Trasparenza, le PA sono all’anno zero: qualche consiglio pratico per la svolta

I siti dei principali Comuni non hanno ancora pubblicato il piano anticorruzione. Cartina tornasole di problemi che sono alla radice del modo in cui le PA stanno affrontando questo passaggio epocale, verso la trasparenza. La soluzione è in cambio di paradigma: bisogna lavorare nelle PA sulle piattaforme di integrazione, sul web oriented, sulle interfacce per i cittadini. Investendo su formazione e incentivazione di competenze gestionali

Pubblicato il 14 Feb 2017

Michele Vianello

consulente e digital evangelist

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Troppo spesso nella discussione sul Foia si è trascurato di analizzare le condizioni affinché “l’essere trasparenti” non si traducesse, per le Pubbliche Amministrazioni, in un aggravio di lavoro; peggio, in una ulteriore incombenza burocratica.

Sono assolutamente convinto che le finalità indicate dal legislatore, ovvero il favorire una maggiore partecipazione da parte dei cittadini, il rendere possibile il controllo sulle attività del “pubblico” e sulla spesa pubblica, potranno realizzarsi se l’esercizio del Foia verrà concepito ed esercitato come un arricchimento della vita democratica del Paese (domanda).

Parimenti (offerta) le Pubbliche Amministrazioni dovranno concepire, anche culturalmente, che la trasparenza è un fondamento dell’essere delle Istituzioni e del mondo pubblico.

Nella realizzazione del “FOIA all’italiana” si sconta un limite culturale, e non solo, gravissimo. La nuova legislazione è una novellazione della legge anticorruzione. Non è un caso che la vigilanza e l’emanazione delle linee guida sia stata affidata all’ANAC.

Certo, la lotta alla corruzione è decisiva, ma la trasparenza, anche per scelta corretta del legislatore è permeante l’intera produzione programmatoria di una amministrazione.

Avanzo queste osservazioni per evitare che il Piano Triennale per la Trasparenza e l’Anticorruzione si traduca in un mero adempimento burocratico; divenga così un’altra occasione perduta, un’altra incombenza mal sopportata.

Queste mie osservazioni si basano sulla personale attività professionale svolta sul campo, prevalentemente negli Enti locali.

In queste ore ho analizzato i siti di cinque importanti comuni italiani (quelli sempre primi nelle classifiche smart, quelli sempre presenti a tutti i tavoli dell’innovazione dell’ANCI). Ebbene nessuno ha ancora pubblicato sul sito il PTPCT. Potrebbero averlo già adottato e non ancora pubblicato ma, ad oggi è così.

La tendenza prevalente è quella di sommare il piano anticorruzione ad alcuni buoni intendimenti sulla trasparenza.

Egualmente mi convincono molto poco le “prove di trasparenza” messe in atto da importanti quotidiani nazionali.

Siamo davvero convinti che un normalissimo cittadino sia interessato ad avere gli scontrini dei viaggi del Sindaco o le mail di una corrispondenza tra un Sindaco ed un Assessore? E poi, perché solo i Comuni?

I gestori delle public utilities possiedono infinite quantità di dati di “interesse pubblico” che potrebbero rendere davvero trasparente una bolletta., o comprendere davvero l’impatto ambientale delle infrastrutture di smaltimento rifiuti. Le Aziende Sanitarie locali opportunamente interrogate potrebbero (dovrebbero) raccontarci molte cose sul loro funzionamento, sui medici, sui farmaci ecc..

Lo scandalo ci interessa poco. Noi vorremmo esercitare con cognizione e conoscenza il nostro diritto alla cittadinanza attiva.

Come capirete la gestione verticistica del FOIA da parte di alcuni interessati mi interessa molto poco. Il FOIA va esercitato in primis dai normali cittadini.

Poiché, ripeto, lavoro “sul campo” e non appartengo alla schiera delle anime belle del “vero FOIA” (retaggi religiosi come la “vera croce”), mi permetto di offrire, soprattutto al mondo delle autonomie locali –che conosco bene- alcuni consigli pratici affinché, come chiede il legislatore, la trasparenza venga organizzata per davvero.

Attraverso la circolare 1310 del 2016 l’ANAC definisce il PTPCT “un atto organizzativo fondamentale dei flussi informativi necessari per garantire, all’interno di ogni ente, l’individuazione/l’elaborazione, la trasmissione e la pubblicazione degli atti”.

Oggi i Comuni sono invece organizzati e hanno adottato nel tempo una cultura autoreferenziale improntata sulla riservatezza e non sulla trasparenza.

Il legislatore ci dice, all’opposto, che la trasparenza è la regola e la riservatezza una eccezione.

Chi scrive ritiene ad esempio che più seguiremo negli Enti Pubblici la strada culturale ed organizzativa della trasparenza, più dovremo tutelare il diritto alla privacy dei cittadini. Ciò che andrà raggiunto nei prossimi anni sarà un corretto (e non semplice) equilibrio tra l’esercizio del diritto alla trasparenza e il diritto alla privacy.

Preliminarmente vorrei offrire una prima definizione del Piano per la Trasparenza che definisco come un assieme di azioni organizzative e mutamenti culturali che si dipanano nel tempo attraverso l’uso sinergico di strumenti analogici e digitali.

Una “buona digitalizzazione”, tuttavia, costituisce la base indispensabile per garantire pratiche trasparenti e garantire assieme efficienza organizzativa.

Affiché questa enunciazione si traduca in pratica concreta ad ogni azione enunciata nel Piano andrà accompagnata una precisa responsabilità (in primis dirigenziale), una temporizzazione realistica, la previsione di eventuali risorse da investire, la enunciazione degli obiettivi da raggiungere. Se poi, come la legge prevede, il raggiungimento degli obiettivi di trasparenza sarà parte decisiva nella valutazione (anche economica) dei dipendenti, la trasparenza andrà “pesata”, e ad ogni azione andranno accompagnati incentivi economici o previste sanzioni.

Una visione burocratica e top down del Piano per la trasparenza impedirà il pieno dipanarsi di attivita concrete.

Il Piano dovrebbe essere figlio di un confronto con i dipendenti e con i cittadini. Vorrei ricordare che la legge prevede che il Piano sia presentato dall’organo politico.

Domanda dalla risposta scontata? Quante P.A. stanno coinvolgendo (o hanno coinvolto) i loro dipendenti e gli stakeholders nella definizione degli obiettivi di trasparenza.

Ricordo ancora una volta che la finalità del FOIA è quella di stimolare processi di partecipazione e non alimentare inutili polemiche su Facebook.

A questo punto vorrei indicare alcune macro che dovranno costituire l’ossatura “logica” delle attività che costituiscono l’ossatura del PTPCT.

1) La realizzazione di un sito istituzionale “web oriented”;

2) L’organizzazione di “sportelli” in grado di gestire in “modo umano” la gestione delle richieste di accesso;

3) La realizzazione, l’implementazione di un portale degli “open data” utile alle imprese e ai cittadini,

4) Una diversa cultura dell’organizzazione delle attività attraverso le quali si salvano, si protocollano, si organizzano i documenti prodotti da una Pubblica Amministrazione;

5) Una diversa architettura informatica orizzontale, processuale, web e open oriented.

Osservazioni sui siti web della PA

L’Agid ha indicato ormai da tempo alcune linee guida per riprogettare il design dei siti delle P.A.. Ovviamente ciò va bene, ma non è assolutamente sufficiente.

Avanzo un’altra domanda retorica. È Facebook il luogo della trasparenza e delle interlocuzioni tra la P.A. e i cittadini?

Penso proprio di no. Facebook è diventato il luogo virtuale degli scambi (spesso sanguinosi) tra gli amministratori e i cittadini perché i siti istituzionali –dopo la gloriosa stagione delle reti civiche- sono diventati una mera espressione di burocrazia. I siti istituzionali sono diventati il luogo dell’opacità, uno stocastico assemblaggio di notizie non indicizzato e indicizzabile.

L’obiettivo da darsi è quello che il sito divenga un hub di interazioni trasparenti (di servizi, di informazioni) tra la Pubblica Amministrazione e i cittadini.

Il sito dovrà mettere a disposizione le utilities e le identiche possibiltà di interlocuzione offerte da un normale social network.

Tuttavia, il sito potrà avere successo ed essere costantemente aggiornato (come la legge prevede) se non si limiterà ad essere una interfaccia “celibe” tra il web e i gestionali della P.A..

Se costituisce incommensurabile sciocchezza l’idea di una identica architettura per tutti i siti della P.A., l’indirizzo di fondo, ovvero interlocuzione alla pari, utilities avanzate, aggiornamento costante, piattaforma di servizi on line, permeabilità ai motori di ricerca (come previsto dalla Legge) dovrà essere in una qualche maniera “imposto”. Come poi ogni P.A. organizzerà le fasi di produzione e di messa in disponibilità dei contenuti, dovrà essere nelle sue individuali disponibilità.

Osservazioni sulle modalità di gestione di domande di trasparenza

Le legge indica con chiarezza le diverse “porte di ingresso” che una P.A. deve mettere a disposizione dei cittadini che intendano esercitare il loro diritto all’accesso generalizzato.

Domanda retorica. I dipendenti dei vostri URP sono stati formati a gestire l’accesso generalizzato?

Avete verificato le capacità relazionali dei dipendenti. Un cittadino andrà aiutato e supportato nella ricerca degli atti che ha richiesto.

Le diverse tipologie di accesso vengono monitorate? I criteri di accoglimento (o di negazione) di una richiesta sono il frutto di una scelta dell’Ente, o vengono affidati ad ogni singolo servizio.

Abbiamo fatto, anche sul piano culturale, una riflessione collettiva sul “pregiudizio concreto” e sulla tutela della privacy?

Siamo all’anno zero. Ma, come viene impostata questa attività fin da subito segnerà il livello delle relazioni con i cittadini nei prossimi anni.

Osservazioni sulla liberazione di open data

Altra domanda retorica rivolta ai Sindaci e alle Giunte (particolarmente agli Assessori all’innovazione, alla trasparenza ecc.). Nella stesura dell’atto di incarico di Dirigenti, sono stati attribuiti gli obiettivi di trasparenza e di open? (anche questo è previsto dalla legge)

Il pensare ad obiettivi velleitari di totale trasparenza e pubblicazione di ogni dato porta solo danni alla nostra causa. Vanno però codificati, trasformati in obiettivo individuale i dataset da liberare.

Il numero di dataset liberati ci interessa poco. La qualità dei dati ci interessa tantissimo. Anche in questo caso varrebbe la pena di coinvolgere gli stakeholders, organizzare focus group ecc..

Insomma, ciò che è più importante fatelo decidere agli stakeholders e ai cittadini normali. Ciò che pensa la nostra cerchia di amici su Facebook ci deve interessare molto poco.

Osservazioni sulla “madre di tutte le battaglie”: come archiviare

Uno dei motivi per i quali le P.A. fanno una fatica infinita a darvi (come dice la legge) i dati, le informazioni, i documenti richiesti, è che, nemmeno loro sanno dove sono.

Già il fatto che le procedure di archiviazione e la liberazione dei documenti sia in parte normata dal Codiuce dei beni culturali ci dice molto sulla montagna che dobbiamo scalare.

Mi riprometto di scrivere più diffusamente su questo argomento, peraltro principale croce e delizia del mio lavoro sul campo (in attesa che la Madia finalmente vari le famose e attese norme sull’art. 71 del CAD).

In questo contesto mi limito ad evidenziare tre consigli.

1) Va scritto, pubblicato, discusso, trasformato in moduli formativi per tutti i dipendenti il celeberrimo manuale per la fascicolazione e la conservazione. Se i luoghi di protocollazione e di fascicolazione potranno essere plurimi (analogici e/o digitali) i criteri dovranno essere uniformi. Finisce l’epoca dell’archivista capo. Si salva per l’accesso dall’esterno, si salva per condividere.

2) Indipendentemente dal fatto che un fascicolo sia analogico e/o digitale (ricordate che la legge prevede come l’uso del digitale per il cittadino sia un diritto e non un obbligo), il fascicolo deve costituire un unicum. Deve essere archiviato in un unico luogo (fatto salvo sicurezza, disaster recovery ecc.), deve essere rintracciabile attraverso l’uso dei metadati.

3) Nel caso (come mi auguro) il fascicolo sia nativo digitale e rispetti quanto previsto dal CAD e dal DPCM novembre 2014, anche la presentazione di una istanza da parte di un cittadino in formato analogico deve tradursi: in una immediata protocollazione, nell’apertura di un fascicolo che deve contenere tutti i metadati necessari all’identificazione e alla permeabilità da parte dei motori di ricerca.

È impossibile rispondere nei tempi previsti dalla Legge alle istanze di trasparenza avanzate dai cittadini se la documentazione, i dati, le informazione non sono stati organizzati, fin dall’inizio in modo corretto e condiviso.

In conclusione

Mi limito a condividere con voi una semplice considerazione. La digitalizzazione, con buona pace di tutti gli storyteller, è uno strumento per offrire e garantire trasparenza (oltreché efficienza, accesso ecc.).

Sembra banale, ma non è così.

Le P.A., prima ancora che di nuovi prodotti digitali, hanno bisogno di delegificazione. Finalmente, fuori dal tempo massimo, redenti sulla via di Piacentini ci si sta accorgendo che il CAD è un possibile ostacolo alla digitalizzazione della P.A..

La strada della delegificazione è tuttavia irrealistica. Non ne vedo le condizioni politiche.

A legislazione esistente tuttavia, va perseguita la strada della trasformazione della digitalizzazione della P.A. da infrastruttura che sorreggeva una organizzazione (voluta dalla legge) di tipo procedimentale, ad un processo di erogazione dei servizi, a favorire partecipazione consapevole.

Questa semplice enunciazione resterà tale se assieme non si lavorerà sulle piattaforme di integrazione, sul web oriented, sulle interfacce per i cittadini.

Soprattutto, l’affermazione di una diversa cultura nella P.A. non si affermerà se non si investirà per formare e incentivare, nuove competenze gestionali (non arrabbiatevi, le competenze gestionali stanno prima di quelle digitali) nelle P.A..

Osservazioni sulle modalità di gestione di richieste d’accesso

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