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Rete Unica tlc, cosa cambia con la firma del protocollo d’intesa: il matrimonio Tim-Open Fiber sempre più vicino

Con la firma del Memorandum of Understanding, l’integrazione tra le reti Tim e Open Fiber sembra essere davvero vicino: entro il 31 ottobre dovrebbero essere siglati gli accordi vincolanti volti a creare una rete unica. Ma resta ancora qualche snodo importante da affrontare

Pubblicato il 03 Giu 2022

telco e ott

Con la firma del Memorandum of Understanding (MoU) tra CDP Equity, KKR, Macquarie, Open Fiber e TIM si apre quella che sarà probabilmente l’ultima puntata della vicenda riguardante la Rete Unica delle telecomunicazioni italiane, che dovrebbe portare all’integrazione tra la rete fissa dell’operatore storico TIM e quella del suo principale concorrente wholesale, vale a dire Open Fiber.

Come da prassi, in questa prima fase negoziale il protocollo di intesa è “non vincolante” e prevede l’impegno ad avviare un processo volto alla creazione di un unico operatore delle reti di telecomunicazioni, con l’obiettivo di siglare eventuali accordi vincolanti entro 5 mesi (31 ottobre).

La linea retorica dell’operazione è quella ormai nota e incentrata sullo “sviluppo più celere, duraturo e sostenibile del Paese”, grazie alla realizzazione di una rete Very High Capacity Network (VHCN) in fibra ottica in modo capillare sul territorio e che consentirà l’accesso ai servizi più innovativi all’intera popolazione, alle istituzioni e alle imprese.

Vediamo quali sono le principali caratteristiche del MoU e gli snodi che andranno affrontati.

Rete unica TIM-Open Fiber, a chi conviene? Tutti i punti su cui riflettere

Rete unica tlc, la proprietà

Il primo punto rilevante è la conferma che l’operazione è finalizzata alla creazione di un operatore non verticalmente integrato e controllato da CDP Equity. Come era emerso chiaramente nella presentazione dei risultati 2021 di TIM, cade lo storico tabù del controllo dell’asset strategico della rete (di accesso) da parte di TIM. Vale la pena di ricordare che nella lettera di intenti con CDP dell’agosto 2020 era ancora previsto che TIM mantenesse almeno il 50,1% delle azioni di quella che veniva chiamata “AccessCo”.

A questo si aggiunge come saranno protagonisti dell’operazione, sebbene con una partecipazione di minoranza, due dei principali fondi infrastrutturali internazionali, KKR (statunitense) e Macquarie (australiano). Secondo le prime indicazioni riportate dal Messaggero, CDP dovrebbe detenere oltre il 70% delle quote, mentre i due fondi infrastrutturali dovrebbero controllare complessivamente, attorno al 25%, con una quota residuale (meno del 2%) in mano a Fastweb. In questo scenario si configura un controllo della principale infrastruttura di telecomunicazioni del Paese da parte dello Stato, con un totale disimpegno da parte di TIM, che si concentrerebbe sull’erogazione dei servizi.

Il punto di partenza è una situazione nella quale CDP detiene poco meno del 10% di TIM e il 60% di Open Fiber, mentre Macquarie controlla il 40% di Open Fiber e KKR il 37,5% di FiberCop (l’operatore che gestisce la parte secondaria della rete di accesso di TIM).

Il perimetro

Le parti hanno condiviso che “l’operazione possa articolarsi mediante la separazione delle attività infrastrutturali di rete fissa da quelle commerciali di TIM – mediante un’operazione societaria o combinazione di operazioni societarie da definirsi – e l’integrazione delle prime con la rete controllata da Open Fiber con modalità da definirsi”.

I progetti di separazione degli asset di TIM sono da sempre basati sull’assunto che “somma delle parti possa fare più del totale” e cioè che dalla separazione tra infrastrutture di rete (NetCo) e servizi (ServCo) si possa creare valore e un’opportunità per ridurre il pesante debito accumulato nelle precedenti operazioni societarie che hanno interessato il principale operatore nazionale. Dal punto di vista delle risorse umane, oltre la metà degli occupati in Italia dovrebbe rientrare nel perimetro di NetCo.

La novità è che lo scorporo potrebbe addirittura prevedere un’ulteriore separazione della società di servizi, in una componente focalizzata sulla clientela consumer e una componente incentrata invece su quella business e, in particolare, sui grandi clienti.

A prescindere dall’opzione che verrà poi preferita, gli snodi più rilevanti riguardano la gestione delle infrastrutture e dei servizi mobili (che sono comunque fuori del perimetro della società della rete), il controllo dei rilegamenti d’utente per i grandi clienti, il destino di Sparkle, nonché l’accesso alle infrastrutture di trasporto per garantire l’offerta di servizi end-to-end.

Il valore dell’operazione

Una volta chiarito definitivamente il modello di separazione e il perimetro, il punto centrale diventa la valorizzazione dei conferimenti dei diversi attori. La partita è appena iniziata, ma intanto sembra esserci una convergenza sulle “sinergie” derivanti dall’operazione, che sono state stimate in circa 5 miliardi di euro. Il valore delle sinergie è sicuramente un incentivo al rapido completamento della trattativa, visto che entrambe le realtà hanno importanti piani di sviluppo in corso.

Il nodo chiave rimane comunque il valore associato ai conferimenti. Le valutazioni degli analisti per la nuova società della rete vanno da 17 a 21 miliardi di euro e Intermonte stima l’Enterprise Value (EV) di NetCo in 16,7 miliardi di euro (FiberCop (8,2 miliardi, rete primaria 7,0 e Sparkle 1,5) rispetto agli 8,6 miliardi di Open Fiber. A questo proposito va ricordato come, negli ultimi due anni, la cessione del 50% di ENEL in Open Fiber abbia generato oltre 2,7 miliardi di euro, con un multiplo molto elevato rispetto all’EBITDA. Allo stesso tempo, la quota del 37,5% di FiberCop acquistata da KKR è stata pagata 1,8 miliardi di euro.

Riguardo all’allocazione del debito (oltre 22 miliardi), la maggior parte verrà realisticamente caricato su NetCo (con un rapporto Debito/EBITDA di 6-7), mentre la ServCo potrebbe avere un rapporto Debito/EBITDA dell’ordine di 2-3.

Molto chiara la posizione espressa dal Presidente di Vivendi, azionista di maggioranza relativa in TIM con il 23,75%, che ha ribadito come “Vivendi non appoggerà mai la cessione ai valori di cui si è parlato”. La partita è appena iniziata.

L’approvazione regolamentare

Un ultimo aspetto, non meno importante, e che in passato ha di fatto portato all’interruzione dei progetti di separazione della rete riguarda gli aspetti politici e regolamentari, il famoso “dividendo regolatorio”, che dovrebbe consentire l’allentamento degli obblighi regolamentari in seno all’operatore di servizi.

La politica nazionale sembra esprimere un interesse bipartisan per l’operazione, sulla scorta del controllo pubblico. Del resto, anche nel recente bando per la realizzazione della rete in fibra nelle aree grigie del Paese (3,7 miliardi di euro di finanziamento pubblico), il meccanismo di gara (massimale di lotti aggiudicabili a un unico candidato) ha portato di fatto ad una ripartizione dei 14 lotti tra Open Fiber (8) e TIM (6). La preoccupazione maggiore viene invece espressa dai sindacati, che temono un possibile processo di razionalizzazione, che potrebbe riguardare tagli dell’occupazione fino al 20% del totale in Italia.

Conclusioni

Il comunicato stampa si conclude con il doveroso richiamo al rispetto dei vincoli regolatori e alle necessarie autorizzazioni che con il nuovo assetto in discussione sembrano appaiono però meno critiche rispetto al passato. Tuttavia, mentre l’esito può essere abbastanza scontato, le condizioni per autorizzare un’operazione di concentrazione che modifica profondamente l’assetto concorrenziale sul mercato wholesale e la stessa competizione infrastrutturale sono tutte da definire.

L’attenzione verrà posta in particolare sui “remedies” da imporre, a cominciare dall’utilizzo delle infrastrutture che risulteranno duplicate, così come sulla verifica in materia di aiuti di Stato. Se ne è parlato meno nell’ultimo periodo, ma dal punto di vista regolamentare ritorna anche in auge il passaggio dai modelli di orientamento ai costi incrementali di lungo periodo tipici delle telecomunicazioni a quelli RAB (Regulatory Asset Base) utilizzati ad esempio nell’energia per sostenere i piani di investimento. Anche la richiesta dell’ultimo periodo per la revisione dei prezzi dei servizi all’ingrosso in funzione dell’inflazione è sintomo di un possibile cambiamento di scenario nei prossimi anni.

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