Scade a maggio la “call for participation” per una “grande coalizione” per lo sviluppo del lavoro digitale lanciata dal commissario UE Neelie Kroes. L’evoluzione dell’economia europea dipende fortemente dalla capacità di sviluppare servizi e prodotti ad alta intensità di conoscenza, e gli studi della Commissione UE ci dicono che da qui al 2015 l’Europa rischia di avere una carenza di ben 900 mila professionalità nel campo ICT.
La destrutturazione nell’organizzazione dei profili professionali e delle qualifiche in questo settore può essere un fattore negativo rilevante.
Ancora di più questo è vero per un Paese come l’Italia, che secondo l’Innovation Scoreboard 2013 rimane nel gruppo di retroguardia degli “innovatori moderati” anche se con discreti miglioramenti rispetto all’anno precedente, e che tra i vari indicatori che la collocano al di sotto della media UE 27 vede proprio la percentuale di occupati in lavori ad alta intensità di conoscenza. Inoltre, secondo il Digital Agenda Scoreboard il 34% dei lavoratori italiani reputa inadeguate le proprie competenze ICT rispetto a quanto può essere richiesto dal mercato del lavoro (la media UE è del 20%).
Ma l’arretratezza italiana è anche nel trattamento dei nuovi lavori, che hanno caratteristiche del tutto diverse, sia nel rapporto con il datore di lavoro sia nella struttura stessa del lavoro. Qui continua a prevalere una cultura organizzativa sostanzialmente “fordista”, aggrappata al concetto del “posto di lavoro” e del “tempo di lavoro”, anche per chi deve lavorare per produrre risultati e non per gestire macchine, per chi, in altri termini (i “lavoratori della conoscenza”), non può essere misurato in funzione del tempo speso nel luogo di lavoro, mantenendo un sistema vecchio che ostacola lo sviluppo del nostro Paese.
Un sistema che deve essere scardinato al più presto, anche introducendo elementi contagiosi e virali di cambiamento.
Un elemento di questo tipo è il telelavoro, concepito non come modalità di lavoro eccezionale e casalingo per lavoratori con problemi di salute o di famiglia (così come è adesso concepito nella normativa e nella cultura organizzativa pubblica e privata), ma come una modalità di lavoro sempre attuabile da tutti i lavoratori e assoggettata soltanto alla specifica organizzazione dell’attività in cui è coinvolto il lavoratore. Per questa ragione è da seguire con attenzione quanto prevede la legge ex-Digitalia (n.221 del 17 dicembre 2012): le amministrazioni pubbliche sono tenute a realizzare un piano per la realizzazione del telelavoro in cui devono specificare “le modalità di realizzazione e le eventuali attività per cui non è possibile l’utilizzo del telelavoro”. Si assume, pertanto, che tutte le attività possano essere svolte in modalità di telelavoro a meno di giustificate ragioni di “impossibilità”. Una piccola rivoluzione che può condurre a cambiamenti profondi dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni.
L’affermazione del “telelavoro by default” è in effetti il riconoscimento di un nuovo modello di lavoro, in mobilità, da casa, in luoghi pubblici “connessi”, oltre che nel luogo istituzionale della propria organizzazione, per un lavoratore che è misurato sulle proprie capacità di conseguire i risultati richiesti.
Cosa cambia con i nuovi lavori
Come risultava dal Report 2012 dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, lo sviluppo e la diffusione di tecnologie ICT, e di device mobili “intelligenti” e di facile utilizzo, possono agevolare e supportare le organizzazioni verso modelli di lavoro orientati al cosiddetto “smart working”, tipico dei lavoratori della conoscenza. I benefici per le organizzazioni possono essere quantificati in un aumento medio di produttività del 25%, (con punte del 50%) e una riduzione del costo del lavoro che per l’Italia può essere quantificato in circa 1,7 miliardi di euro.
La situazione italiana è però di significativa arretratezza. Nonostante le tecnologie digitali siano sempre più diffuse e consentano di poter svolgere le attività a distanza, attualmente soltanto il 5% dei lavoratori italiani ha uno stile di lavoro da “smart worker”, caratterizzato da maggiore flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi di lavoro, degli orari di lavoro e degli strumenti da utilizzare.
Come superare questo divario dagli effetti sempre più rilevanti? Come invertire la tendenza che nel nostro Paese spinge sempre di più alla precarizzazione dei lavoratori della conoscenza mentre in altri Paesi europei, come nei Paesi Bassi, si definiscono e realizzano programmi di attrazione dei knowledge worker? Il tema chiave non è soltanto come sviluppare nelle organizzazioni pubbliche e nelle imprese l’esigenza di lavori ad alta intensità di conoscenza, ma anche di favorire lo sviluppo di questi lavori, rimuovendo gli ostacoli oggi presenti sul fronte organizzativo, culturale, normativo.
Il nuovo paradigma organizzativo si sviluppa come effetto combinato di alcuni fattori:
a) un più alto grado di libertà per agire più di quanto offerto dai ruoli tradizionali, un alto grado di autonomia e una filosofia di empowerment;
b) gestione di interventi che si focalizzano su indicatori basati sui risultati;
c) flessibilità del luogo e dell’orario di lavoro;
d) condizioni dell’ambiente fisico di lavoro, per esempio lavoro da casa, tecnologia di comunicazione mobile;
e) condizioni culturali, per esempio modalità di lavoro, processi organizzativi e stili di management che guidano una relazione di lavoro basata sulla fiducia e perciò in grado di abilitare lo sviluppo dello smart working.
Ma accanto a questi è necessario rivedere profondamente la legislazione sui nuovi lavori.
Un nuovo modello di lavoro, un nuovo welfare
Lavori ad alta intensità di conoscenza, lavori in cui sono sempre più richieste competenze digitali di base e avanzate, lavori in cui la componente di creatività e di autonomia è sempre più importante e preponderante. La centralità della creatività e dell’autonomia è sempre più evidente e palese.
Prendere atto di questa trasformazione significa pensare ad un cambiamento profondo della regolamentazione del lavoro per questo nuovo lavoratore, sostanzialmente nomade nelle modalità, nei luoghi e nei tempi, e portato alla migrazione tra forme diverse di occupazione (subordinata, indipendente/free lance, imprenditoriale) senza privilegiarne nessuna in modo pregiudiziale se non sulla base della condizione del momento.
Una regolamentazione organica per tutte queste forme di lavoro in cui si supera la precarizzazione del lavoro della conoscenza e in cui si prevedono modalità di assistenza e garanzia di reddito nei passaggi tra lavoro subordinato e indipendente, con forme di assistenza universale che superino la dicotomia subordinato-indipendente.
Soprattutto per alcuni tratti caratteristici, più ancora di altre tipologie di lavoro, questa ha bisogno di un costante aggiornamento e di periodi di “ozio creativo”, di momenti di riflessione, di studio e di autoformazione che consentano quei cambiamenti di prospettiva e di definizione della propria offerta di competenza che sono fondamentali per il mantenimento di un potenziale competitivo da offrire alle organizzazioni e al mercato.
Dobbiamo pertanto pensare ad un modello del lavoro in cui al centro è il lavoratore e non il posto di lavoro. Ciò significa che gli interventi di sostegno sociale dovrebbero essere concentrati sui singoli lavoratori spostando i fondi dalle destinazioni attuali, in gran parte (la cassa integrazione) funzionali a garantire uno stato di “parcheggio” nei dintorni delle organizzazioni in crisi per un periodo più o meno lungo. Un parcheggio che riduce il valore dei lavoratori.
In questo senso potrebbe essere efficace l’introduzione di una forma di “reddito minimo di cittadinanza”, tale da garantire comunque la possibilità di un reddito superiore alla soglia di povertà anche per chi vuole inserirsi nel mondo del lavoro, forse più di una forma di “flexsecurity” (che guarda più alle dinamiche dei lavoratori dipendenti e di chi già è inserito). Questo permetterebbe a molti giovani di sottrarsi al ricatto del lavoro malpagato, talvolta irregolare, e non sempre di qualità e contenuto adeguato. E permetterebbe a molti “lavoratori della conoscenza” di scegliere la forma di lavoro (dipendente o indipendente) soltanto in funzione delle aspettative contingenti di lavoro e di sviluppo. Lo sviluppo del lavoro ad alta intensità di conoscenza comporta, necessariamente, infatti, l’abbandono della logica del “posto di lavoro” e la sperimentazione di nuove attività e responsabilità secondo un rapporto di lavoro più orientato ai risultati e meno irrigidito dalle esigenze del controllo del tempo di lavoro.
Cambiare il modello del lavoro, cambiare il modello delle tutele ai lavoratori: anche questi sono importanti tasselli delle politiche dell’innovazione.
Di qui passa il cambiamento profondo di cui ha bisogno l’Italia.
Pensare che siano interventi di bassa priorità di cui possiamo oggi fare a meno e non da porre nel breve elenco delle misure urgenti per lo sviluppo socio-economico è un grave errore di prospettiva.
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