Che il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) italiano sia eterogeneo, frammentato, diviso, con picchi di eccellenza e picchi di mediocrità, è cosa nota. E anche le classifiche internazionali che misurano l’efficienza e la qualità dei servizi dei sistemi sanitari non riescono a darci l’idea precisa del punto in cui ci troviamo.
Tralasciando la classifica del World Health Report del 2000 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (sono passati sedici anni!), che collocava il sistema sanitario italiano al secondo posto assoluto dopo la Francia, classifiche più recenti mostrano risultati contraddittori: secondo l’Euro Health Consumer Index, che combina i dati statistici sanitari ufficiali a livello di soddisfazione dei cittadini, dal 2010 al 2015 l’Italia è passata dal 15° al 22° posto delle 34 Nazioni europee censite, emergendo in particolare tra i peggiori Paesi europei per l’accessibilità ai servizi e i tempi di attesa, per gestione dei pazienti anziani sul territorio e per possibilità di offrire cure di nuova generazione; dall’altro lato la classifica stilata nel 2014 dalla multinazionale americana dei media Bloomberg, basata su indicatori che legano i dati relativi all’aspettativa di vita con i costi e il finanziamento del sistema, ha valutato il nostro SSN il terzo più efficiente del mondo e il primo in Europa, grazie alla nostra alta speranza di vita (anche se nel 2015 è calata per la prima volta) e alla ridotta spesa sanitaria, tra le più basse d’Europa (secondo i dati OCSE, l’Italia spende per la Sanità 3.077 USD per abitante a parità di potere d’acquisto, contro i 3.453 della media Europea e i 4.819 della Germania).
Poste le indubbie difficoltà esistenti nel misurare l’efficienza e la qualità dei servizi di un sistema sanitario, è altrettanto evidente l’ulteriore elemento che complica qualsiasi confronto in relazione all’Italia: il SSN è un insieme di 21 sistemi sanitari regionali/provinciali diversi tra loro, a volte in maniera profonda, per modelli organizzativi, livelli di spesa, capacità di attrazione e, non da ultimo, livelli di digitalizzazione. Un tema quest’ultimo che diventa fondamentale, se si guarda alle esperienze internazionali e a come, anche nei sistemi più evoluti, lo sviluppo di un modello di Sanità moderno e sostenibile sia necessariamente passato attraverso un profondo rinnovamento organizzativo e tecnologico.
Il grado di digitalizzazione del nostro Sistema Sanitario è, però, ancora insufficiente e anche il livello di spesa in innovazione digitale risulta lontano dai benchmark internazionali: secondo i dati della Ricerca 2016 dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano l’Italia nel 2015 ha speso complessivamente in innovazione digitale 1,34 miliardi di euro (considerando la spesa sostenuta dalle aziende sanitarie, dalle Regioni, dai Medici di Medicina Generale e dal Ministero della Salute), quindi circa l’1,2% della spesa sanitaria pubblica, in leggero calo rispetto al 2014 in cui la spesa per il digitale era stata stimata in 1,37 miliardi di euro. Gran parte di questa spesa è concentrata a livello di aziende sanitarie (930 milioni di euro complessivi), con profonde differenze a livello regionale: se le aziende sanitarie del Nord si attestano su una spesa ICT in Sanità pari a circa 18 € per abitante, quelle di Sud e Isole sono a circa 10 € per abitante.
Differenze a livello regionale emergono anche prendendo in considerazione l’ambito che, parlando di sanità elettronica, forse più di ogni altro ha catturato l’attenzione delle Regioni negli ultimi anni: il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE). Passata attraverso un iter partito nel 2009 e terminato (quantomeno a livello normativo) con l’approvazione del DPCM n. 179 del 29 settembre 2015, la costituzione del FSE è attualmente a macchia di leopardo. Da un lato Regioni come Lombardia, Emilia Romagna e Provincia Autonoma di Trento si sono mosse in anticipo rispetto al tema dell’integrazione dei dati sanitari e della realizzazione di reti a supporto degli attori del Sistema Sanitario Regionale e dispongono, già da tempo, di piattaforme dedicate e accessibili ai cittadini. A queste Regioni si sono più recentemente aggiunte Toscana, Sardegna, Valle d’Aosta e Puglia, che AgId classifica come Regioni con “FSE operativi”, seppur con livelli di diffusione ed adozione da parte dei cittadini molto disomogenei e, in generale, non ancora elevati. Tutte le altre Regioni italiane sono invece in ritardo, con FSE in corso di implementazione o, addirittura, senza aver ancora presentato e/o avviato un percorso strutturato per la sua realizzazione (è il caso di Campania, Calabria, Sicilia e Provincia Autonoma di Bolzano).
È chiaro che, in un contesto di questo tipo, portare avanti in maniera omogenea politiche di sviluppo ed innovazione non è cosa facile. Il Ministero della Salute, pur nei limiti delle competenze e risorse disponibili, a partire dallo scorso anno si è fortemente impegnato, più di quanto fatto in passato, nel tentativo di raccordare le politiche di riforma e innovazione a livello regionale, perseguendo una programmazione più efficace e, di conseguenza, un migliore utilizzo delle risorse, anche comunitarie, da parte delle Regioni.
In termini di priorità di innovazione, il Patto per la Sanità Digitale ha indicato, oltre allo sviluppo del già citato Fascicolo Sanitario Elettronico, la diffusione della ricetta elettronica, la Telemedicina e le soluzioni per la continuità assistenziale ospedale-territorio. È, inoltre, in fase di avvio il cosiddetto “Piano Nazionale delle Cronicità”, progetto volto a ripensare le modalità di gestione ed erogazione dei servizi per la cronicità avvalendosi delle opportunità offerte dallo sviluppo di soluzioni ICT e delle risorse e linee guida messe in campo dall’Unione Europea.
Quelle citate rappresentano senza alcun dubbio le priorità che le Regioni si trovano di fronte e che devono portare avanti, in maniera quanto più possibile condivisa e con un modello di governance chiaro. Per farlo è però necessario un passaggio ulteriore, e cioè la definizione di piani di innovazione specifici a livello di singole Regioni, in grado di tradurre gli indirizzi nazionali in azioni e progetti concreti e guidare lo sviluppo delle soluzioni nelle singole strutture sanitarie sul territorio. Ogni Regione dovrebbe quindi dotarsi di un piano strategico che, raccordandosi con le priorità di intervento identificate a livello nazionale, definisca un percorso chiaro e sequenziale, che parta dall’assessment e dalla misurazione del livello attuale in cui la specifica Regione e le aziende sanitarie si trovano in termini di innovazione digitale, individui le soluzioni da implementare, definisca una roadmap di adozione che tenga conto dei prerequisiti e delle interdipendenze nello sviluppo dei diversi ambiti stabilendo le corrette priorità e, infine, ricerchi le fonti di finanziamento necessarie per sostenere gli investimenti, attraverso un giusto mix tra le azioni di breve, che possono garantire ritorni immediati, e gli interventi di carattere infrastrutturale da sviluppare sul lungo periodo.