Nuovo governo

Una politica industriale per l’Agenda

Non hanno voluto un vice premier con delega forte ed evidente per questi temi. E adesso anche l’Agenzia è bloccata. Ma serve almeno un piano che modernizzi la PA, a 360 gradi, con risorse adeguate. E solo la politica lo può dare. Con una commissione ad hoc o tramite la nascitura Convenzione per le Riforme. Un esempio: la Giustizia

Pubblicato il 09 Mag 2013

Paolo Colli Franzone

presidente, Osservatorio Netics

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E, finalmente, abbiamo un Governo nella sua piena operatività. Si comincia a lavorare sul serio, ed era anche ora. Mi ero iscritto al partito di quelli che volevano un Vice Premier con delega “forte ed evidente” sull’Agenda Digitale: non è andata così, e me ne dispiace.

Non tanto per quanto riguarda l’esecuzione del (tanto, tantissimo) lavoro da fare per dare sostanza ai provvedimenti generosamente e abbondantemente emanati dal governo precedente. Per fare ciò, abbiamo l’Agenzia, anche se verrebbe voglia di dire “avremmo”, considerando l’ennesimo stop dato da Palazzo Chigi e da Corte dei Conti.

Le cose da fare sono tante, e sono già state abbondantemente enumerate, descritte e “classificate” in termini di criticità collegate e/o eventuali “trappole nascoste”.

Quello che non c’è, e di cui si sente fortemente il bisogno, è un “vero” piano industriale per l’Agenda Digitale. Piano che, sia ben chiaro, può agevolmente essere scritto dall’Agenzia nelle sue parti “operative”. Ma che non può essere scritto in assenza di un fortissimo commitment politico.

Agostino Ragosa è il nostro “Digital Champion”, ma anche un campionissimo ha bisogno di un’indicazione politica. Soprattutto quando si dovrà (e lo si dovrà fare, inevitabilmente) parlare di soldi.

Peraltro, un piano industriale potrebbe anche aiutarci a rispondere alla domanda che pare abbia tanto turbato la Corte dei Conti: “di quanti dipendenti ha bisogno, l’Agenzia?”. Anche perché, ragionare di pianta organica dell’AGID prescindendo dall’elenco delle cose che essa dovrà fare risulta un esercizio puramente filosofico-giuridico disgiunto dalla realtà.

Quello che non c’è, e di cui si sente fortemente il bisogno, è un “vero” piano industriale per l’Agenda Digitale. Piano che, sia ben chiaro, può agevolmente essere scritto dall’Agenzia nelle sue parti “operative”. Ma che non può essere scritto in assenza di un fortissimo commitment politico.

Ragosa è il nostro “Digital Champion”, ma anche un campionissimo ha bisogno di un’indicazione politica. Soprattutto quando si dovrà (e lo si dovrà fare, inevitabilmente) parlare di soldi.

Peraltro, un piano industriale potrebbe anche aiutarci a rispondere alla domanda che pare abbia tanto turbato la Corte dei Conti: “di quanti dipendenti ha bisogno, l’Agenzia?”. Anche perché, ragionare di pianta organica dell’AGID prescindendo dall’elenco delle cose che essa dovrà fare risulta un esercizio puramente filosofico-giuridico disgiunto dalla realtà.

Salvo riesumare l’infelice (e profondamente sbagliato) paradigma della sciagurata “innovazione a costo zero”, fare l’Italia Digitale significa mettere sul piatto qualche miliardo di Euro. Tutti pubblici, tutti privati, misto pubblico-privato, ma la sostanza non cambia: ci vogliono i soldi.

Ci vuole una politica capace di comprendere “nei fatti” (non soltanto negli slogan di campagna elettorale) la necessità di modernizzazione della PA attraverso una formidabile azione di reingegnerizzazione e successiva digitalizzazione dei processi. Di “tutti”, i processi produttivi della PA e della Sanità.

Che la si voglia chiamare “politica industriale” o “strategia di modernizzazione”, poco importa. Chiamiamola anche “Giuseppe”, ma facciamola.

Soprattutto, facciamola partendo non già da una “wish list” più o meno intelligentemente assemblata partendo dalle “cose che ci vengono in mente”.

Un piano industriale si fa prendendo in esame tutti i “reparti” della PA e della Sanità, andando a individuare perché, come e quando (e con quali risorse) rivederne i processi di produzione/erogazione dei servizi in chiave di efficientamento, semplificazione, economia di gestione, velocità di attuazione, tempi di ritorno dell’investimento. Affrontando, una volta per sempre, il tema famigerato della copertura finanziaria, magari spiegando al MEF che le ICT non sono “beni e servizi voluttuari” o “giocattoli per tecnologi annoiati”.

Tutto ciò premesso, la palla adesso deve passare alla politica. A livello di governo, con una delega precisa e “benedetta” dal Presidente del Consiglio; ma, anche, a livello parlamentare, trovando finalmente il coraggio di istituire (qui sì, a “costo zero”!) una commissione ad-hoc. Oppure, assegnando alla nascitura “Convenzione per le Riforme” un obiettivo specifico in questa direzione.

Superando, se possibile, la fase pionieristica delle cabine di regia più o meno estemporanee e più o meno “prese sul serio” dalla politica e aprendo le porte a un sano e trasparente confronto con l’industria ICT.

Un piano che, per definizione, deve nascere come un vero e proprio piano di modernizzazione del Sistema Paese, comprendendo quindi gli aspetti di digitalizzazione “interna” di PA e Sanità ma anche (per non dire “soprattutto”) gli obiettivi strategici di digitalizzazione del sistema produttivo e dei cittadini.

Sarebbe interessante, una volta tanto, provare a concepire questo piano partendo dalla domanda, dai bisogni reali di individui (non uso, volutamente, il termine “cittadini” per non generare equivoci limitando il perimetro di intervento) e di “organizzazioni” (l’insieme di aziende, enti, associazioni).

Partendo, ad esempio, da una visione complessiva di “Italia Digitale” costruita in termini di scenari possibili di “vita quotidiana” di un individuo e/o di un’organizzazione e associando a ciascuno degli scenari prodotti una valutazione quanto più precisa possibile dell’impatto in termini organizzativi ed economici. A quel punto, diventa semplice stabilire un ordine di priorità (dove si interviene prima, dove dopo) ma anche capire le possibili fonti di finanziamento.

Proviamo con un esempio, costruito con numeri di assoluta fantasia giusto per validare il modello. La Giustizia.

Assumiamo che la completa digitalizzazione del sistema giudiziario italiano comporti un investimento di 5 miliardi di euro in tre anni. Dallo scenario sviluppato, supponiamo che si giunga a dimostrare che ciascun avvocato italiano (sono 250 mila, gli avvocati in Italia) potrebbe, grazie al fatto che tutte le pratiche e gli adempimenti sarebbero “lavorabili da studio”, “fare a meno” di “quel tal collaboratore che tutti i giorni, inevitabilmente, fa il giro delle cancellerie”. A quel punto, si rendono disponibili tutti i servizi on-line in ambito giustizia, dietro corresponsione di un canone annuale leggermente inferiore al costo annuale di un collaboratore. I ricavi da canoni vanno a remunerare l’investitore che ha (inevitabilmente) “prestato” i 5 miliardi necessari per l’investimento iniziale. Se “i conti tornano”, si fa. Ma lo “si fa coraggiosamente”, con uno switch-off irrevocabile: “da domani, le cancellerie non sono più aperte al pubblico”.

Vuoi fare l’avvocato? Perfetto, paghi il canone per i servizi on-line. In alternativa, la coltivazione di carciofi o di mais. Idem per ingegneri e geometri, e così via. Questo modello, peraltro, non riguarda soltanto il mondo delle professioni. Se ci si pensa bene, il costo di un tablet è decisamente inferiore al costo annuale di una dotazione completa di libri scolastici. Il discorso “chi paga i tablet per gli studenti” è un’idiozia: lo pagano i genitori, che risparmiano un botto di soldi tutti gli anni. La carta usata per i libri di testo diventa carta igienica, e così con un unico piccione abbiamo preso due fave.

Morale della favola, con tanto di prece diretta al Presidente Letta: partiamo dagli auspici digitali, prima ancora che dall’agenda. Partiamo dall’esplicitazione di un principio davvero dirompente: l’analogico e il cartaceo sono un lusso, in una società digitale. E il lusso, si paga. Stampanti e fotocopiatrici come SUV, risme A4 come caviale.

Utopia? Hanno risposto così anche al tizio che per la prima volta provò a immaginare la ruota. Caro Presidente Letta, il suo think-tank si chiama “Vedrò”. Ecco, appunto. Vedremo.

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