Il dottor Annthok Mabiis ha annullato tutte, o quasi, le memorie connesse della galassia per mezzo del Grande Ictus Mnemonico. “Per salvare uomini e umanidi dalla noia totale, dalla Sindrome della Noia Assoluta”, perché le memorie connesse fanno conoscere, fin dalla nascita, la vita futura di ciascuno, in ogni particolare. La Memory Squad 11, protagonista di questa serie, con la base di copertura su un ricostruito antico bus rosso a due piani, è incaricata di rintracciare le pochissime memorie connesse che riescono ancora a funzionare. Non è ancora chiaro se poi devono distruggerle o, al contrario, utilizzarle per ricostruire tutte quelle che sono state annientate, se devono cioè completare il lavoro del dottor Mabiis o, al contrario, riportare la galassia a “come era prima”.
Undici. E undici. Alle cinque della sera. Nello stadio dominante. Restaurato. Gli altri della galassia sincronizzati. Milioni di stadi all’unisono. Tutti seduti. Come una volta. Tutti insieme. Altri miliardi a casa con il come-fossi-lì. L’erba. Pronta ad azzollarsi. Coi tacchetti. Volanti. Volenti. Violenti. Gli spalti originari. Tirati a lucido. I colori ansiosi di tramonto. Gli odori sgargianti di sudori. I suoni pazienti di riverberi. Nell’antica apertura trufola il vento.
Il bus rosso quietava. Niente caccia alle memorie connesse. Giorno di riposo per gli agenti della Memory Squad 11. Giorno di tifo. “Mi domando come facessero a andare in campo in carne ed ossa…” visionava Stefano Magli, l’agente di Memoria Antica della squadra.
“Con gli scontri paurosi del calcio moderno allora si sarebbero ammazzati tutti…” vibrava la comandante Khaspros. “C’erano quattro controllori… ho letto… tiravano fuori dei cartellini colorati… una cosa ridicola… e quelli si fermavano… altrimenti sarebbe stato un pugilato… e poi erano lentissimi…” componeva Magli.
“Penso che mi sarei annoiata a morte!” lapidava la comandate.
Il boato moltiplicava. Il rettangolo di gioco fischiava. L’agone prorompeva. Le tifoserie componevano la tattica. Modulo di gioco. Traettorie. Scontri. Li guidavano. Un telecomando. Collettivo. Dal loro pensiero. Ai loro piedi. I ventidue roboplayer saettavano. Dribblavano. Schemavano. Fintavano. Assistavano. Insaccavano. Deliravano. Acceleravano. Le memorie interne pompavano. Stoppavano. Barrieravano. Cucchiaiavano. Il prato frusciava. Simulavano. Sbirciavano. Fuorigiocavano. Rigoravano. Accosciavano. Sombreravano. Dopo il rosso il viola. Disperavano. Il tramonto s’imponeva. Traghettavano. Pressavano. Aleggiavano. Tramortivano. Sottigliavano. Giocavano.
Come nei secoli scorsi. Conservati nei cassetti. Ogni quattro anni. Le bandiere rammendate. Planate. Fruscianti. Ridenti. Come paure perdenti.
Cappelli beffardi. Come pensieri bastardi.
Gote dipinte. Come malinconie stinte.
Striscioni srotolati. Come desideri accumulati.
Urla arrembanti. Come affetti segreganti.
Grida dolenti. Come legami cocenti.
Sospiri rammaricanti. Come esistenze brulicanti.
Rabbie roboanti. Come umori farneticanti.
Gioie. Prorompenti.
La scritta titolava lo stadio. La luce dell’immensa insegna carpiva le nuvole basse. Tranquille di pioggia. Silenziose di attenzione. Tuonavano le curve.
“Tu sai il perché? Come nasce?…” urlava nel rombo dello stadio.
“Non conosco fino in fondo la storia di questo nome… tutti sanno che l’Europa non c’entra nulla, anche perché non esiste più… il nome è strano davvero… una sigla senza significato e una moneta scomparsa…” sbraitava di ritorno.
“Già, non ci avevo pensato…” Sillabava: “Uefa Euro…”
(127 – continua la serie. Episodio “chiuso”)
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