l'analisi

Antitrust UE contro Apple: alla ricerca di una più equa app economy

Le pronuncia del 30 aprile dell’Antitrust europeo su Apple formalizzando – su richiesta di Spotify – alcune accuse di comportamento anti competitivo rientra in uno scenario da cui potremo aspettarci sorprese, per gli equilibri degli app store e app economy. E non solo

Pubblicato il 03 Mag 2021

Apple pay commissione ue

Gli equilibri dell’app economy e degli app store potrebbero cambiare nel prossimo futuro. Fa da apripista, dopo ben due anni di esame, la pronuncia del 30 aprile dell’Antitrust europeo su Apple formalizzando alcune accuse di comportamento anti competitivo.

Tutto nasce nel 2019 quando Spotify si rivolge alla Commissione europea per contestare le regole dettate dall’App Store di Apple a causa dell’eccessiva onerosità delle fee. Ovviamente maggiori sono le commissioni che un’app deve esborsare quando vende il prodotto su un marketplace (come gli app store di Apple e Google) più è alto il rischio che il costo del servizio offerto agli utenti subisca un considerevole rialzo rispetto al prezzo base.

Antitrust su Apple-Spotify

L’Antitrust, dopo essere stata interpellata da Spotify, contesta ad Apple l’uso esclusivo del meccanismo degli acquisti in-app, accusandola di distorsione della concorrenza nel mercato dello streaming musicale e, dunque, di abuso della sua posizione dominante.

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Ricordiamo che Apple ha una sua piattaforma di streaming musicale e l’aumento dei prezzi delle altre app, dovuto alla fee che Apple richiede agli sviluppatori su ogni vendita attraverso il proprio store, non fa altro che avvantaggiare Apple Music. L’accusa mossa dall’Europa si rinviene anche nell’assenza di informazione agli utenti. Più precisamente Apple non metterebbe gli sviluppatori nelle condizioni di informare gli utenti di iOS della presenza di alternative più economiche di abbonamento del servizio.

Ad esempio, l’abbonamento pagato direttamente sulla piattaforma di Spotify ha un determinato costo, mentre se l’abbonamento viene pagato tramite l’app musicale di Apple (ma anche di Google) il costo a carico dell’utente aumenta. La differenza ovviamente è la commissione che va alla Big Tech.

Ma prima capiamo meglio, dal punto di vista tecnico, come funziona il mercato delle app e dei relativi acquisti negli app store.

Come funziona l’app economy

Prima del lancio dell’App Store di Apple, nel 2008 chi viveva di software sapeva bene che per poter raggiungere il proprio pubblico doveva muoversi come in qualunque altro settore: impacchettare il prodotto, preparare un sito vetrina (come un negozio fisico), investire in campagne pubblicitarie e mettere in piedi un sistema per accettare i pagamenti via internet. Lanciare e promuovere un software nell’Internet dei primi anni 2000, lottando con i colossi del software per accaparrarsi una fetta di mercato, non era un’impresa semplice.

Lato consumer, viceversa, verificare la genuinità del software scaricato e installato nei nostri pc non era sempre possibile, il rischio di incorrere in malware, virus e spyware era dietro l’angolo.

L’App Store di Apple prima e il Play Store di Google qualche anno dopo cambiarono le carte in tavola. C’era finalmente un mercato unico da cui gli utenti potevano scaricare in sicurezza applicativi software, di colpo abbreviati in “app”, verificati dal gestore dello store (Apple o Google appunto). C’era finalmente una vetrina che qualcun altro aveva già preparato e che offriva un collegamento diretto tra il prodotto e i suoi utilizzatori, tra gli sviluppatori e i loro clienti. Fu rivoluzionario.

Gli sviluppatori inondarono gli store di applicazioni che vennero accolte a braccia aperte. Gli app store, dal loro punto di vista, avevano necessità di popolare di app i loro marketplace. Una componente essenziale per le vendite dei loro dispositivi mobile, oltre le performance e una buona fotocamera, era quella di poter offrire quante più app possibili (più o meno utili) per arricchire di funzionalità il loro piccolo computer tascabile. Non si costruisce un centro commerciale senza negozi o prodotti.

Gli app store, oltre a favorire l’incontro tra clienti e produttori di software, fornivano – e forniscono – anche tutti gli strumenti per l’acquisto delle app trattenendo una fee per il servizio offerto.

Come si guadagna sugli store

Chi sviluppa applicazioni sugli store, ad oggi, ha a disposizione due strumenti di guadagno.

  • Uno prevede il pagamento per ottenere in cambio il download dell’app (il pagamento garantisce la possibilità di scaricare e utilizzare l’app sul proprio account con tutte le sue funzionalità).
  • L’altro è quello di acquistare all’interno dell’applicazione funzioni aggiuntive tramite quelli che vengono tecnicamente detti in-app purchase (IAP).

Quest’ultimi vennero introdotti in un secondo momento, da un lato per garantire agli utenti un’esperienza d’acquisto tutelata e coerente con la piattaforma, dall’altro per tassare anche le transazioni che venivano generate all’interno delle applicazioni. Il modello che prevede il download gratuito dell’app, che consente all’utente di testare le funzionalità per poi proporre l’acquisto di funzionalità aggiuntive, è il più diffuso.

Qualunque funzionalità aggiuntiva che richiede un pagamento deve obbligatoriamente passare attraverso il meccanismo degli in-app purchase. Sono ovviamente escluse le transazioni economiche per l’acquisto di beni reali/digitali esterni o la prenotazione di servizi.

Non si può violare la policy dell’app

Violare i termini e condizioni sottoscritti circa questo aspetto, comporta un concreto rischio di ban definitivo dell’applicazione con conseguente perdita di quel collegamento con il pubblico tanto rivoluzionario quanto prezioso. Uno sviluppatore che vede la propria app bannata dallo store, non ha altra scelta se non quella di ripubblicarla sotto altro nome, perdendo tuttavia i download, la clientela attuale, la storicità e le recensioni. Significa ricominciare tutto da zero. Questo è il prezzo da pagare per avere accesso ad un pubblico così vasto.

Quest’ultimo aspetto andò da subito in rotta di collisione con tutti quei servizi che prevedevano un posizionamento orizzontale su più piattaforme con un abbonamento acquistabile direttamente dal proprio sito internet.

I servizi di streaming, ad esempio, propongono al consumatore un abbonamento per la visione dei contenuti, il prodotto in questione sono i contenuti, non l’utilizzo specifico dell’app iOS o Android che si presta a mera interfaccia di fruizione. Tuttavia, per ottemperare agli obblighi imposti dagli store, si sono dovuti adeguare facendo transitare i guadagni derivanti dagli abbonamenti sottoscritti in-app sugli store, lasciando quindi una fee nelle casse di quest’ultimi.

L’unica alternativa è non citare in nessun modo la presenza di un abbonamento, rendendo di fatto utile l’app solo a chi è già in possesso di un abbonamento.

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Le accuse dell’Antitrust UE

E così arriviamo alle accuse dell’Antitrust della Commissione Europea. Ha emanato, nella persona dall’Executive Vice-President Margrethe Vestager, un comunicato di accusa (preliminare) a seguito delle segnalazioni inviate da Spotify.

L’indagine condotta fino ad ora ha evidenziato che Apple, tramite la gestione del suo App Store, nella categoria “Apple Music”, violerebbe i principi di concorrenza dello streaming musicale nello Spazio economico europeo (EEA), mettendo in difficoltà le altre piattaforme di streaming.

Più tecnicamente, Apple avrebbe abusato della sua posizione dominante ex art. 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), in quanto il suo App Store è l’unico strumento che gli utenti di iPhone e iPad possono utilizzare o, meglio, conoscono per scaricare app sui propri dispositivi, imponendo conseguentemente agli sviluppatori di app la distribuzione di queste ultime solo e soltanto tramite App Store.

Tra l’altro la Commissione ha osservato un fenomeno ormai noto, ovvero che gli utenti dei dispositivi Apple sono molto fedeli al marchio e non sono dediti al cambiamento. Di conseguenza, per soddisfare la richiesta di una gran fetta dei propri clienti gli sviluppatori sono, di fatto, soggetti a regole non negoziabili di Apple, come le seguenti:

  • la corresponsione di una commissione del 30% su tutti gli abbonamenti acquistati tramite il sistema di acquisto IAP, cosicché Apple diventa l’intermediario per tutte le transazioni;
  • le “Anti-steering provisions”, ovvero restrizioni che impedirebbero agli sviluppatori di informare gli utenti di iPhone e iPad circa la possibilità di acquistare abbonamenti o servizi alternativi più economici di quelli acquistabili su Apple store.

Per recuperare queste commissioni esose, assistiamo spesso all’aumento dei costi degli abbonamenti in app con il risultato che gli utenti Apple pagano prezzi più elevati per lo streaming musicale sui dispositivi iOS di quanto non lo siano sulle piattaforme proprietarie.

Da qui la presunta violazione di Apple dell’art. 102 TFUE nella parte in cui impone indirettamente l’aumento dei prezzi d’acquisto dei prodotti (fenomeno oramai uniforme per tutte le app dei diversi sviluppatori) rendendoli iniqui rispetto al mercato libero delle app (al di fuori dello store) oltre che rispetto alla propria app di musica.

Lo scenario sulle big tech e le autorità

Ora Apple ha dodici settimane di tempo per rispondere agli addebiti preliminari mossi dall’Antitrust. Tuttavia, ha già replicato in un comunicato (“They want all the benefits of the App Store but don’t think they should have to pay anything for that. The commission’s argument on Spotify’s behalf is the opposite of fair competition”), confermando un elemento che sicuramente non piace agli sviluppatori e non sempre, come visto, coincide propriamente con le regole di diritto alla base del libero mercato.

Si tratta del principio che governa tutti i marketplace: se i business fanno business è anche perché si avvalgono di queste piazze ed accettano le loro condizioni perfettamente consapevoli di poterne trarre vantaggio a fronte della corresponsione fino al 30% dei ricavi sulle vendite. In caso contrario, un’azienda rischia di perdere l’accesso a milioni di clienti Apple (o Google).

E sappiamo bene che se ora Spotify è tra le piattaforme musicali più utilizzate è anche grazie al servizio di intermediazione di Apple e Google.

Ad ogni modo siamo ancora agli albori della controversia. Questo caso non verrà risolto in breve tempo e non è improbabile che l’UE – nel più ampio programma di regolamentazione delle gatekeeper (si veda il Digital Services Act e il Digital Market Act) possa dettare nelle more delle leggi più mirate all’app economy, ovvero parametri di trasparenza e obblighi di informazione a vantaggio degli utenti consumer. Quelli che, per l’appunto, potrebbero trovarsi ad esborsare di più per un servizio in abbonamento quando acquistano attraverso gli app store.

Ricordiamo che siamo in una stagione in cui le big tech in tutto il mondo fronteggiano l’accusa, di Governi e Authority, di avere accumulato troppo potere (con il covid-19, ancora di più come rivelano gli ultimi dati di bilancio). E qui e lì cominciano a fare concessioni: ad esempio, proprio sugli store, Google, Apple e di recente Microsoft stanno abbassando la fee per certi sviluppatori. Analogo il fronte aperto da Epic, contro Google e Apple (vedi sotto).

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