la rete unica non avrà di fronte una situazione diversa se le varie amministrazioni non cambieranno atteggiamento. La controprova è che, nelle aree nelle quali opera come soggetto privato, Open Fiber ha realizzato e messo in vendibilità oltre 6 milioni di linee in tre anni, quindi con volumi notevolmente superiori a quelli dell’incumbent. Complessivamente (aree ad intervento privato e pubblico) Open Fiber connette alla fibra ottica oltre 3 milioni di unità immobiliari all’anno, con una velocità notevolmente superiore a quella di TIM.
La rete unica e i voucher per gli incentivi alla domanda ultrabroadband
Nello stesso documento dell’Agcm vengono fissati chiaramente alcuni punti che dovrebbero essere rispettati dalla futura rete unica. Il più importante riguarda i voucher di sostegno alla domanda di banda ultralarga.
(Aggiornamento agosto 2020: i bonus internet e pc da 500 e 200 euro partono a settembre 2020).
Proprio come avevo fatto presente su queste pagine, l’Agcm sostiene che tali interventi, di natura generalizzata, destinati alle famiglie e alle imprese (interventi della c.d. fase II) dovrebbero essere coerenti anche con gli obiettivi della “Strategia Italiana per la Banda Ultralarga” del 2015 e con gli indirizzi della Commissione Europea del 2016 per la “Connettività per un mercato unico digitale competitivo: verso una società dei Gigabit europea”. Questi sono, occorre ricordarlo «una copertura ad almeno 100 Mbps fino all’85% della popolazione entro il 2020, nonché gli obiettivi 2025 di copertura al 100% di connessioni a più di 100 Mbps potenziabile a velocità Gigabit». Pertanto, pur nel rispetto della neutralità tecnologica, i voucher dovrebbero finanziare servizi di «connettività a più di 100 Mpbs e che siano potenziabili ad una velocità Gigabit». Se si includessero anche «soluzioni con velocità inferiori a 100 Mbps, si rischierebbe di pregiudicare i rapporti di concorrenza dinamica tra operatori – avvantaggiando soggetti che non effettuano investimenti e fanno leva sulla posizione detenuta storicamente sulla rete in rame» compromettendo «il processo di ammodernamento delle reti di comunicazione elettronica in Italia».
Infatti, secondo l’Agcm, ammettendo al beneficio del voucher «anche le connessioni con velocità inferiori a 100 Mbps si corre il rischio che la domanda da parte dei consumatori e delle imprese sia quasi totalmente indirizzata verso connessioni meno performanti. Infatti, poiché le connessioni ad almeno 100 Mpbs sono più costose, i consumatori tenderanno a scegliere connessioni meno veloci, in quanto il loro costo sarà coperto dai voucher per un periodo più lungo. In questo modo si amplificherà l’inerzia di consumatori e imprese che è stata osservata fino ad oggi, a discapito dell’adozione di connessioni ad alta capacità. Infatti, sebbene la percentuale di abitazioni raggiunte delle reti con velocità uguale o superiore a 100 Mbps sia del 30% nel 2020, l’Italia è quint’ultima in Europa per tasso di adozione delle linee fisse ad almeno 100 Mbps da parte di famiglie ed imprese, con una percentuale pari al 13,4%». Quindi, date le quote di mercato sulla connettività FTTH per la prima volta pubblicate quest’anno dall’Agcom, e commentate sopra al secondo punto, TIM senza OF avrebbe benefici molto marginali dai voucher appena rimessi in movimento dal Governo. La questione sarà fatta pesare?
Basterà la rete unica?
Molti hanno guardato maliziosamente alla rete unica come un possibile sollievo ai mali di TIM. Ma, a parte il debito cumulato, il vero problema di TIM è la costante erosione dei ricavi. Basterà la rete unica a stabilizzarli? Dal 2011 TIM ha perso circa il 33% dei ricavi a livello di gruppo, il 26% dei ricavi in Italia e il 58% delle linee fisse senza riuscire a ridurre in proporzione il debito. Gli investimenti ne hanno risentito. La guidance sugli investimenti si è costantemente ridotta dal 2016, nonostante la promessa dell’allora amministratore delegato Marco Patuano di incrementare gli investimenti. Nel piano 2016-18 era 12 miliardi di euro; 10,4 mld in quello 2017-18; 9,0 mld in quello 2018-19 e 2019-21 per essere ulteriormente ridotto, infine, a 8,7 miliardi nel piano 2020-22. La rete unica è un grosso problema per TIM che ha sottovalutato la transizione verso la fibra, ma non è l’unico. Anche perché non è ipotizzabile che la rete unica rallenti l’emorragia di clienti verso la rete. Oggi TIM ha circa 9 milioni di linee fisse. Le stime delle banche d’affari parlano entro il 2030 di OF che avrà più di 7,5 milioni, senza contare gli incentivi alla domanda. Ma, per il bene dell’Italia, speriamo che la rete unica basti ad avviare una svolta di TIM.
La rete unica è una privatizzazione in cui lo Stato investe risorse, non le ottiene
Se si decide per la rete unica, conferendo OF a TIM, automaticamente si privatizzano per la seconda volta le telecomunicazioni italiane. Anche questa volta i soci – non il management – sembrano incerti e latitanti nel loro ruolo. Questa volta sarà diversa? Dovendo piazzare una scommessa, viene più naturale dire di no. Prima di tutto perché non è chiaro chi sia il socio di controllo: Vivendi, Elliott, un ipotetico cavaliere bianco, CDP o un mix di questi? In secondo luogo, ma è anche la questione più preoccupante, perché non sono chiari gli obiettivi per nessuno di questi, fatta eccezione per CDP. Mentre questo passaggio avverrebbe con lo Stato che, dopo avere investito in una quota di minoranza di TIM (9,9%), apporta asset sotto il controllo di un privato. Ma se questo poi servisse a risolvere i nodi irrisolti delle telecomunicazioni italiane, dopo la privatizzazione sbagliata di Telecom Italia, ben venga. E questo ci porta all’ultimo punto.
L’investimento dello Stato in OF finora è stato eccezionalmente redditizio
Le reti di telecomunicazioni mobili dal 2015 ad oggi hanno perso circa il 13,1% dei ricavi (13,6 mld di euro in totale alla fine del 2019). Al contrario, quelle fisse li hanno aumentati (+0,6%), anche se di poco, attestandosi a 16,2 mld di euro. Quindi, con Enel e CDP, lo Stato italiano si è posizionato bene sul mercato delle telecomunicazioni: possiede l’asset che si sta difendendo meglio dalla competizione. Infatti, Enel e CDP hanno per OF un valore di carico totale di poco più di 550 milioni ciascuna. L’offerta che Enel ha ricevuto da Macquarie è di circa 7,7 miliardi di euro che, dedotto il debito di 1,8 miliardi, comporta comunque una plusvalenza implicita davvero notevole in appena cinque anni, oltre cinque volte l’investimento iniziale. Difficile dire che Enel e CDP abbiano sprecato i soldi dei propri azionisti o dei propri risparmiatori tanto che, anche con una stima rozza, è facile calcolare che l’investimento di CDP nella quota di minoranza di TIM è finora uscito gratis. Anche tenendo conto dell’aumento di capitale ancora in corso di OF (non ancora definito ma sarà fino a 450 mil euro totali), che non è possibile dire se fosse già incluso nella valutazione di Macquarie, è pur sempre un eccezionale risultato. Non andrebbe sprecato.
In conclusione, l’investimento pubblico in OF finora ha prodotto quasi 9 milioni di case passate in fibra ottica, una riaccelerazione della cablatura in fibra, che ha portato l’Italia a riavvicinarsi alla media europea, una cospicua plusvalenza potenziale e la riapertura della partita delle telecomunicazioni. La rete unica sarà in grado di gestire tutto questo valore creato? Da italiani ce lo auguriamo!
Decreto Semplificazioni e reti: tutte le misure per accelerare fibra e 5G