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TV, il refarming della Banda 700 MHz: pianificazione internazionale, DVB-T2 e piano frequenze

Quale sarà l’impatto sul settore televisivo terrestre della trasformazione tecnologica introdotta dal refarming delle frequenze 700 MHz? Una panoramica sulla pianificazione internazionale, sul DVB-T2 e sul nuovo piano di assegnazione delle frequenze

Pubblicato il 10 Mag 2021

Vincenzo Lobianco

Già consigliere per l’innovazione tecnologica dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni

mercato televisivo - streaming

Dopo quella avvenuta circa 10 anni fa, dal 2008 al 2012 con il passaggio dalla televisione analogica a quella digitale in standard DVB-T, la televisione terrestre va incontro a una seconda trasformazione tecnologica che comincerà nella seconda metà di quest’anno (in realtà molto è già successo come vedremo dopo) e terminerà -sperabilmente – entro il 30 giugno del 2022.

TV, cosa cambia col refarming della banda 700 MHz

La disposizione di maggior interesse per il tema in discussione è sicuramente il divieto di pianificare o assegnare frequenze non internazionalmente coordinate, che gioca un ruolo fondamentale nel definire i parametri della conversione da pre a post-refarming in quanto, insieme alla cessione dei 12 canali UHF al mobile, impatta significativamente sulla quantità di risorsa da poter utilizzare per la televisione digitale terrestre nazionale.

Pianificazione, coordinamento internazionale e innovazione tecnologica

Innanzitutto, cosa si intende per pianificazione internazionale? L’Italia si può pensare come una enorme portaerei di circa 1000 Km di lunghezza ormeggiata nel centro del Mediterraneo, vicina quindi a una molteplicità di Paesi che si affacciano sullo stesso mare, senza poi contare i paesi confinanti via terra, che fortunatamente sono abbastanza schermati dalle Alpi. Le frequenze, in particolare quelle televisive in banda VHF e UHF usate per i servizi televisivi, non si fermano ai confini amministrativi e statali, alla luce delle loro buone caratteristiche di propagazione che le rendono pregiate e di grande interesse per i servizi mobili. Le trasmissioni nazionali possono essere ricevute nei paesi confinanti e quindi interferire con le trasmissioni locali utilizzanti le medesime frequenze. Occorre pertanto giungere a degli accordi tra paesi confinanti o comunque vicini come quelli del versante orientale del Mar Adriatico che insistono nella stessa area di propagazione delle frequenze (area che è maggiore per il VHF rispetto all’UHF) detta anche area di coordinamento o area di buffer. In una stessa area di buffer dove coesistono due o più paesi, ad esempio le province sud-est della Puglia e l’Albania distante intorno agli 80 Km, la stessa frequenza può essere utilizzata da un solo operatore in uno dei due Stati e pertanto deve essere raggiunto un cosiddetto “accordo di coordinamento” per evitare che le trasmissioni in uno Stato vengano disturbate dai segnali interferenti provenienti dall’altro.

Questo divieto esplicito, ora introdotto nella legislazione nazionale, rappresenta una significativa novità, un rovesciamento del paradigma rispetto alla prassi fin qui adottata in sede nazionale, sebbene tuttavia tale divieto (o comunque il divieto di generare interferenze nocive verso i paesi confinanti usando frequenze di cui non si dispone il pieno titolo internazionale) fosse già previsto negli accordi tra paesi in tema di gestione del radiospettro.

Ciò non significa che sino a ora al livello nazionale siano state indiscriminatamente pianificate tutte le frequenze senza tener conto dei coordinamenti internazionali. Il metodo utilizzato nel passato è stato quello di pianificare, oltre alle frequenze assegnate all’Italia, anche le frequenze utilizzate dai paesi confinanti imponendo però su queste ultime precisi vincoli d’uso (in termini di potenza, diagramma di radiazione, etc.), da controllare attraverso il metodo dei punti di verifica -PDV- per non generare interferenze nei paesi limitrofi. Questa metodologia è stata utilizzata per far fronte all’elevata domanda di frequenze terrestri in un paese che ha dovuto storicamente contare quasi esclusivamente su questa risorsa per la diffusione dei servizi televisivi a causa dell’assenza del cavo e della ridotta penetrazione del satellite. Il rispetto di tali limiti è stato però demandato alla progettazione di rete degli operatori, che non sempre hanno seguito le indicazioni del pianificatore.

Inoltre, la verifica del rispetto dei vincoli stessi è sempre stata carente e pertanto, nel corso degli anni, il nostro paese è stato connotato a livello europeo come il “far-west” delle frequenze, come da felice espressione di uno dei passati presidenti di Agcom, creando notevoli problemi alla radiodiffusione nei paesi confinanti. Per far fronte alle situazioni interferenziali più pesanti, nel 2013 era stata disposta, con l’art. 6 del DL 145, il c.d. “Destinazione Italia”, la possibilità di escludere dalla pianificazione le frequenze non assegnate all’Italia, in uso ad operatori nazionali e oggetto di accertate situazioni interferenziali. Questa disposizione di legge fu attuata dall’Agcom con la delibera n. 480/14/CONS che escluse dalla pianificazione un numero variabile di 7-10 frequenze nelle singole aree tecniche. Si trattava tuttavia di un intervento ex-post di complessa attuazione e gli stessi Stati confinanti, pur riconoscendo lo sforzo fatto dal paese per risolvere i principali problemi interferenziali, richiesero espressamente, in occasione dei negoziati di coordinamento internazionale, di vietare l’uso delle frequenze non assegnate all’Italia.

È evidente, tuttavia, che aver vietato alla radice l’uso di frequenze non coordinate risolve una volta per tutti i problemi con i paesi confinanti ma diminuisce di molto il numero delle frequenze o canali disponibili dopo il refarming della banda 700 MHz. In banda UHF, teoricamente, non si potrebbe superare il numero di 14 ossia il 50% dei canali disponibili se nell’area di buffer (area di mutua interferenza sullo stesso canale) sono presenti due paesi. Anzi, se nell’area di buffer sono presenti 3 paesi il numero di frequenze potrebbe scendere a 9/10 ossia circa un terzo delle 28 disponibili. Pertanto, la riduzione dei canali assegnabili in Italia al servizio televisivo non è del 30% (12 su 40) come precedentemente anticipato ma bensì del 65% (26 su 40) considerato che grazie al lavoro svolto congiuntamente da MiSE e Agcom nei negoziati internazionali, si sono ottenute 14 frequenze in tutte le aree tecniche[1]. Tale riduzione rende la transizione verso il digitale terrestre privo della banda 700 MHz ancora più complessa e sfidante. Occorre infatti fare affidamento sull’evoluzione tecnologica per sopperire alla riduzione delle risorse e mantenere anche dopo il refarming il massimo numero possibile dei programmi attualmente trasmessi sulla piattaforma digitale terrestre.

La tecnologia DVB-T2

A tal scopo, viene previsto che i nuovi diritti d’uso da assegnare dopo il refarming dovranno essere utilizzati con la tecnologia DVB-T2, molto più efficiente del DVB-T in termini di capacità trasmissiva a parità di banda di frequenza utilizzata. Come dice il nome stesso il DVB-T2 rappresenta la naturale evoluzione dello standard precedente e offre prestazioni migliorative in termini di capacità trasmissiva, gestione della copertura, flessibilità operativa, robustezza del segnale, protezione al rumore e alle interferenze.

Con riferimento alla capacità trasmissiva, il DVB-T2 offre, nella variante di riferimento poi impiegata nella pianificazione di AGCOM, circa 37 Mbit/s contro i circa 19 Mbit/s previsti a suo tempo con il DVB-T. Si parla quindi di un raddoppio all’incirca della capacità trasmissiva, vale a dire, approssimativamente che usando il DVB-T2, con 20-21 canali potrebbero essere trasmessi in via teorica tutti i programmi in onda con 40 canali in DVB-T. È un risultato significativo ma non sufficiente visto che dopo il refarming saranno disponibili solo 14 canali e non 21. Occorre allora introdurre un ulteriore accorgimento tecnico per aumentare il numero di programmi che potranno essere trasmessi, intervenendo sull’altro aspetto che caratterizza la tecnologia del digitale terrestre, ossia la compressione (codifica) della sorgente (il programma TV). Cosa significa in pratica? Possiamo rappresentare la capacità trasmissiva come il numero di vagoni che viaggiano su di un binario corrispondente a un canale televisivo: prima del refarming avevamo 40 canali in DVB-T ciascuno con 19 vagoni. Dopo avremo 14 canali in DVB-T2 ciascuno dei quali trasporta 37 vagoni, quindi in totale poco più di 500 vagoni contro 760 pianificati prima del refarming. Dobbiamo quindi impacchettare i programmi in maniera più compatta per farli trasportare – tutti o quasi – da un minor numero di vagoni e canali.

La codifica attualmente utilizzata con il DVB-T è denominata MPEG-2: un programma a definizione standard (SD) richiede con questa codifica circa 3 Mbps (all’incirca il doppio in alta definizione – HD). Un livello di compressione migliore di circa il 50% si ottiene con lo standard MPEG-4 (con lo standard H264-AVC), che viene utilizzato soprattutto per i programmi HD. Infine, la codifica HEVC (standard H265) offre un fattore migliorativa di circa il 50% rispetto al MPEG-4.

La conversione al DVB-T2 con compressione HEVC è la soluzione ottimale per traghettare il sistema televisivo terrestre al postrefarming della banda 700 MHz ed è quella di riferimento per il Piano Nazionale di Assegnazione delle Frequenze (PNAF). Questa scelta potrebbe provocare disagi all’utenza in quanto richiede un ricevitore DVB-T2 che non era obbligatorio per i televisori in vendita fino al 2017. I dati di riferimento più recenti (Marzo 2020) pubblicati dal MiSE indicano che al mese di Febbraio 2020 il 42,4 % delle famiglie risulta essere dotata di un televisore DVB-T2 mentre le previsioni al Settembre 2021 stimano che circa 6 milioni di famiglie, corrispondenti al 27.1% del totale non saranno dotate di tale tecnologia di ricezione. Questa criticità è aggravata dall’introduzione della compressione HEVC, che è stata massivamente introdotta negli apparecchi televisivi solo successivamente. La codifica HEVC non è stata, infatti, imposta obbligatoriamente agli operatori, parlando la legge esclusivamente di codifiche o standard più avanzati e questo potrebbe costituire un ulteriore elemento di criticità nel refarming della banda.

Il nuovo Piano delle frequenze televisive nazionali

Analizzate le disposizioni relative al coordinamento e ai parametri tecnici previsti per la pianificazione e conversione, vediamo ora come tali disposizioni sono state attuate. Si premette che la gestione della risorsa radioelettrica, indipendentemente dal servizio, è materia su cui operano congiuntamente MiSE e Agcom per quanto di rispettiva competenza. In via non esaustiva e per ciò che interessa il presente articolo, si rappresenta che Il MiSE è responsabile della definizione del piano di ripartizione delle frequenze, del coordinamento internazionale, delle procedure di assegnazione delle frequenze e dei controlli sul corretto uso delle stesse.

L’Agcom è competente per definire le regole e i criteri per l’assegnazione delle frequenze e per i relativi piani di assegnazione. Queste attività vengono, tuttavia, svolte in collaborazione tra le due amministrazioni. Ad esempio, il piano di ripartizione, che stabilisce il servizio al quale viene destinata ogni banda di frequenza, in pratica può assimilarsi un piano regolatore che stabilisce la destinazione di ogni area del territorio (abitazioni, servizi, trasporti, parchi, etc.) viene approvato dal MiSE previo parere non vincolante dell’AGCOM. Si sottolinea inoltre che, nel caso delle radiofrequenze, la destinazione d’uso per la maggior parte delle bande (p.e. servizio radiomobile, radiodiffusione, radioastronomia etc.) è stabilita a livello internazionale, dall’ITU e per l’Europa dalla Commissione Europea e la CEPT, per la necessità di standardizzare gli utilizzi e le apparecchiature nei diversi paesi e regioni. Pertanto, la discrezionalità nazionale o anche europea è molto limitata e la Decisione 2017/899 sulla banda 700 MHz ne è un chiaro esempio.

Per ciò che riguarda il coordinamento internazionale, il MiSE ha sottoscritto gli accordi con la Spagna, i paesi dell’area tirrenica (Francia, Monaco e Città del Vaticano), Svizzera, Austria, i paesi dell’area adriatica (Slovenia, Croazia, Albania, Montenegro) e Grecia – questi ultimi un unico accordo multilaterale – e Malta nel 2017, come peraltro previsto dalla Decisione europea. Alla negoziazione di tali accordi ha attivamente partecipato l’AGCOM, al fine di garantire che il contenuto degli stessi fosse coerente con i requisiti del processo di pianificazione.

L’Autorità per le Comunicazioni ha quindi approvato (Delibera n. 39/19/CONS) il piano di assegnazione delle frequenze, che contiene l’indicazione delle frequenze utilizzabili in ciascuna Area Tecnica per le emittenti nazionali e quelle locali. Sono state pianificate 12 reti nazionali con capacità di trasporto di 37 Mbit/s ciascuna e copertura non inferiore al 90%, configurate come segue:

  • 1 rete di tipo 3-SFN decomponibile per macroaree (per la Concessionaria di servizio pubblico)
  • 3 reti di tipo 1-SFN
  • 5 reti di tipo 2-SFN
  • 2 reti di tipo 3-SFN
  • 1 rete k-SFN ibrida VHF/UHF (con uso di frequenze VHF solo ove necessario).

Per rete k-SFN, con k che assume generalmente valori di 1, 2 o 3, si intende una rete che copre l’intero territorio nazionale utilizzando k frequenze in tecnica Single Frequency Network (SFN), ciascuna di esse usata in una differente macroarea. SFN significa che i trasmettitori operanti sulla stessa frequenza e che coprono un’area molto estesa (anche l’intero territorio nazionale nel caso di reti 1-SFN) devono essere opportunamente sincronizzati per garantire una copertura e una qualità di ricezione ottimale. Questo implica che la pianificazione e la progettazione di una rete SFN risulti più complessa e onerosa rispetto alle reti MFN (Multiple Frequency Network), tipica della televisione analogica e che prevede trasmettitori indipendenti utilizzanti una frequenza in aree più ristrette. Rispetto a quest’ultima, l’SFN (il cui uso è possibile solo con la tecnica digitale) consente però un uso più efficiente delle risorse frequenziali e una migliore qualità di ricezione, visto che una singola antenna può ricevere segnali da più trasmettitori e sommarli incrementando la potenza di ricezione e il rapporto segnale-rumore. Dal punto di vista della qualità di copertura, non ci sono differenze tra reti 1-SFN, 2-SFN o 3-SFN, visto che si tratta comunque di pianificare l’uso di una stessa frequenza su grandi aree. L’Italia è stata tra i primi paesi a livello mondiale a utilizzare a pianificazione k-SFN, essendo stata utilizzata nel 2008 er il primo switch-off e consentendo di massimizzare le risorse allora messe a disposizione per il digitale terrestre.

Ciascuna delle reti pianificate in DVB-T2 avrà una capacità trasmissiva di 37 Mbit/s e potrà trasportare all’incirca lo stesso numero di programmi di due reti DVB-T. Per ciò che riguarda le reti nazionali, considerato che attualmente ne sono pianificate 20 in DVB-T e che il numero di canali a disposizione è pari a 14, il numero di reti e la capacità trasmissiva della pianificazione postrefarming risulterà addirittura esuberante, nel caso di utilizzo della codifica HEVC, rispetto alle necessità minime di conversione per l’emittenza nazionale. Infatti, la legge di stabilità prevede che le risorse per le reti nazionali eccedenti il fattore minimo di conversione vengano assegnate attraverso una procedura competitiva di natura onerosa, come si vedrà più avanti.

Nella successiva parte di questo articolo entreremo in dettaglio sul Piano di Assegnazione delle Frequenze (PNAF) dell’AGCOM per le reti nazionali e locali.

  1. Nell’area tecnica della Lombardia, grazie a specifiche situazione orografiche e all’accordo con la Svizzera, sono 15 le frequenze a disposizione dell’Italia

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