Povera televisione. Gliene dicono talmente tante, ne scrivono ancora peggio, che mi viene da farle da avvocato difensore. Lo so non la passerò liscia. Nell’immaginario collettivo di moltissimi la televisione è indifendibile, è la centrale d’ogni superficialità, sciatteria, ignoranza, irresponsabilità, partigianità, lottizzazione, clientelarismo, se non menzogna. Nelle analisi più approfondite l’accusa è meno tranchant e si limita a dire che la tv eroga disinformazione, puntualizzando che però non si vuol intendere “falsa informazione”, ma informazione inutile, senza sostanza, ignorante perché ignora la realtà, quella “vera”.
Ora l’accusa di piallare i nostri crani si estende al web, con la supremazia dei social network, colpevoli di essere sempre più simili alla TV. Chi va con la zoppa impara a zoppicare, insomma. Si indica addirittura una supremazia della televisione sugli altri mezzi. Siamo di fronte al dominio dei canoni della zoppa e non semplicemente a un codazzo di suoi imitatori.
Il rappresentante dell’accusa (migliaia di corsivi, studi, analisi, ricerche e consessi) aggiunge poi che sono proprio i social network, grandi monopolisti dell’attenzione e dell’uso della rete, ad adottare ogni giorno di più la televisione (il live streaming certo, ma meglio sarebbe parlare di materiale “video”) e soddisfare così la più comoda delle fruizioni di contenuti, quella “image-centered”, dove tutto è breve e finisce lì, mentre magari un testo online rimanda ad altri testi, che a loro volta connettono ad altri testi ancora, con un crescendo di apporti che si compongono in una spedie di magnifico corpus ipertestuale. Insomma la vera crescita della conoscenza avviene attraverso i testi, i testi scritti. I libri. Un argomento fortissimo. Inattaccabile. L’avvocato difensore in questo momento è in ginocchio. Stravolto dalla piega che ha preso questo processo alla televisizzazione della rete. Amante inveterato dei volumi in carta stampata, riuscirà (l’avvocato) a rimettersi in piedi e a difendere l’indifendibile televisione?
L’accusa, il PM di turno, lo vede piegato, quasi al tappeto e non ha pietà. “Ancora un paio di diretti, e il ragazzo è knockout, per sempre”.
Dunque l’accusa rincara la dose. Ricorda che la rete, come la televisione (la zoppa) vuole sempre più intrattenere, con leggerezza, tipica dell’entertainment. E soprattutto vuole il consenso che faccia rimanere attaccati allo schermo.
“Dunque, vostro onore – occhiali scuri, braccia conserte sull’imponente cattedra di mogano, il giudice dorme alla grande – la zoppa e i suoi epigoni, i social network amplificano i credo e le abitudini mentali di ciascuno. Le liscia nel verso giusto. Mai contropelo. Conforta, rasserena, non lancia sfide. Induce emozioni, le coccola, le incanala nei post, nei tweet, in formato video. Attira con piccole dosi gratuite, fino a farti diventare un tossico di video brevissimi, quelli da smartphone. Fa di te un “clickbaiter” assatanato, instancabile, compulsivo!”
“Per non menzionare poi” l’accusa sente di avere la vittoria in pugno “il fatto che alla fine i sentimenti prevarranno su tutto. Nessun ragionamento, nessuna informazione contraria al proprio feeling, nessun contradditorio. Ma una bella bolla personale, piena di video leggeri, digeribilissimi, accattivanti, sempre interni alla tua sfera opinionale. È la radice del tanto deprecato populismo! È la democrazia del cuore e non della mente! È la causa della società frammentata, individualizzata al massimo, perché ognuno riceve in rete le risposte che si aspetta, che desidera, che vuole.”
Quest’ultima sequenza di colpi mi finisce. Sono al tappeto. Ho la vista annebbiata. Il cuore a mille. Grondante di sudore. Sento percuotermi le tempie dalle discettazioni di grandi della sociologia della comunicazione, massmediologi acclamati, ricercatori rigorosi, saggisti di cui io stesso sono affamato lettore.
Sono con la faccia al pavimento. Ma non ho ancora perso (coscienza) la speranza di alzarmi e di poter fare la mia arringa.
Dirò: “Vostro onore, e colleghi tutti, due grandi attenuanti occorre mettere sul piatto… La prima mette a confronto quella che voi chiamate la supremazia del testo scritto sulla televisione, cioè la visione di materiale video, a distanza. Vedete, vostro onore, si insegna da centinaia d’anni, da quando la scuola è diventata un servizio pubblico, spesso statale, sempre più obbligatoria, che il suo compito sia portare i discenti a saper ‘leggere, scrivere e far di conto’. Ma da oltre cento anni un discorso, un qualunque discorso, un qualunque testo, è possibile pronunciarlo anche con immagini in movimento. Sì, parlo del cinema! E da ottant’anni queste immagini sono accompagnate dal suono e sono trasmissibili, nell’etere, da un punto all’altro del globo. Sì, parlo della televisione! Ora ci domandiamo, vostro onore, come mai nelle scuole di ogni ordine e grado, dall’asilo all’università, non è stata introdotta la disciplina del fare cinema, radio, televisione e web?” A questo punto l’aula dovrebbe rumoreggiare e il rappresentante dell’accusa dovrebbe lasciarsi sfuggire, volutamente, un “Questa è proprio una minchiata!”
Io continuo la mio ragionamento nel silenzio del mio intontimento. Sono ancora a terra e non riesco a muovere neppure un muscolo.
“Lo so, la scrittura ha seimila anni di storia e per portare il testo televisivo allo stesso livello di stima e considerazione del testo scritto ci vorranno ancora un po’ di anni. Ma pensate, vostro onore e voi della giuria, se tutti facessero, scrivessero, componessero, disquisissero anche con la televisione e non solo con il testo scritto. Non saremmo più degli analfabeti che dipendono dai pochi che sanno scrivere televisivamente. Lo stesso è stato per la scrittura. Per migliaia d’anni solo una ristrettissima cerchia era in grado di leggere e di scrivere e questo le ha dato potere, potere e potere! Anche il potere di farvi divertire a comando e farvi ignoranti ,ma credendo di essere felici!” “…Però c’è tanta televisione che non è proprio malaccio…” mi viene da pensare, ancora tramortito dai colpi dell’accusa. Ma sto zitto.
“Ma, c’è un ma, signore e signori, c’è un enorme ma! Anche se la scrittura televisiva ci fosse insegnata fin da piccoli, questa competenza, questo antidoto, questi anticorpi non sarebbero sufficienti per rimediare alla sostenibile e appetita leggerezza della tv e del suo attuale booster che è la rete. Il mio grosso ‘ma’ è quello che comunemente si chiama ‘modello di business’. Questo si basa, nella stragrande maggioranza dei casi, su quella che tutti ben conosciamo, come ‘pubblicità’ – e la pubblicità è donna d’onore! – che chiede sempre e comunque la massima quantità di teste, di spettatori, di visitatori unici, di clic, di visualizzazioni, di “piace”, di “condividi”, di “retweets”! Esige popoli, masse, moltitudini! Anche quando la pubblicità è su misura, come è riuscita ad organizzarsi con la rete, col web, anche quando è ‘individuale’, quello che è richiesto al produttore, all’editore, all’espositore dei contenuti, sono i numeri!”
L’arbitro contava, contava, contava: “…tre, quattro, cinque, sei…” Quei numeri rimbombavano fra il tappeto e la mia faccia e pancia a terra. “E i numeri, si fanno con la pancia, coi sentimenti, con il minimo sforzo mentale, con la televisione dei pochissimi per la televisione dei tantissimi, signore e signori della giuria!”
Sono lì, prono, immobile. Riesco ad socchiudere a fatica un occhio. Nella fessura intravedo il giudice che ora si è svegliato, almeno mi sembra. Ridacchia con il PM. Stanno guardando insieme qualcosa sul tablet del cancelliere. Dalle luminescenze capisco che sta scorrendo un video. Brevissimo. Infatti ora si danno di gomito. Ridono contenti. Sono d’accordo su tutto. I miei occhi si richiudono. Uno capisce quando non c’è più niente da fare. Ed io capii d’aver perso. Quanto meno il match di andata.
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