L’insuccesso del Piano BUL per le “aree bianche” rallenta l’ammodernamento delle telecomunicazioni del Paese e potrà comportare ulteriori esborsi dello Stato per un’architettura di rete incompleta a valle (lato clienti finali) e a monte (lato operatori retail). Peraltro, senza una revisione seria si rischia di perdere buona parte dei finanziamenti per realizzare un’infrastruttura monca e solo parzialmente utilizzabile.
È questo il vero problema da risolvere. In Europa, gli approcci sono diversi ma quasi dovunque si basano su interventi dell’incumbent e degli operatori alternativi, eventualmente con contributo statale o di comunità locali.
Facciamo il punto sulla situazione in Italia e sul ruolo dello Stato in questa complessa partita..
Il cambio di indirizzo gestionale di TIM
Il rinnovo del Consiglio di amministrazione di TIM, avvenuto questa volta senza troppo clamore, potrebbe avere marcato un netto cambio di indirizzo gestionale che, a mio giudizio, merita un commento sereno e dovrebbe rappresentare anche un elemento utile nel delicato e, purtroppo, confuso dibattito sugli assetti delle telecomunicazioni italiane.
Le telecomunicazioni nel PNRR: tutti i problemi da affrontare
La nuova maggioranza in Cda che si è appena insediata con approvazione addirittura quasi unanime (95%) del mercato si è costituita con un metodo nuovo. Non è, infatti, espressione di un azionista specifico, di maggioranza relativa com’è Vivendi per TIM, né il risultato di una maggioranza di coalizione formatasi in Assemblea, come fu nel caso di Elliott nel Consiglio precedente. Si è trattato di una convergenza cui hanno contribuito vari azionisti attraverso il dibattito condotto nel precedente Cda e intorno ad esso (da Vivendi a Cdp, fino al piccolo azionista Asati che rappresenta i dipendenti dell’azienda). Il metodo di formazione della maggioranza e l’esito plebiscitario in Assemblea fanno oggi di TIM quanto di più vicino si può immaginare ad una “public company”: sarebbe corretto voler riconoscere all’azionista di maggioranza stabile, Vivendi, con il suo 24%, di avere tenuto quel profilo basso che è sempre apprezzabile in azionisti esteri che investono in aziende “di sistema”, nonostante le forti perdite del titolo che ha dovuto sopportare negli anni. Se partiamo da qui anche il dibattito, spesso sopra le righe, a cui assistiamo nel Paese sulla cosiddetta rete “unica” si presenta sotto una luce diversa.
Un secondo elemento che non può essere trascurato è la decisione, certo presa in autonomia l’estate scorsa e nell’interesse dei propri azionisti com’è giusto per un’impresa privata, di scorporare societariamente la propria rete di accesso costituendo un nuovo veicolo, FiberCop, con azionariato aperto ai concorrenti e struttura di governance condivisa senza pari in UE, in cui si è fatta confluire anche l’azienda FlashFiber che era stata fondata con Fastweb per realizzare la rete ottica FTTH. Chi si intende di questioni regolatorie ben sa che questo assetto, volontariamente assunto, è il più alto livello che le regole europee prevedono affinché l’operatore incumbent assicuri al sistema degli operatori alternativi la massima garanzia di parità di trattamento nell’accesso. Non è possibile chiedere di più: oltre questo limite c’è solo l’esproprio.
L’arrivo di Open Fiber sul mercato italiano
Nell’attuale scenario di mercato c’è un concorrente, Open Fiber, fondato nel 2016 con l’aspirazione di portare più rapidamente possibile la fibra ottica nelle case degli italiani. A quel tempo, ricordiamolo, dal governo italiano fu data una valutazione di inadeguatezza dei piani dell’incumbent che aveva liberamente scelto una traiettoria differente per migrare dal rame alla fibra ottica. Da qui il braccio di ferro fra governo e TIM che ha condotto alla discesa in campo di Enel che confidava di raggiungere l’obiettivo senza impiegare le infrastrutture di telecomunicazioni esistenti (centrali locali, cavidotti, camerette, palificazioni, etc.), facendo invece leva sulle proprie infrastrutture elettriche. Come è oggi più che evidente si è trattato di un errore di sopravvalutazione (purtroppo al tempo lo segnalai inutilmente anche pubblicamente) pagato poi in termini di ritardi e costi.
A mio giudizio, sono le difficoltà in cui si dibatte Open Fiber, aggravate dalla scelta del modello di business denominato “wholesale-only” – che pesante limitazione per un’impresa quell’“only”, in un contesto come quello nazionale dove si è sviluppata la concorrenza infrastrutturale tra reti fisse e tra reti fisse e mobili controllate da operatori verticalmente integrati! – a spiegare la decisione del Governo Conte II di intervenire sul Cda di TIM all’inizio di agosto scorso per chiedere di attendere per l’approvazione del nuovo assetto della sua rete (FiberCop). L’obiettivo dichiarato era consentire a Cdp di proporre prima un MoU atto a identificare il percorso di confluenza di Open Fiber, così da creare una rete “unica” detta AccessCo. La decisione fu tanto irrituale quanto il peccato originale del Governo Renzi di creare e battezzare a Palazzo Chigi un’impresa di Stato in un mercato largamente liberalizzato. Tuttavia, mentre nel 2016 si sottrasse alla richiesta di cambiare il piano industriale, nel 2020 TIM accettò la richiesta di fusione e l’accordo che sembra si sia raggiunto (non sono pubbliche le clausole del MoU) dovrebbe prevedere la maggioranza azionaria di TIM in AccessCo e una governance attraverso figure indipendenti.
Guardando l’intero percorso industriale, dunque, vediamo nell’esperienza di Open Fiber il pesante intervento dello Stato italiano, prima con la creazione di un nuovo soggetto industriale e poi con la richiesta all’incumbent di prendersene cura per risolvere l’anomalia creata neppure cinque anni prima.
Infatti, quando si parla di rete “unica” si ricorre ad un artificio retorico per definire – in un mercato non scevro di concorrenza, anche sulle infrastrutture, com’è quello italiano delle telecomunicazioni – un’operazione di M&A che lo Stato italiano ha richiesto per evitare a Cdp il rischio di dover gestire negli anni a venire un secondo caso Alitalia.
La svolta con Draghi
Oggi, con il Governo Draghi, sembra che lo scenario sia di nuovo cambiato. Sono riemerse le forze contrarie alla fusione e sembra riprendere vigore il “partito” della statalizzazione di TIM: non piace, infatti, a qualcuno l’ipotesi, che per l’incumbent sembra finora essere dirimente, della sua maggioranza azionaria in AccessCo. Come in un perenne gioco dell’oca sembra che si voglia ancora una volta ritornare al “via”.
Rete unica, molti interessi: così non facciamo il meglio per il Paese
Ma vediamo perché il passo indietro non conviene allo Stato e a Cdp e, in alternativa ad AccessCo, che cosa il Governo Draghi potrebbe esaminare con seria concretezza. Consideriamo ora esclusivamente il punto di vista dell’interesse dello Stato italiano, per come sembra a me.
Mi sembra opportuno esaminare anzitutto perché ritirare l’offerta di fusione allo Stato italiano non dovrebbe convenire.
Le motivazioni alla base delle scelte del Governo Conte
Visto che è lo Stato italiano ad aver chiesto a TIM la fusione con Open Fiber (e non viceversa) dovremmo, infatti, chiederci il perché di questo passo prima di qualsiasi altra considerazione. Il senso sta nella “storia” di questa giovane impresa.
Nata per creare una rete in fibra ottica nazionale, anche con l’acquisizione di Metroweb, Open Fiber avvia subito la concorrenza basata sulla tecnologia FTTH (l’unica che al tempo considera valida) in aree cosiddette “nere”, ove cioè TIM possiede la sua rete ibrida rame-fibra FTTC. Questa iniziativa ha il merito di scuotere l’operatore incumbent ma, al contempo, si manifesta una concorrenza infrastrutturale negli stessi Comuni con un certo grado di duplicazione di infrastrutture simili.
La concorrenza infrastrutturale, che gli economisti chiamano “dinamica” riservando il termine “statica” a quella sui servizi ritenuta meno efficace, è però criticata specie a livello politico in quanto si ritiene che sottragga investimenti che si potrebbero destinare ad aree più disagiate e, quindi, meno interessanti per l’investitore privato. Non si considera che in tali aree, ove il ritorno degli investimenti non è pienamente assicurato, l’operatore non investirebbe comunque. Resta il fatto che, investendo in due nelle aree nere senza forme di coordinamento o coinvestimento, il danno potenziale si riflette sul ridotto ritorno per entrambi, specie quando ci si confronta su una tecnologia costosa come FTTH e per la quale la domanda è scarsa. Pertanto, non può che risultarne un effetto depressivo sul settore delle telecomunicazioni in cui, come la stessa Agcom annualmente certifica, gli economics in senso lato (ricavi, utili, investimenti, innovazione, occupazione) sono insoddisfacenti.
Difatti, con immediati forti flussi di cassa in uscita e ritorni sugli investimenti infrastrutturali molto rinviati nel tempo o inesistenti, Open Fiber non decolla. Sono noti i bilanci fino al 2019 e una loro analisi DCF (Discounted Cash Flow) proiettando vari scenari di sviluppo fino al 2030 mostra risultati poco incoraggianti e profili di rischio non trascurabili. Questa analisi, con tutti i limiti di uno studio basato su soli dati pubblicamente disponibili, è stata fatta a settembre 2020, poco dopo l’intervento su TIM del mese di agosto da parte del Governo Conte II e del management di Cdp di cui ho detto sopra, dopo che alcuni analisti avevano pubblicato analisi preoccupate (“…il piano industriale prevede svariati miliardi di investimenti, ma sono per lo più finanziati a debito. Con un rapporto di 7 a 1 sul capitale. … le previsioni di redditività dell’avvio della società sono state completamente disattese”).[1], [2]
Perciò allego oggi a questa relazione, credo per la prima volta, i risultati di un’analisi DCF per condivisione e commento e senza la pretesa che rappresentino una verità assoluta, né particolarmente originale, ma solo una guida interpretativa a fatti che ancora investono scelte incombenti sul settore delle telecomunicazioni del Paese. Infatti, Open Fiber ha criticato le analisi svolte sui moltiplicatori che non considera adatti ad una azienda startup, ma si dice favorevole ad analisi di natura prospettica.
I modelli finanziari esaminati nello studio allegato si riferiscono a due macro-scenari per Open Fiber: il primo di concorrenza con FiberCop, il secondo di coinvestimento con semplice condivisione equitativa dei CAPEX.[3] In ciascun macro-scenario sono inclusi oltre ad alcuni casi mediani, un caso sfavorevole e un caso favorevole, per un totale di sette casi esaminati. La sintesi dei risultati è riportata nella Tabella 1.
Tabella 1: Valutazione di Open Fiber in sette scenari appartenenti ai due macro-scenari rispettivamente di “concorrenza” e di “coinvestimento” con FiberCop
Come si vede l’Enterprise Value è compreso nella forchetta fra -840 milioni di euro e 1,650 milioni. Ma come lo studio mostra, sono state individuate possibili serie criticità sul debito e sul suo rifinanziamento. Lo studio conclude che il debito attuale e gli ulteriori impegni sul debito dovrebbero essere rivisti per garantirne il rimborso:
- sembra evidente che la liquidità proveniente dalle operation non sia sufficiente a fare fronte agli investimenti (CAPEX) e alle scadenze di rimborso del debito;
- ogni scenario è caratterizzato da un punto di rischio nel 2025 in corrispondenza del quale, come indicato nelle note al bilancio per l’anno fiscale 2019, gli obblighi di debito assunti nel 2018 sono da rimborsare in soluzione unica a tale data, se non interverranno modificazioni.
Dovrebbe quindi risultare piuttosto chiaro, dunque, l’interesse pubblico (rappresentato da Cdp e presumibilmente, in parte, dalla stessa Enel) che potrebbe avere spinto il Governo Conte II ad intervenire per chiedere a TIM che l’operazione Open Fiber possa essere assorbita e ricondotta quindi nell’alveo di iniziative di mercato, in modo da liberare lo Stato italiano da un rischio potenzialmente alto.
Liuzzi (M5s): “Serve una rete a prova di futuro, ecco le sfide del Governo”
Il problema della duplicazione delle infrastrutture
Non ritengo, viceversa, particolarmente valida l’argomentazione più volte avanzata, senza essere mai stata quantificata, del cosiddetto problema della duplicazione delle infrastrutture (“overbuilt”) e questo non solo perché il fenomeno in sé stesso viene generalmente incoraggiato dalle norme europee (in accordo con la ben nota teoria della “scala degli investimenti”) ma anche perché i dati numerici a livello europeo ne metterebbero in dubbio la reale perniciosità. I dati di overbuilt FTTH vanno da 3,5 volte per la Spagna a 3 volte per la Francia, a 2 volte per l’Italia e 1,3 per il Regno Unito (media europea: circa 2,5). Dai dati dunque non risulterebbe un fenomeno di overbuilt per l’Italia oltre la media europea.
Viceversa, l’elemento da non trascurare è che, per assicurare un ritorno dell’investimento in fibra ottica che ne giustifichi lo sviluppo accelerato, si ha necessità di un riempimento almeno pari al 50% (comunque ottimistico per Open Fiber nello scenario competitivo italiano). Tuttora, in Europa i numeri sono più bassi in media (circa il 12%), quantunque in crescita graduale. In Italia il take-up della fibra installata è ancora minore e, da questo punto di vista e solo da questo, l’overbuilt determina un aggravamento. È dunque lo stimolo della domanda la chiave del problema e, quindi, non solo sussidi al cliente (e non all’operatore) ma anche deregolamentazione che può incentivare gli operatori a competere, innovare e investire.
La concorrenza (sopravvalutata) del cavo
Un aspetto spesso discusso rappresenta la capacità concorrenziale di Open Fiber in un Paese, l’Italia, ove come noto non esiste la TV via cavo, vista come strumento di concorrenza infrastrutturale. Tuttavia, l’efficacia della concorrenza della TV via cavo negli Stati membri ove questa tecnologia si sia sviluppata, secondo un recente studio di Credit Suisse,[4] non è particolarmente efficace:
- la concorrenza con FTTH varia fra circa il 12% (Francia) e il 47% delle linee sottratte (Paesi Bassi) con una media solo del 27% nei Paesi a maggiore intensità di cablatura FTTH;
- la concorrenza del cavo tende a divenire gradualmente più debole nei confronti del FTTH perdendo in media 1,2 punti percentuali negli ultimi 5 anni, mentre ha guadagnato circa 1,5 pp nei mercati prevalentemente FTTC;
- il cavo non è comunque presente nelle aree bianche, mentre si concentra nelle aree a maggiore densità abitativa.
Sembrerebbe di potere concludere, quindi, che il fenomeno del cavo TV rappresenti un elemento pro-competitivo sopravvalutato (e in arretramento) e ovunque si stia mostrando più efficace la concorrenza degli operatori alternativi verticalmente integrati. Diventa sempre meno trascurabile anche la concorrenza delle linee mobili che, sia pure di qualità più modesta, in Italia sembrano attirare la clientela che tradizionalmente si accontenta pur di godere di costi molto bassi (fra i più bassi al mondo): un’inversione di tendenza potrebbe avviarsi per effetto del Covid-19, anche all’esito della pandemia, a causa del permanere del cambiamento delle abitudini sociali ma, senza incentivi economici diretti alla clientela, difficilmente ciò avverrà rapidamente e in modo sufficientemente capillare e ampio.
In definitiva, la motivazione alla base della scelta del Governo Conte II appare più di natura finanziaria (a protezione di Cdp) che industriale. La concorrenza con la fibra ottica di Open Fiber non appare ancora rilevante, a causa della scarsa domanda e, comunque, il modello fiber-only non sembra un surrogato in termini competitivi della TV via cavo in regresso un po’ dappertutto. Da qui, a mio parere, dovrebbe partire ogni considerazione circa gli aspetti pro-competitivi che secondo alcuni sconsiglierebbero il merger fra le due aziende.
Diverso sarebbe se Open Fiber fosse essa stessa un’impresa verticalmente integrata, ma su questo tornerò più avanti, dopo avere esaminato la vera pesante “croce” che portano le telecomunicazioni italiane: il grave errore di impostazione e conduzione del problema delle aree bianche.
Le difficoltà del Piano BUL per le “aree bianche”
Un profilo specifico di criticità, non solo per le implicazioni economico-finanziarie ma anche per quelle sociali e per il potenziale tradimento delle aspettative di infrastrutturazione digitale del Paese, è rappresentato dall’insuccesso ormai accertato del Piano BUL per le “aree bianche”. Dello sviluppo del Piano è stata incaricata in toto fra il 2017 e il 2019 Open Fiber, risultata vincitrice di tre gare pubbliche, complessivamente per 14 lotti regionali o pluriregionali.
L’impresa concessionaria si è impegnata per tutti i lotti a completare i lavori nel tempo minimo previsto dai bandi di 36 mesi, ma ha già chiesto una proroga fino a tre anni.
Oltre ai ritardi, sono ormai ben note le modifiche del Piano concordate con il concedente Infratel che dovrebbero preoccupare lo Stato italiano, in particolare il Ministero dello sviluppo economico che ha il compito di vigilare sull’esecuzione delle concessioni. Nonostante l’impegno apprezzabile di maggiore trasparenza mostrato nel 2020 da Infratel con la pubblicazione online di dati, notizie e contratti, una lista esauriente delle difformità, tuttavia, non potrà essere stilata finché non sarà disposto un audit indipendente e terzo sui sistemi informativi che è, a parere di chi scrive, ormai un passaggio irrinunciabile.
Specialmente da quando Open Fiber resiste persino alle richieste della IX Commissione Trasporti e Telecomunicazioni del Parlamento italiano di dare evidenza di tutti i dati sugli impegni assunti e sui risultati fin qui ottenuti. La verità è che, in assenza di un’accurata ispezione, condotta con la dovuta professionalità, lo stato reale del Piano non potrà essere compreso, giacché i dati forniti dal concedente e dal concessionario sono spesso in contraddizione fra loro, oltre ad essere frammentari.
Quanto ad oggi accertato tuttavia non lascia dubbi: i problemi connessi al piano di infrastrutturazione delle aree bianche sono numerosi e sembrano difficili da risolvere senza mutare le condizioni al contorno. Prima di esaminare le fasi di progetto ed esecuzione del Piano per le aree bianche, conviene fare cenno ad alcuni aspetti di impostazione.
Infatti, sono discutibili le scelte effettuate già in una fase precedente alla gara, di rivedere la classificazione del territorio italiano frammentando a dismisura le aree da “colorare” bianche, grigie e nere in 94.645 areole identificate mediante accorpamento di aree censuarie ISTAT senza curarsi dell’associazione con le infrastrutture di rete esistenti. A ciò si è aggiunta la decisione di includere nelle gare oltre alle aree conclamate come bianche altre aree dette ‘a completamento’. La figura 1 mostra la statistica calcolata sui dati di gara delle aree bianche e di quelle definite a completamento. Sull’asse orizzontale si presentano Comuni da cablare interamente (0%) e, a fianco, Comuni detti a completamento, ossia con aree da coprire progressivamente in misura minore (da quelli già coperti al 50% almeno a quelli coperti al 95% almeno).
Figura 1 – Classificazione delle aree definite da Infratel
Se le aree a completamento fossero state escluse, quanto meno in parte, dai bandi di gara per il finanziamento diretto destinandole a forme di finanziamento a contributo, il Piano avrebbe ridotto fortemente la criticità che ha manifestato. Ad esempio, escludendo i 3.033 Comuni con infrastrutture completate al 50% o più sarebbero state depennate dai bandi 28.863 areole; i Comuni residui per l’intervento diretto sarebbero risultati 4.729 (non 7.762) e le areole interessate 54.154. Le aree realizzate al 50% o più con fondi privati potevano essere completati con bandi ad incentivo che avrebbero condotto ad un intervento più certo, più rapido e soprattutto completo.
I (discutibili) criteri di censimento delle unità immobiliari
Discutibili, poi, sono i criteri di censimento delle unità immobiliari (le cui cause sono difficilmente spiegabili) che fanno sì che l’infrastruttura di Open Fiber non venga portata solo alle sedi già servite dalla rete in rame destinata ad essere sostituita, ma anche a sedi che non richiederanno forse mai la connessione in rete (box auto, cantine, magazzini, capannoni, etc.): da un lato, le famiglie in Italia nel 2016 erano circa 25 milioni (si noti che questo è il parametro preso alla base dalla Commissione europea per valutare la penetrazione della BUL); dall’altro, le linee telefoniche attive sono poco meno di 20 milioni, in continua decrescita fino all’avvento del Covid-19 a causa della migrazione nel decennio trascorso dei contratti da fisso a mobile. Il metodo di classificazione di Infratel Italia, basato sui cosiddetti “indirizzi civici”, sembra contare circa 36,5 milioni di linee a livello nazionale, causando in tal modo un considerevole spreco di risorse che andrebbe razionalizzato.
Non è mai stato pienamente chiarito l’effetto contrattuale e se tutte queste linee destinate spesso a non essere mai impiegate vengano contate a fini economici (si tratta di 1,46 e 1,85 volte il valore reale a seconda della base di calcolo).
La qualità delle cablature fatte
Venendo alla qualità delle opere in via di realizzazione, qui di seguito è riportata una lista preliminare di criticità, che mi sembrano sufficienti a chiedere un esame indipendente dei dati ad oggi dichiarati riservati e la conseguente revisione del Piano; infatti:
- l’infrastruttura ottica non giunge alle case ma si attesta a pozzetti lontani fino a 40 metri in linea d’aria dal confine della proprietà privata; pertanto, oltre a necessitare di ulteriori investimenti, presenta difficoltà di ottenimento di nuovi permessi e potrebbe rimanere incompleta per tempi anche molto lunghi;
- la mancata sinergia con TIM, accertato ormai da tempo il quasi totale mancato riutilizzo delle infrastrutture elettriche che avevano ingenerato uno sconsiderato ottimismo, è causa di sprechi e della scelta di replicare tutti i nodi di rete, oltre a non consentire neppure localmente e come soluzione di back-up, il ricorso all’architettura FTTC, più rapida da realizzare e di natura intrinsecamente evolutiva verso FTTH o altre architetture intermedie, come FTTdp, altrettanto accettabili nella prospettiva europea delle “Very High Capacity Networks” (VHCN);
- i PCN, ossia le centrali locali ottiche di Open Fiber, inizialmente previsti in circa 600 per le aree ricomprese nelle prime due gare sono stati aumentati fino a circa 3.000; lungi dall’essere un vantaggio, questa scelta, dovuta agli errori di impostazione dell’architettura di rete, determina extra costi per gli operatori che vorranno impiegare le infrastrutture di Open Fiber per offrire il servizio ai clienti i quali dovranno realizzare reti più capillari per raggiungere i PCN e, pertanto, potranno essere disincentivati oppure dovranno aumentare le tariffe del servizio per i loro clienti; unito al problema dell’infrastruttura incompleta lato cliente di cui si è detto, questa scelta potrà causare presumibilmente un ridotto take-up del servizio;
- pur avendo accelerato, Open Fiber afferma di aprire circa 40 cantieri al mese e questo ritmo di costruzione dell’infrastruttura non appare compatibile con il suo completamento entro il 2023 ma in tempi assai più lunghi, ferme restando le osservazioni sulla sua incompletezza;
- l’infrastruttura ottica FTTH è stata molto ridimensionata, riconvertendo su tecnologia FWA (fixed wireless access) oltre 1.200 Comuni, in parte persino da servire da Comuni vicini; questa tecnologia offre oggi velocità più basse e non assicura la crescita nel tempo della velocità in rete della fibra ottica (verso il Gigabit al secondo); inoltre, considerate le condizioni della radio propagazione, il numero di unità immobiliari servite potrebbe essere molto minore degli impegni di gara e l’affidabilità dei collegamenti alle frequenze scelte (onde millimetriche) potrebbe rivelarsi scarsa.
L’insieme di condizioni che hanno di fatto prima male impostato e poi trasformato profondamente la fisionomia del Piano per le aree bianche fa ritenere che esso potrebbe non essere completato nei termini necessari per consentire l’impiego completo dei fondi di origine comunitaria. Allo stato appare poco plausibile che l’infrastruttura possa essere consegnata e attivata entro i sei anni dalla firma delle concessioni. Tale preoccupante scenario meriterebbe un’attenta e immediata considerazione da parte delle Autorità competenti.
Se, come plausibile, non sussistono più le condizioni, di fatto e forse persino giuridiche, per continuare nel solco tracciato l’impresa che rischia di non aver mai fine – in triste continuità con una deteriore tradizione nazionale di opere incompiute – ci sarebbe da attendersi un rapido intervento del Governo per l’immediata risoluzione del problema. L’accertamento delle cause del mancato successo, infatti, dovrebbe essere preliminare alle scelte delle forme di utilizzo dei fondi del “Recovery and Resilience Plan”. Come lo stesso ministro Giorgetti ha recentemente dichiarato in Parlamento, infatti: “La mancata concreta realizzazione degli stati di avanzamento comporterà il loro definanziamento; siamo quindi chiamati a definire un piano ispirato alla massima concretezza e sostenuto dall’analisi puntuale della fattibilità dei progetti che vi saranno inclusi: dobbiamo essere ambiziosi ma realisti e non velleitari”.
Come salvare il piano (e Open Fiber)
Come si è visto la Società TIM di oggi presenta un assetto che ha portato al limite massimo previsto dalla regolamentazione europea la sua forma organizzativa per assicurare ai concorrenti la parità di accesso. L’azienda si configura in pratica come una public company; ha portato a termine un’operazione di scorporo della rete di accesso tradizionale e di incorporazione della società della fibra in precedenza separata; si è dichiarata disponibile a rafforzare con una governance indipendente la separazione della società della rete dalla controllante TIM; nel processo di approvazione da parte dell’Agcom e della Commissione europea se necessario potranno essere richieste ulteriori garanzie sulle regole di gestione.
Nel complesso non esiste in Europa un assetto più garantista di quello in via di approntamento. Solo in parte il caso di Openreach nel Regno Unito si avvicina, in quanto Openreach è controllata al 100% da BT e, a differenza di FiberCop, non consente ai concorrenti forme di condivisione della governance. Dal confronto europeo potrebbe quindi derivare la perfetta accettabilità, in virtù delle garanzie per la concorrenza, della fusione ipotizzata dal Governo Conte II per evitare a Cdp di proseguire nel coinvolgimento finanziario nell’impresa Open Fiber. In uno scenario inerziale, infatti, sembra essere preminente l’interesse dello Stato italiano a non interrompere il percorso di incorporazione di Open Fiber.
Tuttavia, se oggi non si intende più proseguire secondo questa linea, si dovrebbe ripartire dagli impegni assunti sulle aree bianche per semplificarne lo scenario.
Oggi in Italia le alternative proponibili sono diverse e vanno:
- da forme di accordo tecnico-commerciale con l’incumbent,
- alla presa d’atto del governo della necessità di un proprio intervento diretto per modificare il modello di sviluppo,
- fino all’ultima ratio che passa per la deliberazione del recupero dei fondi non spesi e per un loro reimpiego in gare pubbliche semplificate sulla base delle norme sul Covid-19.
D’altra parte, le aree ormai impropriamente definite bianche, come alcuni operatori ben sanno, non giustificano da tempo un regime concessorio in molte zone.
Sempre nel caso di cambio di rotta, lo Stato non dovrebbe celare a sé stesso le difficoltà del modello di business sin qui abbracciato da Open Fiber: attraverso Cdp che sta trattando la quota di maggioranza con Enel, dovrebbe intervenire con la modifica del modello wholesale-only, in modo da rendere Open Fiber più profittevole ed evitare gli scenari in continuità sopra illustrati che mettono a rischio le basi stesse dell’impresa. Dall’analisi finanziaria DCF, sia pure semplificata, che è stata riassunta sopra discende che sulla base dei ricavi solo nel mercato wholesale, specie se non accetterà offerte di co-investimento, la stabilità finanziaria di Open Fiber non sarà garantita.
Liberarsi del gravoso carico dell’infrastruttura FTTH nelle aree bianche e divenire un operatore alternativo verticalmente integrato, operativo ai livelli sia wholesale che retail nelle sole aree ove il business fibra ottica possa dare un ritorno ragionevole e per il resto usare, come nel caso degli altri operatori alternativi, la rete dell’incumbent, è la via maestra per risolvere i problemi di Open Fiber.
È difficile trovare un ambito applicativo del modello wholesale-only. Esso potrebbe sostenersi economicamente solo in aree gestite in monopolio con modello Regulatory Asset Base (RAB) che però rischia di gravare i clienti di extra costi per errori nelle analisi del regolatore, come storicamente dimostrato per alcune reti elettriche. Non si sostiene, viceversa, se viene adottato solo per le aree bianche a causa della scarsa domanda: di nuovo, si renderebbero necessari continui aiuti pubblici e/o sussidi incrociati da aree competitive difficilmente accettabili. La RAB ha senso per un operatore che migra la clientela da piattaforme legacy a quelle di nuova generazione come si è reso conto Ofcom nei confronti di BT. La RAB è inadeguata per chi costruisce una rete ex novo.
Infine, nelle aree ove la dinamica competitiva inizia a manifestarsi, come quelle solo nominalmente bianche ove intervengono operatori FWA su fondi privati, un operatore wholesale-only finanziato dallo Stato determina un regime distorcente della concorrenza, quindi contrario alle regole europee. L’analisi di mercato, come la legislazione corrente richiederebbe, farebbe ormai emergere con chiarezza in molte aree questa distorsione delle regole del mercato.
La partita delle telecomunicazioni è oggi più che mai centrale per la ripresa e lo sviluppo del Paese. Essa non implica affatto il ritorno ad antichi modelli con la gestione diretta da parte dello Stato o di imprese finanziarie di sua emanazione come Cdp. La liberalizzazione di venticinque anni fa ha rappresentato l’apertura di un “vaso di Pandora”, un aumento di entropia globale, che non consente il ritorno al passato.
In conclusione
In tutta Europa gli incumbent operano nel mercato regolamentato e si è stabilito un equilibrio non conflittuale fra loro e lo Stato. Il dibattito sulle infrastrutture è presente ovunque ma in nessun luogo porta a velleità nazionalizzatrici o a fughe in avanti sulle tecnologie. L’esperienza Open Fiber sta lì a rappresentare, un insegnamento per quanti pensano che più Stato nelle telecomunicazioni possa risolvere i problemi e che basti una buona dose di velleitarismo per dotarsi subito della fibra ottica dovunque.
Inoltre, il modello wholesale-only mostra serie limitazioni in un mercato rischioso e a ritorni molto ritardati come quello della fibra ottica. Difatti nell’Unione europea si rinviene in poche realtà locali e solo in Italia è abbracciato su scala nazionale.
Se la fibra ottica è l’obiettivo per larga parte della popolazione residente, ed è giusto che lo sia, dovunque in Europa l’obiettivo è stato perseguito con visione di lungo termine lasciando libero di decidere il percorso di migrazione l’operatore dominante, il solo ad averne mezzi strumentali e competenze, senza per questo rinunciare a monitorarlo e stimolarlo.
Non resta che sperare che nelle telecomunicazioni il nostro voglia finalmente diventare “un Paese normale”.
Lo sviluppo del FTTH nelle aree a fallimento di mercato in Europa
In EU-28 a giugno 2019 la copertura FTTP netta, che include sia FTTH che FTTB, è data in media al 33,5% (+4,5 pp sull’anno) e al 17,5% (+2,9 pp) nelle aree rurali (report IHS Markit per la Commissione europea, 2020). La copertura lorda è spesso maggiore a causa delle duplicazioni ma nelle aree rurali copertura lorda e netta tendono a coincidere in quanto è difficile che più di un operatore porti il servizio di connettività ottica. Nei principali paesi europei in genere contribuisce più di un operatore all’infrastrutturazione nelle aree bianche, spesso di carattere locale. Il modello wholesale-only si applica in piccole aree, spesso associato ad altri servizi di utility locali.
In Francia, la L. 1425-1 (2001) del Codice generale ha ampliato i poteri degli enti locali (comuni, raggruppamenti di comuni, dipartimento, regione) consentendo loro di realizzare reti di iniziativa pubblica (RIP, Réseau d’Initiative Publique). In accordo con questa legge, l’autorità locale non realizza né gestisce la rete (salvo alcune eccezioni) ma affida questi compiti a società private, i gestori di infrastrutture, tramite appalti cui fa seguito un contratto di delega di servizio pubblico di tipo concessionario (contratto di partenariato pubblico-privato). In questo quadro gli operatori di infrastrutture (Orange, SFR, Altitude, Axione, Covage, TDF) gestiscono le reti in fibra ottica di iniziativa pubblica (RIP) sovvenzionate dalle autorità pubbliche. Al momento della sottoscrizione del contratto tra la comunità locale e l’operatore, l’accordo prevede alcuni obblighi e in particolare quello di garantire e commercializzare l’accesso alla rete in modo non discriminatorio a tutti gli operatori interessati. Nel piano di rilancio dell’economia, finanziato anche dalla Ue, sono previsti €240 miliardi per coprire l’intero Paese con la banda ultralarga almeno a 30 Mbit/s entro il 2022. Il governo poi ha l’obiettivo di completare la transizione verso l’FTTH entro il 2025, mentre l’opinione corrente, quale quella di Avicca (associazione dei comuni per il digitale) e di operatori e installatori è che la rete in rame sarà completamente spenta nel 2030. A metà 2019 si possono stimare coperte in FTTH 12,7 milioni di famiglie (linee: 34,3 milioni; overbuild: 2,7) e una copertura rurale di 545.500 abitazioni.
In Germania nel corso dello scorso anno e all’inizio di quest’anno i principali operatori alternativi, Vodafone, Telefonica 1&1 Versatel hanno convenuto accordi di cooperazione a lungo termine, il Commitment Model, con Deutsche Telekom con il quale si impegnano a utilizzare sia rete tradizionale con il vectoring sia la rete ottica a mano a mano che sarà realizzata da DT. Vodafone che gestisce la rete in cavo coassiale CaTV sembrerebbe preferire l’impiego della nuova rete alla sostituzione della tratta coassiale più prossima ai clienti.
A metà 2019 si possono stimare coperte FTTH 4,3 milioni di famiglie (linee: 4,8 milioni; overbuild: 1,1) e una copertura rurale di 250.500 abitazioni.
Nel Regno Unito Openreach ha puntato sull’ammodernamento della rete in rame aggiungendo il vectoring e da ultimo il G.Fast su cui, però, dalla fine del 2019 ha deciso di non proseguire oltre i 2,27 milioni di unità immobiliari (UI) già realizzate. A settembre del 2020 la maggior parte delle connessioni a larga banda erano ADSL (24 milioni circa).
Il gestore di reti CaTV Virgin ha aggiunto progressivamente il Docsis 3.0 e poi il Docsis 3.1 con velocità fino a 1Gbit/s coprendo così il 60% del Paese, in particolare le aree urbane maggiori; non mostra interesse a passare dalla rete coassiale a quella in fibra, per ora ha realizzato una rete ottica per 500mila UI e ha in programma la trasformazione per altri 2 milioni di UI prevalentemente nelle grandi aree urbane entro il 2023.
Gli operatori alternativi sono impegnati quasi esclusivamente nelle aree urbane maggiori e solo Gigaclear posa la fibra prevalentemente in aree rurali con l’obiettivo di passare dalle attuali 150mila terminazioni ottiche a 500mila nel 2023. Nel Regno Unito, quindi, anche in presenza di 81 operatori di rete (la quasi totalità in piccole realtà territoriali) la copertura delle aree rurali con la rete ottica FTTP è molto limitata: a fine 2019 era solo del 7,5% (Fonte: Idate).
Il governo Johnson considera un traguardo prioritario la transizione alla rete in fibra: l’obiettivo del governo era quello di completare il passaggio nel 2025. In seguito l’obiettivo è stato ridimensionato decidendo di puntare, sempre nel 2025, alla copertura dell’85% del territorio. Per favorire la transizione e rimuovere alcune perplessità di BT sull’opportunità di investire prima per la trasformazione della rete, il regolatore Ofcom ha eliminato alcuni rimedi previsti per Openreach, in modo da consentire un “giusto ritorno” degli investimenti. In particolare ha soppresso per dieci anni o più l’obbligo di cedere le linee wholesale a una tariffa orientata al costo e ha dato la possibilità di aumentare le tariffe della rete in rame, in particolare nelle aree non competitive, che rappresentano il 30% del Paese.
A metà 2019 si possono stimare coperte FTTH 1,2 milioni di famiglie (overbuild: 1,0) e una copertura rurale di 160.000 abitazioni.
Nei Paesi Bassi la copertura in fibra della aree rurali è realizzata quasi unicamente dall’operatore incumbent KPN che nel 2017 ha assorbito l’operatore fiber-only privato Reggefiber in difficoltà a causa del suo piano nazionale eccessivamente ambizioso. KPN a metà 2019 aveva coperto in VDSL2 supervectoring 842.000 famiglie (10,8%) di cui circa 25 mila in aree rurali e 2,7 milioni (34,4%) di cui circa 150 mila famiglie in aree rurali in FTTH.
Secondo le ultime decisioni di KPN, il ritmo di crescita sta aumentando di nuovo: il numero di nuove connessioni FTTH è passato da circa 208.000 all’anno a fine 2019 a 520.000 all’anno nel 2020. I piani prevedono la copertura FTTH di circa il 65% del Paese nel 2025 e dell’80% a regime (senza precisare la data).
A metà 2019 si possono stimare coperte FTTH 2,7 milioni di famiglie (linee: 2,95 milioni; overbuild: 1,1) e una copertura rurale di 170.000 abitazioni.
I dati di copertura totale e rurale nei Paesi considerati sono stati elaborati sulla base del “Broadband Coverage in Europe 2019” pubblicato dalla Commissione europea (2020).
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Note
- https://www.affaritaliani.it/economia/openfiber-il-mistero-del-vero-valore-ecco-i-numeri-che-non-tor-692370.html?refresh_ce ↑
- https://it.businessinsider.com/numeri-bilancio-2019-open-fiber-fusione-fibercop-banda-larga/ ↑
- L’analisi qui riportata è stata svolta prima che TIM lanciasse al mercato la proposta di coinvestimento ai sensi del Nuovo codice europeo per le comunicazioni e non ne tiene conto. ↑
- Credit Suisse, Equity Research Europe: “European Fibre Networks V. Building the gigabit society – incumbent deployments accelerating”. 4 September 2020 ↑