La recente approvazione del Disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza, che ha recepito la proposta di modifica dell’art. 9 della legge 192/1998, promossa dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha suscitato e comunque alimentato il dibattito circa uno degli aspetti più controversi in materia, ovvero l’esigenza di individuare nuovi rimedi al fine di contrastare gli abusi di potere nei mercati digitali.
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L’istituto della dipendenza economica nel panorama italiano
Occorre dapprima un breve passo indietro.
Com’è noto, al pari degli altri paesi europei, alla fine degli anni Novanta, l’Italia si è dotata di un divieto legislativo di abuso di dipendenza economica, modellato sul divieto antitrust di abuso di posizione dominante.
Le disposizioni che vietano l’abuso di dipendenza economica miravano (e mirano) a proteggere il contraente debole nei confronti del partner commerciale che potrebbe sfruttare a proprio vantaggio la posizione di potere contrattuale.
L’istituto riguarda, infatti, i rapporti verticali tra imprese, nei quali rientrano, tra gli altri, il franchising, la subfornitura industriale, i rapporti tra la grande distribuzione organizzata e i fornitori.
Per tali ragioni, differentemente dalla posizione dominante, la posizione di dipendenza economica viene definita quale potere di mercato relativo, in contrapposizione alla posizione di potere di mercato assoluto che caratterizza la prima ipotesi.
L’uso del potere economico nelle relazioni contrattuali
In altri termini, l’indagine mira a valutare l’uso del potere economico nell’ambito di una specifica relazione contrattuale anziché sull’intero mercato.
Si intende, dunque, per dipendenza economica una situazione in cui una impresa sia in grado di determinare nei rapporti commerciali con un’altra impresa un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. Essa è valutata tenendo conto anche delle reali possibilità per la parte che ha subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.[1]
Con riferimento agli elementi caratterizzanti la fattispecie e, in particolare, allo status di dipendenza economica, esso sussiste qualora la parte debole sia soggetta a significative barriere che le impediscono l’exit dal rapporto commerciale in corso, da un lato, per la mancanza di alternative soddisfacenti sul mercato, dall’altro, per gli ingenti switching costs che il piccolo contraente si trova costretto ad affrontare per l’approdo ad un nuovo partner.
In quest’ottica, le relazioni contrattuali sono fortemente influenzate dall’eventuale presenza dei cosiddetti specific-relation investments, che una parte può essere chiamata a sostenere in ragione della natura del contratto e/o delle condizioni pattuite.
L’entità degli investimenti
È l’entità degli investimenti specifici a determinare la condizione di dipendenza economica e la c.d. lock-in del contraente debole.
Tali investimenti rivestono un ruolo decisivo sugli equilibri del contratto rappresentando per il contraente debole una barriera per l’uscita dal contratto.
Essi, invero, non essendo suscettibili di riconversione, diventano devi veri e propri sunk costs, i quali andrebbero perduti qualora la relazione contrattuale in corso dovesse interrompersi ad nutum, non potendo essere utilizzati per finalità diverse rispetto a quelle per i quali sono stati affrontati ovvero in modo meno profittevole.
Di conseguenza, maggiori saranno gli investimenti specifici sostenuti da una parte, maggiore sarà il potere contrattuale della controparte e il rischio di estorsione, con la possibilità per quest’ultima di imporre condizioni contrattuali squilibrate ed inique, c.d. hold up, venendo a configurare una situazione simile a quella del monopolio.
Dal suo canto, a livello giurisprudenziale la Corte di legittimità[2] assume come l’abuso di dipendenza economica (di cui all’art. 9 della l. n. 192 del 1998), costituisca nozione indeterminata il cui accertamento postula l’enucleazione della causa concreta della singola operazione che il complessivo regolamento negoziale realizza, secondo un criterio teleologico di valutazione, in via di fatto, della liceità dell’interesse in vista del quale il comportamento è stato tenuto.
Per la Corte nell’applicazione della norma è pertanto necessario: 1) quanto alla sussistenza della situazione di “dipendenza economica”, indagare se lo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti sia “eccessivo”, essendo il contraente che lo subisce privo di reali alternative economiche sul mercato (p. es., perché impossibilitato a differenziare agevolmente la propria attività o per avere adeguato l’organizzazione e gli investimenti in vista di quel rapporto); 2) quanto all'”abuso”, indagare la condotta arbitraria contraria a buona fede, ovvero l’intenzionalità di una vessazione perpetrata sull’altra impresa, in vista di fini esulanti dalla lecita iniziativa commerciale retta da un apprezzabile interesse dell’impresa dominante (quale, p. es., modificare le proprie strategie di espansione, adattare il tipo o la quantità di prodotto, o anche spuntare migliori condizioni), mirando la condotta soltanto ad appropriarsi del margine di profitto altrui.
Ciò posto, a fronte dell’evidenza generale di possibili relazioni contrattuali sbilanciate, la vicenda della risposta italiana a tale fenomeno si presenta fortemente emblematica, in quanto, sebbene originariamente i disegni di legge presentati nel corso della XII e XIII legislatura proponessero di inserire l’istituto dell’abuso della dipendenza economica nell’ambito della normativa a tutela della concorrenza, l’approdo civilistico solo temporaneo si deve alla reazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale ha inquadrato la tematica nell’ambito della netta contrapposizione “teleologica” fra norme a tutela del processo concorrenziale e norme inerenti alla disciplina dei rapporti contrattuali.
Il risultato del dibattito è stato tuttavia di relegare l’istituto in un articolo della legge sulla subfornitura (articolo 9 della legge 192/98), oggetto peraltro di interpretazioni ancor più restrittive.[3] [4]
Se dapprima applicabile soltanto in giudizi civili tra parti private , la norma è finalmente rientrata nella competenza dell’Autorità, i cui interventi sanzionatori in sede amministrativa hanno visto un forte incremento.[5] [6]
La rinascita dell’istituto nell’era dei digital markets
Negli ultimi anni, si è assistito di un rinnovato interesse verso l’istituto, dovuto ad una più attenta analisi dei rischi derivanti dall’eccessiva concentrazione di potere di mercato nelle mani di pochi gatekeepers digitali, accedendo una forte concorrenza regolamentare a livello internazionale, configurando un quadro per lo più frammentato con discipline autonome non riconducibili ad un unico paradigma.
Tuttavia, sebbene non armonizzato a livello europeo, il diritto della concorrenza, articolato nei diversi modelli adottati dalle rispettive normative nazionali, persegue la medesima finalità e condivide l’esigenza di una rigorosa disciplina dell’abuso di dipendenza economica, fattore prezioso per garantire una più rapida e solida ripresa, nella consapevolezza delle difficoltà cui sono state sottoposte le imprese durante la crisi pandemica e che rischiano di prolungarsi alla luce degli eventi bellici in corso e delle misure sanzionatorie adottate dalla UE nei confronti della Russia ( con effetti in ordine all’approvvigionamento di risorse strategiche per le attività d’impresa ed al costo da sostenere al riguardo).
In tale panorama giocano un ruolo fondamentale le piattaforme digitali che fungono da intermediari tra due o più gruppi di agenti economici, facilitandone le interazioni e scambi commerciali.
Il loro modello di business si basa sulle esternalità, note anche come effetti di rete che, attraverso la piattaforma, si generano tra i diversi gruppi di utenti di cui si agevola il contatto; esse abbinano distinti gruppi di utenti, su ciascun lato della piattaforma, i quali non hanno rapporti tra di loro, ma ognuno è influenzato dalla presenza dell’altro.
Per meglio comprendere la dinamica, un esempio tipico è quello del consumatore che accede ad un motore per effettuare una ricerca.
In tale contesto egli pagherà al proprio internet services provider una “tariffa” mensile per la connettività, ma non la piattaforma per effettuare la ricerca.
Diversamente, la piattaforma raccoglierà informazioni sul comportamento dei consumatori durante la ricerca, vendendo i relativi dati agli inserzionisti interessati.
In tal modo, ottenute le informazioni (presumibilmente in forma anonima, ma sul tema si aprirebbe un ulteriore mare magnum) gli inserzionisti si rivolgono ai consumatori in modo più efficiente ogni volta che sono online ed effettuano una ricerca in rete.
Tali modelli di business hanno determinato un impatto significativo in tema di concorrenza, specialmente nei settori in cui gli effetti di rete sono maggiormente forti, inducendo i legislatori dei vari Stati Membri ad introdurre modifiche alle legislazioni antitrust nazionali, al fine di adeguarle (o a rincorrere) alle sfide poste dagli ecosistemi digitali.
L’esempio del modello tedesco
In questo panorama, di particolare spicco è il modello tedesco – cui l’Autorità italiana si è ispirata nella sua segnalazione inviata al Governo – che ha esteso agli intermediari digitali le norme sull’abuso di dipendenza economica.
Invero, al fine di contrastare più efficacemente le distorsioni concorrenziali nei mercati in cui sono presenti le piattaforme digitali, ovvero dove operano imprese che usufruiscono delle piattaforme per raggiungere gli utenti finali, il legislatore tedesco ha introdotto prescrizioni finalizzate a considerare presuntivamente anti-competitive determinate condotte, qualora poste in essere da imprese che ricoprono un particolare ruolo per la concorrenza su più mercati.
L’esecutivo italiano, tuttavia, sebbene abbia introdotto specifiche disposizioni finalizzate al rafforzamento del contrasto all’abuso di dipendenza economica, accogliendo in parte le proposte dell’AGCM, per altro verso si è discostato dal suddetto modello tedesco.
L’Articolo 29 e lo scenario italiano alla luce del Ddl concorrenza
Il Ddl approvato dal Consiglio dei ministri nell’adunanza del 4 novembre 2021, riprendendo i rilievi espressi dall’AGCM, ha appunto dedicato l’articolo 29, intitolato “Rafforzamento del contrasto all’abuso di dipendenza economica”, alle grandi piattaforme digitali, con il precipuo scopo di rendere la normativa maggiormente appropriata ed efficace, rispetto alle caratteristiche e al potere di intermediazione di cui godono queste ultime.
La norma testualmente recita:
“1. All’articolo 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo il comma 1 è inserito il seguente:
«1-bis. Salvo prova contraria, si presume la dipendenza economica nel caso in cui un’impresa utilizzi i servizi di intermediazione forniti da una piattaforma digitale che ha un ruolo determinante per raggiungere utenti finali o fornitori, anche in termini di effetti di rete o di disponibilità dei dati»;
b) il comma 2 è sostituito dal seguente:
«2. L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, anche retroattive, nell’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto, nell’applicazione di condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, nel fornire informazioni o dati insufficienti in merito all’ambito o alla qualità del servizio fornito, nella richiesta di indebite prestazioni unilaterali, non giustificate dalla natura o dal contenuto dell’attività svolta».
La modifica proposta rileva soprattutto quanto all’introduzione di una presunzione iuris tantum di dipendenza economica nelle relazioni commerciali con un’impresa che offre i servizi di intermediazione di una piattaforma digitale, allorché quest’ultima abbia un ruolo determinante per raggiungere utenti finali e/o fornitori, anche in termini di effetti di rete e/o di disponibilità dei dati.
Ed è appunto la presunzione relativa che ha suscitato maggiore dibattito sull’attuale formulazione, collocando l’Italia in una posizione di unicum quantomeno nel contesto normativo europeo, sostituendo all’attuale accertamento “caso per caso”.
La presunzione trarrebbe origine dall’assunto per cui ogni piattaforma digitale, per definizione e indipendentemente dal diverso modello di business, rappresenti un soggetto forte rispetto ai propri partner commerciali.
In questo modo, si porrebbero sullo stesso piano le piattaforme che forniscono un app store con quelle che forniscono motori di ricerca o social network, nonostante letteratura economica che sostiene differenze fondate su diversi modelli di business.
Di certo la norma propone un’inversione dell’onere probatorio a carico del gestore della piattaforma.
Coloro che l’avversano ritengono di difficile superamento tale presunzione, affermando viceversa la facilità per il soggetto debole di provare l’ammontare degli investimenti specifici e l’assenza di alternativa.
Tuttavia, non può non considerarsi come tali gestori conoscano il proprio business (n.d.r. e il mercato di riferimento) meglio di chiunque altro[7], disponendo di strumenti, dati e informazioni, di ben altro respiro.
Ad alimentare questi ultimi dubbi, secondo alcuni la definizione di “piattaforma digitale” fornita dall’articolo 29 e dalla non semplice lettura di quel “ruolo determinante per raggiungere utenti finali o fornitori”, che presenta una novità sia rispetto al panorama europeo che alla norma nazionale oggetto di osservazione.
Attraverso una lettura di respiro europeo, il Ddl sembrerebbe far riferimento alla situazione in cui versano quei fornitori di servizi di piattaforme di base che, pur non essendo gatekeepers, siano in grado di determinare nei loro confronti un significativo grado di dipendenza sia degli utenti commerciali che degli utenti finali e che siano altresì in grado di provocare una sorta di lock-in.[8]
In tal senso, anche le digitali “deboli” (non controllori, ma tali da incidere sulla sfera economica del partner commerciale), verrebbero incluse in tale definizione, ma, non godendo della medesima “influenza” dei gatekeepers verrebbero a trovarsi in una condizione in cui la prova che la controparte disponga di alternative di mercato soddisfacenti, diventerebbe non semplice da fornire, con una forte discriminazione per queste ultime.
Analoghi dubbi sono stati sollevati circa l’opportunità di un trattamento differenziato tra operatori digitali e tradizionali, il cui precipitato, da non ignorare, è rappresentato dall’impatto socioeconomico che lo stesso avrebbe sull’innovazione e il più generale benessere dei consumatori, con il rischio che la disciplina finirebbe per tutelare soltanto alcuni players, anziché il mercato ed i consumatori.
In ultimo, la proposta si completa con l’indicazione esemplificativa di alcune pratiche che possono integrare un abuso di dipendenza economica da parte delle piattaforme, tra cui si segnala l’innovativa ipotesi di abuso consistente nel “fornire informazioni o dati insufficienti in merito all’ambito o alla qualità del servizio”.
L’intento appare in ogni caso quello di fornire una prima indicazione delle condotte vietate, cosicché, le piattaforme possano (meglio) orientare il proprio comportamento nelle relazioni commerciali con le imprese terze che utilizzatarie dei servizi di intermediazione.
Conclusioni
Il quadro così prospettato evidenzia alcune incertezze interpretative nell’attuale formulazione del testo, che fanno presumere conseguenti ricadute in termini giudiziari.
D’altro canto, va segnalato il rischio che porta con sé l’introduzione di normative (esperimenti) nazionali sempre più dettagliate e stringenti, soprattutto ove dirette a regolare un fenomeno che chiaramente trascende la dimensione nazionale.
Ciò, tuttavia, senza dimenticare la necessità che il diritto tenga conto della continua evoluzione delle relazioni contrattuali e delle modalità di relativa insaturazione, in funzione di un tentativo di riequilibrio delle posizioni che non si limiti ai rimedi di tipo civilistico.
Da tal punto di vista è sotto gli occhi di tutti la pervasività di diffusione delle piattaforme digitali in ogni settore della vita sociale ed economica e della relativa concreta e riscontrata attitudine a detenere informazioni su tendenze di mercato ed inclinazioni soggettive degli utenti.
Profilo che rende le medesime piattaforme soggetti tendenzialmente più forti anche nelle singole relazioni contrattuali ed evidente il rischio dell’abuso di tale posizione nei confronti del soggetto debole.
Ne deriva che, al di là dei rimedi di tipo civilistico, non possa che valutarsi favorevolmente l’attenzione posta sul tema degli abusi di dipendenza economica per studiare norme e metodi di efficace contrasto che vedano al centro poteri delle autorità che si occupano, istituzionalmente, di regolare il mercato.
Note
- Cfr. art. 9, comma 1, Legge 18 giugno 1998, n. 192 – Disciplina della subfornitura nelle attività produttive. ↑
- Cass. civ. Sez. I Sent., 21/01/2020, n. 1184 (rv. 656876-01) ↑
- G. COLANGELO, Piattaforme digitali e squilibrio di potere economico nel disegno di legge annuale sulla concorrenza: l’araba fenice della dipendenza economica, 14 dicembre 2021. ↑
- In dottrina, hanno trattato l’argomento: CATALANO, L’abuso di dipendenza economica, Jovene, 2009; Villella, Abuso di dipendenza economica ed obbligo a contrarre, E.S.I., 2008; FABBIO, L’abuso di dipendenza economica, Giuffrè, 2006; NATOLI, L’abuso di dipendenza economica: il contratto e il mercato, Jovene, 2004; COLANGELO, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti: un’analisi economica e comparata, Giappichelli, 2004; MAUGERI Abuso di dipendenza economica e autonomia privata, Giuffrè, 2003.CASO – PARDOLESI, La nuova disciplina delle contratto di subfornitura (industriale): scampolo di fine millennio o prodromo di tempi migliori?, in Riv. dir. priv., 1998, 712 ss.; Natoli, voce «Abuso di dipendenza economica», in Dig. IV ed., Disc. priv., sez. comm., Vol. agg. II, Utet, 2003, 1 ss.; Osti, L’abuso di dipendenza economica, in Mercato concorrenza regole, 1999, I, 9 ss.; Spolidoro, Riflessioni critiche sul rapporto fra abuso di posizione dominante e abuso dell’altrui dipendenza economica, in Riv. dir. ind., I, 1999, 191 ss.Più di recente, si v. LIBERTINI, La responsabilità per abuso di dipendenza economica: la fattispecie, in Contr. e impr., 2013, I, 1 ss.; PARDOLESI Nuovi abusi contrattuali: percorsi di una clausola generale, in Danno e resp., 2012, 1165 ss.; Baffi, La clausola contrattuale standard e la sua natura di bene pubblico (in senso economico), in Contratti, 2012, 1051 ss. ↑
- L’AGCM è titolare di un potere generale di intervento in materia di abuso di dipendenza economica in forza dell’art. 9, comma 3 bis, L. 18 giugno 1998, n. 192. In base al medesimo comma, l’AGCM è inoltre titolare di un potere specifico di intervento in materia di ritardi nei pagamenti commerciali(5), la cui disciplina è attualmente contenuta nella Dir. 2011/7/UE, che ha sostituito la Dir. 2000/35/CE. Il legislatore nazionale è invece intervenuto sul tema una prima volta per mezzo della citata L. 18 giugno 1998, n. 192, e poi con i D.L. 9 ottobre 2002, n. 231, e 9 novembre 2012, n. 192. In particolare, quest’ultimo atto legislativo ha operato una distinzione tra transazioni commerciali intervenute tra imprese e transazioni commerciali poste in essere tra amministrazioni pubbliche e imprese. Ai sensi del decreto, infatti, nelle transazioni tra imprese il termine legale per i pagamenti è fissato in 30 giorni e termini superiori a 60 giorni devono essere pattuiti espressamente e non risultare gravemente iniqui per una delle parti (art. 4, comma 3); nelle transazioni tra imprese e amministrazioni pubbliche, invece, le parti possono concordare un termine di pagamento superiore al termine di 30 giorni, purché in modo espresso, e fino a un massimo inderogabile di 60 giorni (art. 4, comma 4); il termine di 30 giorni è inoltre raddoppiato, divenendo automaticamente di 60 giorni senza necessità di pattuizione, per le imprese pubbliche tenute al rispetto degli obblighi di trasparenza per effetto del D. Lgs. n. 333/2003. Come anticipato, la società sanzionata nel caso di specie riveste la qualità di impresa pubblica. ↑
- Si segnala quale intervento recente in materia il provvedimento dell’agosto 2021 (A539) con cui AGCM ha sanzionato per oltre 11 milioni di euro Poste Italiane per abuso di dipendenza economica ai sensi dell’articolo 9, comma 3 bis, della legge 18 giugno 1998, n. 192. Si legge nel comunicato stampa relativo che “Secondo l’AGCM, Poste Italiane ha imposto clausole ingiustificatamente gravose nei contratti sottoscritti nel 2012 e nel 2013, e vigenti fino al mese di giugno 2017, con Soluzioni S.r.l., una società che per molti anni ha svolto, per conto di Poste Italiane, il servizio di distribuzione e raccolta di corrispondenza nella città di Napoli. In particolare, la società ha adottato un insieme di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose ed ha tenuto condotte abusive che hanno prodotto un consistente squilibrio nel rapporto negoziale con Soluzioni, costretta, tra l’altro, a sopportare il divieto di trasporto e consegna congiunti dei prodotti di Poste Italiane e quelli di terzi, nonché a consentire a Poste di ridurre, a proprio piacimento, i quantitativi minimi e di modificare la tipologia dei prodotti Inoltre, Soluzioni è stata costretta a svolgere prestazioni aggiuntive non previste dal contratto, peraltro non retribuite. Secondo l’Antitrust, dunque, Poste Italiane ha ostacolato il corretto svolgimento del gioco concorrenziale nel mercato di riferimento, perché con la sua condotta abusiva ha escluso un operatore che avrebbe potuto sia prestare la propria attività a favore di operatori postali alternativi sia costituire un potenziale vincolo concorrenziale a livello locale”Ed ancora il provvedimento del 25.11.2020 con cui, come si legge nel relativo comunicato stampa “ L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha avviato un’istruttoria nei confronti del gruppo Benetton (con a capo la holding Benetton S.r.l.) ipotizzando un abuso di dipendenza economica ai sensi dell’articolo 9, comma 3 bis, della legge 18 giugno 1998, n. 192, riguardo a due contratti di franchising stipulati con un rivenditore indipendente di prodotti a marchio Benetton. Sul piano della dipendenza economica, Benetton avrebbe imposto al rivenditore di mantenere una struttura di vendita e un’organizzazione commerciale disegnata sulle sue esigenze, in considerazione del fatto che si garantisce contrattualmente la possibilità di fissare regole e parametri organizzativi idonei a irrigidire la struttura aziendale del franchisee, fino a ostacolarne, se non impedirne, la sua eventuale riconversione. In tale contesto, oggetto dell’istruttoria è il possibile uso discrezionale da parte di Benetton di alcune clausole contrattuali che le consentirebbero di incidere su scelte strategiche del rivenditore, quali la definizione delle proposte e/o degli ordini di acquisto, non solo in termini di tempistica, ma anche di quantitativi. In tal modo, Benetton potrebbe avere condizionato in maniera significativa l’attività economica del franchisee, al quale sarebbe di fatto impedito di gestire in autonomia la propria attività commerciale. Il Gruppo Benetton detiene una posizione di sicuro rilievo nel mercato dell’abbigliamento, con un marchio che gode di una forte attrattiva commerciale, e dunque la vicenda è rilevante non solo sul piano del singolo rapporto contrattuale, ma anche per la tutela della concorrenza e del mercato. L’utilizzo del modello contrattuale in esame da parte di un soggetto che gestisce una significativa rete commerciale in franchising potrebbe avere un impatto significativo su tutti gli imprenditori che costituiscono la rete in questione, a danno del gioco concorrenziale nel mercato”. ↑
- P. FABBIO, Abuso di dipendenza economica: non è una condanna a priori, 18 gennaio 2022. ↑
- M. Maugeri, Ddl concorrenza e piattaforme digitali. Brevi considerazioni sulla proposta di modifica della disciplina sull’abuso di dipendenza economica, 14 aprile 2022. ↑