Infrastrutture digitali in Italia, ancora non ci siamo. Malgrado il grande lavoro di divulgazione svolto negli ultimi tre anni dalle associazioni di categoria – la filiera Confindustriale con Anitec-Assinform e ANCE in testa, ma anche quella artigiana con CNA e Confartigianato – e non di meno da altri stakeholder, come la piattaforma Smart Building che dirigo, non sembra ancora arrivata al punto giusto la sensibilizzazione della filiera che dovrebbe collaborare all’applicazione di quanto previsto dall’art. 135 bis del Testo Unico dell’edilizia (DPR 380/2001) in materia di infrastrutture digitali d’edificio, con tutto ciò che ne deriva in termini di ritardi dell’infrastruttura FTTH del Paese.
Ritardi che i nuovi dati Infratel/Mise sulla copertura banda ultralarga in Italia hanno di recente confermato (dal sito http://bandaultralarga.italia.it emerge che al 2019 la banda ultralarga sarà sul 74% della popolazione, e solo dal 2021 sarà sul 100%, contro il 2020 previsto dal piano governativo).
Ricordiamo brevemente, perché ne abbiamo già parlato su queste stesse pagine, cosa prevede la normativa, figlia della direttiva europea EU 61/2014 tradottasi nella Legge n. 164/2014 e, per quel che ci interessa nell’art. 6 ter, comma 2. Il provvedimento prevede che gli edifici di nuova costruzione per i quali la domanda di autorizzazione edilizia sia stata richiesta dopo il 1 luglio 2015 (comprese le grandi ristrutturazioni che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente) debbano essere equipaggiati da una infrastruttura fisica multiservizio in fibra ottica dotata di adeguati punti di accesso per consentire il collegamento ai servizi a banda ultra larga e, infine, che tali impianti debbano essere progettati, realizzati e certificati da tecnici abilitati ai sensi del DM 37/2008 art 1, comma 2, lettera b.
Infrastrutture digitali nei nuovi edifici: gli obiettivi dell’Europa
Quale fosse la finalità del legislatore appare abbastanza chiara: fare in modo che almeno gli edifici nuovi e ristrutturati fossero dotati all’origine di un’impiantistica TLC al passo con i tempi e in grado di accelerare il processo di adozione della fibra ottica e, quindi, favorire il raggiungimento degli obietti dell’Agenda Digitale Europea per il 2020 che, lo ricordiamo, prevede di avere il 100% della popolazione connesso ad almeno 30 Mb/sec di cui il 50% ad almeno 100 Mb/sec. Obiettivi che, stando ai dati di fine 2018 che registrano una velocità media di download attestata a 15,1 Mb/sec, appaiono ancora molto lontani. Non solo, ma che tale infrastruttura d’edificio fosse a prova di futuro, quindi con cablature in fibra ottica e soprattutto multifibra (minimo 4, preferibili 8, come scrive il CEI), dal momento che i servizi che dovrà veicolare saranno molteplici: dalla nuova TV ai servizi wireless, dai sistemi di meetering a quelli di sicurezza, per non parlare di quelli nemmeno troppo futuribili dell’assistenza a distanza.
Il fatto, quindi, che vi sia un evidente ritardo nell’applicazione di questa norma e che, anzi, sia oggetto di un inutile braccio di ferro tra gli operatori e i proprietari degli edifici in cui sono stati realizzati quegli impianti, costituisce una danno evidente per il Paese e ne rallenta lo sviluppo. Ma ciò che è sfuggito ai più – nel mito di una norma senza sanzioni – sono anche i rischi a cui inconsapevolmente si espone l’intera filiera, che quindi varrà la pena ricordare a partire dall’impatto che tale norma ha sui provvedimenti della Pubblica Amministrazione. Non di rado, infatti, su questo punto le idee sono alquanto confuse.
Il primo dato da evidenziare è che l’art. 135 bis del Testo Unico dell’edilizia introduce un obbligo, non una facoltà. Dal che ne deriva che chi all’interno della PA ha il compito della vigilanza è tenuto a farlo rispettare. Nello specifico parliamo di chi ha il compito di rilasciare i permessi di costruire, ovvero il dirigente o responsabile dello sportello unico, come ricorda l’art. 13, comma 1 del T. U., che deve procedere “in conformità alle revisioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente” (art. 12) di cui l’art 135 bis è a tutta evidenza parte integrante.
I documenti relativi al cosiddetto impianto multiservizi che devono corredare il progetto edilizio, come ricorda l’art. 20 del T.U., sono gli elaborati progettuali e la dichiarazione del progettista che assevera la conformità del progetto alla normativa vigente.
Come si blocca l’iter: il nodo “silenzio assenso”
Nel caso in cui tale documentazione manchi o risulti carente all’atto della presentazione della domanda, al dirigente che svolge attività di vigilanza ai sensi dell’art. 20 comma 4 non rimane che una sola opzione, ovvero richiederne l’integrazione. Una richiesta che determina automaticamente la sospensione del termine di silenzio assenso previsto dal comma 3. Qualora il dirigente in questione non procedesse a tale richiesta e alla relativa sospensiva è fuori di dubbio che la cosa si connoti come negligenza e come tale possa essere sanzionata, come previsto dal Codice Disciplinare allegato al CCNL del personale dirigente della PA.
Su questo punto, peraltro, si è espresso con chiarezza il Collegio Nazionale del Notariato, che nella risposta del’11 aprile 2018 al quesito n. 66-2018P, ha affermato che “la presenza del requisito tecnico debba essere tenuta presente ai sensi dell’art. 20 del T.U. al momento del rilascio del titolo edilizio”. Una posizione che si spiega bene con un altro passaggio della risposta in questione, dove il Collegio rileva che, in caso di irregolarità per carenza di documentazione, sussiste “l’opportunità di una adeguata attività di informazione del pubblico ufficiale verso le parti”. In altri termini e semplificando, si può affermare che il Collegio evidenzi come il “casus belli” possa scaturire proprio al momento della compravendita, innescando una serie di procedimenti a catena su tutta la filiera “negligente” fino ad arrivare a chi non ha fatto applicare la norma.
Per i titoli edilizi controlli ex ante, ma anche ex post
Ma se il controllo deve essere ex ante, ovvero al momento del rilascio del titolo edilizio, non di meno la normativa vigente evidenzia che debba essere anche ex post, ovvero al momento del rilascio dell’agibilità del nuovo edificio che, come noto, avviene ora mediante “segnalazione certificata” da parte del professionista, corredata dalla documentazione che attesta la conformità degli impianti installati (Art. 24 del T.U.). Una segnalazione certificata che può essere oggetto di verifica a campione da parte del dirigente responsabile della vigilanza e che può tradursi, in caso di chiara inadempienza, nel reato di dichiarazione mendace da parte del professionista, regolato dall’art. 20 comma 13 del T.U.. Un reato, è bene sottolinearlo, che ha conseguenze gravissime per il professionista che vi sia incappato, sia sotto il profilo penale, con la reclusione da 1 a 3 anni, che sotto quello disciplinare e professionale attraverso l’azione dell’Ordine chiamato in causa dalla PA.
Quanto di tutto ciò sia noto alla filiera è difficile a dirsi, ma un’aria di inconsapevolezza sembra aleggiare in modo evidente e sicuramente rischioso e suggerisce sia ai funzionari della PA che ai tecnici un rapido allineamento a quanto previsto dalla normativa, che avrebbe peraltro l’obiettivo di produrre una spinta importante in termini di modernizzazione delle infrastrutture TLC del patrimonio edilizio italiano e, come si diceva, di accelerazione del processo di adozione della banda larga ed ultra larga.