I grandi eventi storici – le guerre, le pestilenze, le crisi economiche (quella del 1929 piuttosto che la più recente del 2008) – hanno sempre avuto profondi impatti sull’organizzazione e sui valori della società, sull’economia e sulle imprese. E la pandemia Covid-19, che purtroppo ha ripreso slancio anche nel nostro Paese, sta avendo essa pure un impatto strutturale rilevante, soprattutto accelerando due macrotrend già precedentemente in atto: la digitalizzazione, da un lato, e la decarbonizzazione come risposta al riscaldamento globale, dall’altro.
“Restructuring after Covid will matter even more than recovery”, era il titolo di un articolo di Martin Sandbu – pubblicato a metà ottobre sul Financial Times – che nel sottotitolo precisava “There will be no return to the pre-pandemic normal. Policies must smooth the way forward”.
Il rilancio dell’economia non può essere, quindi, un mero ritorno a un passato che non ci sarà più, ma è necessario approfittare di questa congiuntura straordinaria – in cui l’indebitamento non sembra essere un problema (ma sicuramente tornerà a esserlo) – per concentrare le risorse su quella che appare essere la nuova economia: un’economia con più gente che lavora da casa e fa la spesa su Internet e con molte più attività materiali e intellettuali svolte da macchine intelligenti, un’economia che dopo essere cresciuta per 250 anni circa per merito dei combustibili fossili si propone di sostituirli nel giro di pochi decenni con fonti energetiche rinnovabili e che per abbattere i gas-serra è costretta (come accadde ai celebri orologiai svizzeri) ad abbandonare tecnologie anche raffinatissime – nell’industria e nell’agricoltura, nella mobilità e nelle costruzioni – sostituendole (fortunatamente con l’ausilio della digitalizzazione) con altre radicalmente nuove.
Come si sta muovendo il nostro governo? Temo, e tornerò su questo tema nelle conclusioni, più distribuendo soldi alle persone (il reddito di cittadinanza ne è un tipico esempio) che non finalizzandoli al rinnovo delle competenze e alla creazione di posti di lavoro con solide prospettive, più puntando al mantenimento in vita dell’esistente – a prescindere dalle probabilità di sopravvivenza – che non scommettendo sulle imprese (in trasformazione o nuove) con maggiori potenzialità di successo su scala globale nella nuova economia in rapida formazione, sotto la spinta anche della pandemia.
Fig. 1 – La “seconda ondata” in Europa [fonte: Financial Times]
Qualche numero sulla pandemia
Mentre scrivo – siamo quasi a fine ottobre – sono oltre 43 milioni i contagiati complessivamente accertati dall’inizio della pandemia e oltre un milione i morti: cifre ambedue sicuramente sottostimate, per la scarsa trasparenza di alcuni Paesi e la carente organizzazione sanitaria di altri. Il numero globale di morti giornalieri ha toccato il suo picco a quota 6.800 circa (media settimanale) a metà aprile, per poi oscillare su valori comunque elevati – conseguiti però con un continuo cambiamento della distribuzione geografica – sino a portarsi a quota 5.400 circa a metà ottobre. Il numero dei contagiati giornalieri ha ripreso con l’autunno a crescere fortemente in Europa, sino a far parlare di una seconda ondata [Fig. 1]: oltre 50mila in Francia, attorno a 20 mila in UK, Spagna e Italia, oltre 11mila in Germania. E allo stesso tempo negli Stati Uniti si è toccato il picco degli 83mila casi in un solo giorno.
Seppur con modalità diverse e variabili nel tempo, i governi di tutto il mondo hanno cercato di arginare il diffondersi della pandemia, in attesa dei tanto desiderati vaccini (per ora ancora solo una speranza), con l’introduzione di una serie di misure restrittive – le più drastiche qualificate come lockdown – volte a ridurre i contatti fra le persone: con un impatto sul PIL, sull’occupazione e sul debito pubblico dei diversi Paesi che è sotto gli occhi di tutti.
Fig. 2 – Le previsioni del Fondo Monetario Internazionale sull’andamento del PIL nel 2020 nelle principali economie mondiali: più ottimismo a ottobre che a giugno, ma prima che la “seconda ondata” si manifestasse nella sua pienezza [fonte: IMF]
Fig. 3 – Le previsioni della Commissione Europea, basate sulle stime dei governi [fonte: Commissione Europea e Financial Times]
L’impatto della pandemia sul PIL 2020: solo la Cina cresce
Nelle ultime stime pubblicate dal Fondo Monetario internazionale all’inizio di ottobre [Fig. 2] l’Italia – a causa in larga misura del peso diretto e indiretto che il turismo (ora evanescente) ha nella composizione del suo PIL – appare come il Paese, fra quelli economicamente di maggior rilievo, che più sta soffrendo l’impatto della pandemia. E i numeri purtroppo potrebbero ulteriormente peggiorare, con le restrizioni che la “seconda ondata” – si parla addirittura di “coprifuoco” – sta provocando: un peggioramento che riguarda non solo il 2020, ma le speranze di ripresa nel 2021.
I dati pubblicati dalla Commissione Europea sono un po’ meno pesanti per l’Italia, ma riflettono le stime del nostro governo (che peraltro aveva già messo il luce nelle sue previsioni le possibilità di peggioramento nel caso di una “seconda ondata”).
D’altra parte, la possibilità di una “double-dip recession” per l’Eurozona, di una ricaduta cioè dopo la ripresa post-lockdown, emergeva già dalla discesa nel mese di settembre del PMI-Purchasing Manager’s Index (il ben noto indice elaborato da IHS Markit che anticipa l’andamento dell’attività economica sulla base della dinamica degli ordini di acquisto): causata forse anche della conclusione del processo di ricostituzione delle scorte.
In piena ripresa invece la Cina, culla della pandemia, sino addirittura a più che recuperare i cali di attività causati dai lockdown nei primi mesi dell’anno. In calo, ma molto meno che l’Europa, gli Stati Uniti: probabilmente avvantaggiati da una regolamentazione molto più flessibile.
L’impatto della pandemia sul debito pubblico
In una intervista il 25 marzo di quest’anno, in pieno lockdown, Mario Draghi – per molti anni a capo della BCE – fece alcune affermazioni molto forti sugli atteggiamenti che i governi avrebbero dovuto tenere, per evitare che i lockdown stessi portassero a una irreversibile distruzione del tessuto economico (un problema che peraltro abbiamo di nuovo in questi giorni): “We face a war against coronavirus… The challenge is how to act with sufficient strength and speed to prevent the recession from morphing into a prolonged depression, made deeper by a plethora of defaults leaving irreversible damage. It is already clear that the answer must involve a significant increase in public debt… States have always done so in the face of national emergencies. Wars — the most relevant precedent — were financed by increases in public debt…” E così è avvenuto. L’IMF, come pochi giorni fa comunicato da Kristalina Gheorghieva che ne è alla guida, stima che i diversi Stati del mondo abbiano messo in gioco – fra aumenti delle spese e tagli delle tasse – 11,7 trilioni di dollari: una cifra pari a sei volte circa il PIL italiano e al 12 per cento del PIL mondiale, una cifra che vista in prospettiva appare ancora più elevata se si pensa che i Paesi del G20 concordarono faticosamente una decina di anni fa uno stimolo pari solo al 2 per cento per rianimare l’economia mondiale scossa dalla crisi finanziaria.
Le maggiori spese e le minori entrate fiscali hanno portato ovviamente a incrementi molto elevati dei deficit nei conti pubblici [si veda la Fig. 4 per i Paesi dell’Eurozona], finanziati attraverso ulteriori incrementi del debito in termini assoluti e ancor più – in presenza di cali dei PIL – in termini relativi. Per i Paesi del G7, addirittura, si è tornati indietro di 75 anni alla situazione all’uscita dalla Seconda guerra mondiale. E nuove risorse dovranno essere messe in gioco se la “seconda ondata” non si esaurirà in tempi brevi.
Fig. 4 – I deficit nei conti pubblici dei Paesi dell’Eurozona sono saliti a livelli elevatissimi per contrastare l’impatto sulle economie delle misure restrittive introdotte per combattere gli effetti della pandemia [fonte: Commissione Europea e Financial Times]
I nuovi stimoli finanziari per il rilancio dell’economia: a chi e con quali obiettivi?
Gli enormi fondi messi in gioco non sono riusciti a contrastare il calo del PIL, nella quasi totalità dei Paesi del mondo (la Cina come detto è la principale eccezione), e nuovi stimoli dovranno essere erogati se si vuole evitare che il mancato recupero nel PIL porti a grossi tagli nei livelli dell’occupazione: sinora verificatisi in misura molto ridotta, nel nostro Paese come in molti altri europei, per i divieti di licenziamento per tutte le imprese destinatarie – soprattutto se vittime dei lockdown e delle altre misure restrittive – di aiuti pubblici.
È in questa fase, tornando a quanto ho detto nell’introduzione, che si dovrebbero destinare principalmente i fondi non a un recupero generico, ma alla trasformazione digitale da un lato e a quella ambientale dall’altro, per rendere più “resiliente” (utilizzo un termine ormai fin troppo abusato) il nostro sistema di imprese. È la scelta che è stata fatta dalla Commissione Europea – come di recente annunciato da Ursula von der Leyen nel suo “discorso sullo stato dell’Unione” – sulla destinazione dei 750 miliardi di euro del cosiddetto “Recovery Fund” (più propriamente “NextGenerationEU”): il 37 per cento andrà agli investimenti in tema di ambiente (idrogeno verde, edilizia ecocompatibile, rete di ricarica dei veicoli elettrici); mentre il 20 per cento dovrà essere utilizzato per favorire il processo di digitalizzazione (connettività, servizi pubblici digitali, nuove competenze) e ridurre il grande gap esistente in tale ambito con gli Stati Uniti e la Cina.
La digitalizzazione scelta obbligata: chi non si adegua muore
Sino a qualche tempo fa la digitalizzazione era vissuta, da parte di larga parte delle nostre imprese e della nostra PA, come una opzione. Non è più così: “chi non si adegua muore”. E il processo di trasformazione, in atto ovunque nel mondo, si estende progressivamente a tutti i comparti dell’economia e ai nostri stili di vita, con una forte accelerazione (come detto) provocata dalle misure messe in atto per combattere la diffusione della pandemia. Le tech company hanno un peso sempre più forte, anche per le scommesse che le Borse fanno sulla loro crescita. Nella Tab. 1 ho riportato i dati di capitalizzazione – aggiornati – di quelle che apparivano fra le top 100 nella classifica stilata a giugno da PWC: se si esclude dal computo Saudi Aramco (non quotata nelle principali Borse a causa del flottante eccessivamente basso), esse occupano le prime 7 posizioni, dieci fra le prime 12, sedici fra le prime 30, ventiquattro fra le prime 50 e trentotto fra le prime 100. Non solo: la componente tech assume un rilievo crescente anche in molte imprese non native digitali, come nel caso di Walmart (407,6 miliardi di dollari di capitalizzazione, + 20,8%) e di Nike (204,1, + 42,1%). Le imprese statunitensi hanno di gran lunga la presenza maggiore, seguite dalle cinesi, mentre spicca la quasi assenza dell’Europa, che ha nella tedesca SAP – nata quasi 50 anni fa – l’impresa di maggior valore: a notevole distanza dalla taiwanese TSMC e dalla sudcoreana Samsung.
Nella Tab. 2 ho riportato invece i dati di capitalizzazione delle principali imprese italiane (tutte quelle con un valore superiore ai 10 miliardi di euro e solo quelle storicamente famose al di sotto). È una lista un po’ deprimente da leggere, in assoluto e per la presenza ridotta di tech company. STMicroelectronics – italo-francese come EssilorLuxottica e tra poco FCA – è la tech, con una lunga storia alle spalle, di maggior valore, Nexi (erede tra l’altro di CartaSi), una fintech che opera nei pagamenti e che dopo la fusione con Sia dovrebbe diventare la decima società italiana con un valore dell’ordine di 15 miliardi di euro è la vera novità. Mentre Telecom Italia è sempre più lontana dai fasti del passato, quando era una delle principali telecom europee e aveva una forte presenza in Brasile. Rimane la speranza che qualcuna fra le imprese di nascita più recente trovi le forze per crescere e trovare un suo ruolo su scala internazionale.
Tab. 1
Tab. 2
La decarbonizzazione è l’altra grande forzante di cambiamento
La decarbonizzazione, lo sforzo che la comunità mondiale ha promesso di fare per rendere carbon neutral il nostro pianeta – o più precisamente per annullare l’impatto di tutti i gas-serra – entro la metà del secolo, per combattere il riscaldamento globale, richiede uno sforzo gigantesco: in termini di investimenti in infrastrutture e impianti carbon free e in termini di situazioni di disruption da fronteggiare (io amo parlare di eco-disruption) come conseguenza dei divieti e dei vincoli che dovranno essere introdotti, a fianco degli incentivi, per rendere concreto il cambiamento. È un fenomeno che in parte stiamo già vivendo e di cui vediamo già alcune conseguenze. I pannelli solari e le torri eoliche prendono il posto, nel fornirci l’energia, dei combustibili fossili: Exxon Mobil, sino a cinque anni fa ai vertici assoluti per capitalizzazione, ha perso più di due terzi del suo valore; lo stesso è accaduto a Eni, per molti anni regina della nostra Borsa, che ora [Tab. 2] vale meno di un terzo di Enel, che viceversa ha puntato sulle energie rinnovabili. Tesla – unico produttore puro di auto elettriche al mondo – ha attirato una attenzione probabilmente esagerata del mercato finanziario [Tab. 1], mentre i grandi produttori tradizionali soffrono un periodo di difficile transizione. I fondi ESG-Environmental Social Governance hanno una consistenza stimata in oltre 30 trilioni di dollari (ovvero più di 15 volte il PIL italiano) e sono sempre più spinti dai movimenti ambientalisti a esercitare il loro potere nelle assemblee delle imprese in cui hanno partecipazioni, votando per il non rinnovo degli amministratori che non si siano sufficientemente impegnati nel perseguimento della carbon neutrality.
Conclusioni
In sintesi, in un mondo in continuo cambiamento l’atteggiamento più affascinante per un Paese come il nostro sarebbe quello di anticipare il cambiamento stesso, ma credo – visto lo stato delle cose – che dovremmo almeno stare al passo. Occorre cambiare le imprese, occorre cambiare le competenze e non solo quelle tecnologiche: un recente rapporto del World Economic Forum sostiene che il 40 per cento dei core skills in un lavoro medio è destinato a modificarsi nei prossimi 5 anni.
È un tema al centro dell’attenzione in Italia? Purtroppo, non mi sembra, qualcuno sostiene che siamo più attenti allo specchietto retrovisore che non a quello che si profila davanti a noi. La speranza è che questo qualcuno venga smentito al più presto.