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Italia digitale, l’eterno ritardo: ecco lo “shock” strategico che serve



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L’Italia, nonostante i progressi tecnologici globali, fatica a colmare il digital divide. La mancanza di infrastrutture moderne, la scarsa consapevolezza dei consumatori e imprese poco digitalizzate sono un freno alla competitività. Serve un approccio strategico e investimenti mirati

Pubblicato il 7 nov 2024

Domenico Salerno

direttore Area Digitale dell’Istituto per la Competitività (I-Com)



digital gap

La diffusione di tecnologie sempre più innovative, per non dire rivoluzionarie, sta facendo sì che ogni paese debba cimentarsi in un processo di aggiornamento continuo fondamentale per rimanere competitivi sul panorama globale.

Arrivare prima degli altri nello sviluppo di nuove soluzioni tecnologiche si traduce quasi sempre nella possibilità di dettare a tutti gli altri regole e standard, guadagnando quindi un notevole vantaggio competitivo rispetto alle altre grandi economie mondiali. Purtroppo l’Europa, e in particolare l’Italia, in questi anni si è mossa troppo lentamente su tutti i fronti della digitalizzazione, trovandosi inevitabilmente ad adottare tecnologie sviluppate principalmente negli USA o nell’est asiatico.

L’ultimo rapporto annuale dell’Osservatorio reti e servizi di nuova generazione realizzato da I-Com, dal titolo “Connettere l’Italia. L’innovazione del Sistema Paese nel decennio digitale europeo”, ci fornisce uno spunto perfetto per ragionare sulle principali criticità che attanagliano il nostro Paese rallentandone il percorso di digitalizzazione.

Le reti di telecomunicazione

Il primo aspetto che vale la pena di considerare è quello della diffusione delle reti di telecomunicazione fisse e mobili. I dati DESI 2024 sulla copertura VHCN vedono l’Italia posizionata al terzultimo posto in UE, con un valore pari al 59%. L’avere a disposizione una rete performante è la porta di accesso a tutte le nuove tecnologie digitali, da ciò si può chiaramente comprendere quanto questo dato sia allarmante.

Un discorso simile vale per il 5G, infatti, sebbene i dati mostrino una copertura della popolazione pari al 99,5%, ad un’analisi più attenta emerge come tale valore sia frutto principalmente dell’ottima copertura in 4G presente sul territorio, fattore che permette di offrire una versione meno performante di 5G attraverso la condivisione dinamica dello spettro (DSS). Dati ufficiali sulla copertura in rete mobile di quinta generazione stand-alone non sono disponibili ma viste le notevoli difficoltà che gli operatori stanno affrontando nella realizzazione delle opere è abbastanza certo che il traguardo del 100% è ancora molto lontano.

Le principali criticità in quest’ambito riguardano le difficoltà degli operatori di interfacciarsi con gli enti locali che, molto spesso, non risultano collaborativi quanto si tratta di realizzare nuove infrastrutture, specialmente se si tratta di antenne 5G. Fondamentale è da questo punto di vista individuare a livello centrale azioni concrete per evitare che il processo di realizzazione delle infrastrutture si paralizzi. A ciò si aggiunge la necessità, anche in una logica di prevenzione di comportamenti irrazionali della cittadinanza cui si accompagnano interventi altrettanto irrazionali degli enti locali, di predisporre a livello nazionale campagne di comunicazione istituzionale che rendano evidente la necessità di accelerare la transizione digitale e, dunque, lo sviluppo delle infrastrutture che ne costituiscono la pre-condizione.

Consapevolezza dei consumatori

Parimenti a quanto visto per la realizzazione delle infrastrutture, il lavoro sulla consapevolezza dei consumatori appare fondamentale anche per quanto riguarda l’adozione da parte della popolazione. I risultati di un’analisi condotta da I-Com sulla domanda di connettività dei consumatori italiani mostrano come la larga maggioranza di questi (68,9%) non percepisce l’avere una connessione performante come un valore aggiunto e di conseguenza non sarebbe disposto a pagare un prezzo più elevato della propria offerta attuale per beneficiarne.

Riguardo le reti fisse, spicca la quota consistente di consumatori che, in un’epoca in cui il web è il canale privilegiato di comunicazione tra individui, imprese e istituzioni, hanno scelto di non sottoscrivere un contratto di rete fissa e di affidarsi esclusivamente al mobile (58%). D’altro canto, per chi dispone di una connessione non FTTH, l’ostacolo principale rispetto ad effettuare un upgrade di linea è rappresentato dalla mancanza di copertura nella propria zona (44,3%), fattore che sottolinea ancora una volta la necessità di accelerare con il deployment delle reti sul territorio.

Sul versante mobile, è interessante notare come tra chi non ha ancora sottoscritto un piano 5G, la larga maggioranza non ha mai preso in considerazione tale eventualità. Questo potrebbe dipendere dalla mancanza della cosiddetta killer application che mostri all’utente medio un chiaro beneficio nel passare ad una rete di quinta generazione. A supporto di questa tesi, va sottolineato come il 16,7% di chi non ha ancora effettuato questo passaggio, ha affermato che passerebbe al 5G se fosse disponibile una maggiore offerta di servizi altamente innovativi. Altra nota dolente che emerge dalla survey è relativa al permanere di una quota rilevante di popolazione (11,2%) che diffida del 5G per timori legati ad effetti sulla salute.

È chiara, dunque, la necessità, in considerazione anche delle ingenti risorse finanziarie pubbliche messe in campo per i Piani Italia 1 Giga e Italia 5G e degli importanti investimenti privati messi in campo, di campagne di awareness destinate alla cittadinanza per accrescere la consapevolezza circa i benefici connessi alla disponibilità di reti performanti per poter accedere a servizi digitali innovativi e disegnare azioni efficaci che incentivino gli operatori ad accompagnare i propri clienti verso l’adozione di tecnologie di ultima generazione.

La digitalizzazione delle imprese

Un altro punto saliente su cui è necessario più che mai fare ampi sforzi riguarda la digitalizzazione del tessuto industriale. Le proiezioni effettuate da I-Com su questo tema disegnano uno scenario apocalittico, in particolare per quanto riguarda l’adozione dell’IA e la digitalizzazione delle PMI.

Sul primo versante, gli ultimi dati sull’Italia mostrano addirittura un valore in lieve discesa tra il 2021 e il 2023. Provando ad applicare il trend medio europeo di crescita registrato nel recente passato alla situazione italiana, il nostro Paese raggiungerebbe il target del 60% di penetrazione dell’IA nelle imprese, individuato come obiettivo del Decennio Digitale, solo nel 2045.

Da tali dati emerge chiaramente quanto sia fondamentale far comprendere alle imprese l’importanza di questa tecnologia. In virtù di ciò è fondamentale incoraggiare la formazione in IA anche mediante percorsi di istruzione multidisciplinari e individuare strumenti agevolativi e fondi ad hoc per accelerare il reskilling dei lavoratori in tutti i settori economici maggiormente interessati da questa dirompente tecnologia. Nonostante l’importanza della pubblicazione della Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026 e il testo del disegno di legge governativo sull’intelligenza artificiale attualmente in discussione al Senato, l’Italia deve fare i conti con la scarsità di risorse. In effetti, a parte il Fondo per l’IA costituito presso CDP Ventures e tenuto conto della scarsa presenza di grandi imprese, i finanziamenti finora individuati non sembrano sufficienti per poter giocare la partita dell’intelligenza artificiale alla pari con i Paesi più avanzati.

Altro tasto particolarmente dolente è quello della digitalizzazione delle piccole e medie imprese. Questa categoria, vista la dimensione limitata, gode in generale di un volume sia di risorse che di competenze più scarso rispetto a quelle di grandi dimensioni. Nonostante ciò, queste rappresentano l’ossatura del tessuto industriale europeo, e in particolare di quello italiano.

Secondo gli ultimi dati DESI, con un valore del 60,7% nel 2023, il nostro Paese ha performato meglio della media europea (57,7%). Nonostante ciò, il progresso italiano negli ultimi anni ha sperimentato un vistoso rallentamento (tra il 2021 e il 2023 la crescita si è attestata appena sullo 0,5%). In base alle proiezioni di I-Com, proseguendo di questo passo, le PMI italiane che raggiungeranno un livello di digitalizzazione basilare nel 2030 sarebbero solo il 62,1%, mentre per tagliare il traguardo rispetto al target del 90% previsto al 2030 bisognerebbe attendere addirittura il 2170. Sebbene sia chiaro a tutti che la previsione è più provocatoria che scientifica, la volontà è quella di accendere un faro sullo scarso impegno profuso su questo tema fino ad oggi.

Le competenze digitali

Il filo rosso che unisce tutte le carenze digitali di cui soffre il nostro Paese fin qui elencate è quello delle competenze. Allo stato attuale, i dati DESI mostrano come l’Italia, con il 45,8%, occupi il quintultimo posto in UE per quota di cittadini con skill digitali almeno di base. Anche in questo caso le proiezioni sul raggiungimento dell’obiettivo fissato per la fine del decennio (74,6%) sono fantascientifiche (il raggiungimento del target è datato addirittura per il 2465). Parimenti a quanto visto in precedenza, più che i valori in se, a risaltare è il fatto che un tema cruciale nello sviluppo del nostro Paese sia stato fin ora ampiamente trascurato.

Il tema è altrettanto evidente per quanto riguarda le competenze specialistiche, infatti, le elaborazioni I-Com su dati MUR mostrano come la quota di studenti universitari immatricolati a corsi STEM sul totale sia lievemente scesa negli ultimi tre anni accademici, passando dal 30,6% del 2021/2022 al 29,3% del 2023/2024. Stesso discorso per quanto riguarda il numero di laureati, nel 2021 il numero di studenti che aveva conseguito un titolo accademico in discipline STEM era pari al 26,5% dei laureati italiani mentre nel 2023 questa quota è scesa al 26,1%. Tra l’altro, tra le materie appartenenti a questa categoria la classe più snobbata è proprio “Informatica e tecnologie ICT”. A peggiorare ulteriormente il quadro è anche un netto divario di genere a scapito delle donne per quanto riguarda le immatricolazioni e i titoli conseguiti in ambito STEM. In quest’ottica, la bassa partecipazione femminile in settori come l’ingegneria e l’informatica richiede un impegno aggiuntivo per superare i gap di genere e promuovere un accesso equo alle opportunità educative e professionali. È dunque quanto mai essenziale adottare un approccio strategico che non solo incoraggi la diffusione delle tecnologie digitali, ma che promuova anche lo sviluppo di competenze adeguate, l’equità nell’accesso e la sostenibilità a lungo termine.

Cambiare passo, una priorità anche europea

Da quanto detto fino a questo punto, è evidente dunque la necessità di cambiare rapidamente e decisamente passo per provare ad arginare il rischio di perdere ulteriore terreno nel confronto internazionale sia rispetto allo sviluppo che all’adozione delle nuove tecnologie digitali.

Si tratta di un’evidenza conclamata che ha trovato pieno riconoscimento anche nel rapporto Draghi che, nell’analizzare il futuro della competitività europea, rispetto al digitale ha giustamente evidenziato la necessità di accelerare e di agire in maniera rapida e decisa sui fattori che attualmente minano la capacità europea di competere ed innovare, primo tra tutti l’atteggiamento europeo verso le nuove tecnologie.

È chiaro che, dopo l’alluvione di nuove regole adottate nelle due ultime legislature UE, da un lato occorra riconciliare e semplificare laddove possibile e dall’altro dedicare almeno altrettanta attenzione a come stimolare gli investimenti necessari pubblici e soprattutto privati, possibilmente su scala continentale.

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