In un recente incontro organizzato da TelecomItalia a Villa Griffone ho avuto modo di esporre alcune riflessioni che oggi ripropongo convinto che possano essere di qualche utilità. Esse partono dall’esame della vicenda che ha portato Marconi dal laboratorio nella stanza dei bachi alle applicazioni rivoluzionarie nelle comunicazioni wireless, nel broadcasting, nei radioaiuti fino alla concezione del RADAR. E’ evidente che il nostro grande inventore aveva ben chiaro lo scopo del suo lavoro e a questo, con machiavellica fermezza, subordinava la scelta dei mezzi, trovandone alcuni pronti (oscillatore Hertz Righi), perfezionandone altri (il rivelatore tipo coherer), realizzandone dei completamente originali ove necessario ( l’antenna, la sintonia …).
A volte invece osservando lo scenario che sta di fronte ai nostri occhi si ha l’impressione che si sia dimenticato che le tecnologie sono mezzi e non fini e che l’attenzione si sia spostata più su queste che non sul raggiungimento di quegli obiettivi valoriali che implicitamente sono la base di tutto. La questione è generale, tanto che in campo umanistico il nostro tempo è stato definito come il tempo della ipertrofia dei mezzi e della atrofia dei fini. Ciò è pericoloso perché le tecnologie, introdotte bene o male, hanno comunque una funzione amplificatrice e acceleratrice che impone un costante controllo della loro rispondenza agli obiettivi. Altrimenti diventa tutto una corsa competitiva tra persone che non sanno dove andare. Con malizia posso dire poi che a volte la cosa è volutamente accentuata dal fatto che i soldi si fanno vendendo le tecnologie e quindi chi ha una visione miope è indotto in tentazione. Tornando all’esempio di Marconi è vero che abbiamo a disposizione molta tecnologia, ma spesso, individuato con chiarezza l’obiettivo, ci si accorge che manca qualcosa che va realizzato ad hoc.
Nel settore dell’ICT abbiamo individuato correttamente dei mezzi che sono piattaforme abilitanti per raggiungere obiettivi generali validi, e ciò ci lascia spesso così soddisfatti da non verificare costantemente se stiamo raggiungendo o no i fini. Non voglio qui riprendere l’ormai vecchia questione se la banda ultralarga va introdotta a prescindere da cosa poi ci faremo, né l’importanza della digitalizzazione della PA. Ma l’analisi più accorta del punto di arrivo può spingere a meglio individuare il percorso che ci separa dal punto di partenza e soprattutto impostare bene il transitorio. Ad esempio, la digitalizzazione della PA deve essere fatta guardando l’obiettivo, che è la semplificazione della vita del cittadino e delle imprese nei loro rapporti con la PA. Ciò avverrà con un aumento di produttività del sistema e dunque avremo come risultato finale anche risparmi e maggior competitività. Ma i primi parziali tentativi, in campo scolastico come in quello pensionistico o postale – rimando qui alla semplice lettura dei giornali – non lasciano tranquilli sul fatto che si sia messo davvero il primo posto l’obiettivo e che si sia progettato il transitorio. Nell’università di Bologna da tempo si usano registri e verbali elettronici, ma ci si è arrivati dopo un lungo rodaggio e ancor oggi il marasma dei sistemi operativi e degli aggiornamenti Java crea periodicamente problemi. Considerando poi prioritariamente il fine non si dovrebbe dimenticare che l’essere umano è abbastanza stabile da un milione di anni e non è così facilmente modificabile dalla tecnologia, sia dal lato del personale della PA sia da quello dei cittadini utenti . Tra un po’ i non nativi digitali ci avranno salutato, ma per ora sono la maggioranza.
Consideriamo che anche molte delle nostre imprese non hanno ancora riorganizzato la loro struttura per cogliere i vantaggi dell’ICT, come molte analisi della stessa Confindustria hanno mostrato, viene da pensare che i problemi non siano solo nella PA ma un po’ più diffusi e magari stanno anche nell’offerta di strumenti che non convincono nemmeno il privato.
Se poi introduciamo il fine del lavoro che è quello che ci sta più a cuore ecco un problema. A regime nella PA digitalizzata si perderanno molti posti di lavoro. Altri se ne creeranno, non so dirvi se più o meno, ma non si sa dove né quando. Ci stiamo interrogando su come intercettarli? Quello descritto non è un fenomeno nuovo quando si introducono tecnologie: è cominciato con la rivoluzione industriale. Ma una volta i luoghi dove si creavano i nuovi posti di lavoro non erano così distanti da dove si erano persi. Oggi non è più così soprattutto nel settore ICT e ciò è da tempo sotto gli occhi di tutti. La stessa questione dei ricavi sempre più magri degli operatori di TLC – che devono fare gli investimenti di rete – a fronte degli incassi crescenti degli Over the top non è un classico esempio di ciò che ho appena descritto? E per divagare, attenzione a cosa facciamo col turismo e i beni culturali, perché può succedere che a noi tocchi di fare la manutenzione e altri siano i beneficiari. Non è con i biglietti di ingresso ai musei che si fanno soldi e posti di lavoro, ma se si controlla l’indotto. Vogliamo ad esempio difendere meglio le strutture alberghiere medio piccole che sono il nostro gioiello visto che pian piano siamo perdendo il controllo delle grandi catene? Fare sinergie con i grandi centri di divertimento come Mirabilandia e Gardaland e i giacimenti culturali? Altrimenti ci resterà solo il lavoro delle guide – e qui va anche bene – o quello di camerieri – e qui con tutto il rispetto …
Lo stesso sviluppo economico è un mezzo per raggiungere una serie di fini molto importanti dal punto di vista sociale. Qui forse troppo si discute e poco si fa e quindi avanti con le buone idee per riprendere la crescita, ma è possibile effettuare una analisi seria che individui in quali settori è più agevole e rapido mutare risorse di spesa corrente in investimenti? E’ noto che è da questi che nascono sia posti di lavoro che risparmi negli anni successivi più stabili. E’ la linea che appare imboccata da Ragosa per l’Agenzia, almeno per quanto riguarda i primi segnali tra cui la riduzione del numero dei Data Center della PA. Altri esempi si possono trovare in campo sanitario, dove il coraggio di scegliere gli investimenti più produttivi può portare a una serie di benefici straordinari per il cittadino paziente. Ma comunque per fare investimenti serve inizialmente un capitale che può anche portare a vantaggi immediati ma deve essere disponibile. Se mancano i danari, si potrebbe anche immaginare di creare fondi privati ad hoc che essendo la PA il cliente, avrebbero rischi paragonabili a quelli dei BOT e ritorni a medio periodo anche più interessanti. Tentativi in questa direzione si sono fatti persino negli USA. Attenzione non parlo di un fondo per poche grandi opere, ma per tante azioni di cui ormai è chiaro il vantaggio da domani dove la PA cliente si impegna per un congruo numero di anni nei confronti degli investitori.
Infine mercato e concorrenza: che non siano il nuovo vitello d’oro del popolo globalizzato, ma si riconosca che sono anche loro mezzi, spesso indispensabili, a volte meno efficaci di altri. E’ blasfemia? Si tratta solo di tracciare i perimetri. E’ ormai accettato che una rete unica di telecomunicazione su cui poi si eserciti la concorrenza non sia una idea eretica. L’imposizione a suo tempo di uno standard unico GSM per tutta l’Europa ha consentito una concorrenza positiva tra operatori e costruttori, come non si è verificato negli USA dove la concorrenza è stata portata anche al livello di standard. Ma come mettere assieme pubblico e privato? I loro fini sono diversi e dunque è pericolosa la contaminazione in questo campo. Ma esempi di soluzione ci sono, nel rispetto dei ruoli, come nel caso della Provincia Autonoma di Trento – per la banda ultralarga – o in Emilia-Romagna con l’azione di Lepida contro il Digital Divide. Possono piacere o no ma sono esempi di reperimento di mezzi che garantiscono il raggiungimento di fini, che non sono gli stessi per le parti in causa. Ma le risorse tecnologiche possono essere messe in campo assieme dalle parti con vantaggio reciproco. E in questo caso la PA non regala, ma si propone con un modello di business diverso che consente di realizzare cose altrimenti non fattibili. Se i teologi stessi stanno discutendo sull’esistenza o meno dell’inferno, credo che anche noi potremmo esaminare in modo laico se alcuni mezzi non siano meglio di altri senza pregiudizi ideologici, ma solo subordinandoli chiaramente ai fini