È sempre curioso verificare come gli stessi eventi possano avere letture anche molto diverse. Il caso di cui voglio parlare è quello delle big tech, più precisamente delle big five – Meta-Facebook, Alphabet-Google, Amazon, Microsoft ed Apple, “MAAMA” secondo l’ennesimo acronimo coniato da The Economist – che nel momento del loro massimo successo in Borsa meno di un anno fa (fra novembre e dicembre 2021) erano arrivate a capitalizzare complessivamente più di 10 trilioni di dollari (oltre il 40 per cento del PIL statunitense e 5 volte quello italiano), ma che ora risentono da un lato della fine del periodo di grazia che la pandemia aveva garantito alle imprese tech e dall’altro del rallentamento (con rischi di recessione) della ripresa post-pandemica dell’economia mondiale.
Sono usciti a fine luglio i dati del secondo trimestre, alcuni buoni, altri un po’ meno, in generale – data l’articolazione (quasi conglomerale) dei portafogli di business delle big five – misti.
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Big five, stato di salute: cosa dice il New York Times
The New York Times (29 luglio) ha dato la lettura più favorevole – “Recession? Not for Big Tech” – valorizzando la resilienza delle imprese stesse. È vero ad esempio che Apple ha visto il suo utile netto trimestrale calare dell’11% rispetto al periodo corrispondente dello scorso anno, a causa delle supply chain disruption e dei lockdown in Cina, ma sono pur sempre 19,4 miliardi di dollari (99,6 se si sommano gli utili degli ultimi 4 trimestri), con una generazione di cash flow operativo di 23 miliardi e una retrocessione (sotto forma di dividendi e bayback) agli azionisti di 28. È vero che il trimestre ha visto un calo delle vendite di Mac, iPad e wearable, ma quelle dell’iPhone (il prodotto che da solo fa la metà circa dei ricavi di Apple) hanno raggiunto la cifra record di 40,7 miliardi di dollari.
È vero che Amazon ha chiuso anche il secondo trimestre (come il primo) in perdita, a causa dell’eccesso di personale (oltre 1,6 milioni di dipendenti) e di infrastrutture logistiche creatosi per fronteggiare (senza perdere quota di mercato) il picco di domanda nell’e-commerce generato dalla pandemia; ma d’altro canto essa è cresciuta del 33% nel cloud, di cui è leader mondiale davanti a Microsoft e Google, e ha consolidato la sua posizione – terza alle spalle dei leader storici Google e Meta-Facebook con una quota che potrebbe toccare il 15% il prossimo anno – nel digital advertising.
L’interpretazione del Wall Street Journal
Molto più sensibile al “bicchiere mezzo vuoto” la lettura di The Wall Street Journal (29 luglio) “From Apple to Microsoft, Big Tech Results Spotlight Breadth of Economic Upheaval”, che calca la mano da un lato sul calo della domanda per le imprese tech e dall’altro sulla maggior attenzione delle stesse alla spesa – sul lato investimenti e su quello nuove assunzioni – a fronte di un futuro di difficile leggibilità. Un tema evidenziato già prima della presentazione delle trimestrali dal Financial Times (21 luglio) – “Big tech hits the pause button on hiring” – sulla base degli annunci di una politica di spesa molto più selettiva da parte di Google, Microsoft ed Apple.
Un obiettivo quest’ultimo ancora più rilevante per Amazon, come detto al momento in perdita, e per Meta-Facebook, che per la prima volta ha presentato un calo nei ricavi trimestrali. È infatti di pochi giorni dopo la notizia che “Amazon Shrinks Staff by 100,000, Joining Netflix and Google in Hiring Slowdown: After years of bulking up, the industry is bracing for recession” (Bloomberg Technology, 29 luglio) ed è Mark Zuckerberg stesso che, al momento della presentazione della trimestrale, annuncia un rallentamento da parte di Meta-Facebook negli investimenti di lungo-termine e nella dinamica delle assunzioni – a fronte di una evoluzione potenzialmente sfavorevole del contesto – con una conseguente significativa riduzione delle spese.
Big Tech, i quattro problemi secondo The Economist
The Economist (27 luglio) si colloca all’altro estremo rispetto a The New York Times – “The era of big-tech exceptionalism may be over: America’s technology giants are facing unfamiliar limits to growth” – vedendo nelle difficoltà attuali il segno che la gigantesca crescita delle big tech è probabilmente ormai arrivata al “capolinea”. Quattro i problemi di natura strutturale evidenziati.
Il primo è rappresentato dalla fragilità delle supply-chain, che potrebbe ulteriormente aggravarsi con la crescita delle tensioni politiche e belliche: una fragilità purtroppo immediatamente confermata dai recenti eventi di Taiwan (“How rising tensions across the Taiwan Strait could threaten global trade: Chinese military drills after Nancy Pelosi’s visit to Taipei risk disrupting critical supply chains”, Financial Times, 5 agosto).
Il secondo è legato al crescente protezionismo: aree come la UE e Paesi come l’India piuttosto che il Regno Unito sono sempre più attenti alla protezione dei propri dati e – nel nome della sovranità digitale – cercano di promuovere la crescita di campioni locali.
Il terzo è dato dalla maggior difficoltà di reperire talenti, in un contesto in cui sono molti i comparti che in questi anni hanno accresciuto il loro livello di digitalizzazione.
Il quarto, in una certa misura legato ai precedenti, è dovuto – nella visione di The Economist – alla maggiore concorrenza che le big tech devono affrontare – in parte addirittura fra loro (come visto per il cloud e il digital advertising) – in settori che diventano progressivamente più maturi e più regolamentati e alla difficoltà di espandersi in settori nuovi, anche per gli ostacoli posti dalle authority finanziarie e da quelle antitrust. Le prime ad esempio non vogliono che Apple entri nel comparto “buy-now pay- later”, ove potrebbe sfruttare l’enorme quantità di dati di cui dispone; la FTC-Federal Trade Commission, l’organismo diretto da Lina Khan che regola la competizione negli US, vuole impedire a Meta-Facebook l’acquisizione di Within – una piccola virtual reality fitness startup nel cui ambito si colloca Supernatural (una delle fitness app più popolari nel VR marketplace di Meta) – nell’ipotesi che si possa ripetere quello che accadde una decina di anni fa con l’acquisizione di Instagram.
L’opinione del Financial Times
Allineato sul versante più negativo con The Economist, con argomentazioni aggiuntive, è il Financial Times dell’8 agosto, che titola “Bad news for Big Tech: New EU rules, US listing requirements and internet fragmentation will dent the platforms’ business models.” Al centro dell’articolo un recentissimo studio del Council on Foreign Relations – “Confronting Reality in Cyberspace: Foreign Policy for a Fragmented Internet” – che dichiara che (a causa in primo luogo delle crescenti tensioni US-Cina) l’era del global Internet deve considerarsi finita e che ritiene indispensabile che il governo statunitense, non essendo in grado di fermare o invertire il trend verso la frammentazione, si impegni da subito a organizzare con i “trusted partners” la rete futura.
Quattro categorie di aziende
Ritengo opportuno, a questo punto, fornire qualche numero: da un lato (Tab. 1) per evidenziare l’attuale posizionamento delle big five nel novero delle top 15 imprese per capitalizzazione (market cap) a livello mondiale e dall’altro (Tab. 2) per mostrare sinteticamente le violente fluttuazioni nei valori di Borsa – prima, durante e dopo (sperando che la fine sia prossima) la pandemia – che hanno interessato e continuano a interessare in misura tutt’altro che uniforme le diverse imprese. E commenterò in particolare la seconda tabella, che – sfruttando i dati CompaniesMarketCap.com – vuole misurare quanto sia rimasto del plusvalore accumulato dalle imprese tech durante la pandemia (quando esse furono determinanti per tenere in piedi l’economia e la vita sociale nonostante i prolungati lockdown) e vuole farlo per diverse categorie di imprese.
Big five
In primo luogo le big five. Il fenomeno sicuramente più interessante è quello della forte divaricazione dei loro andamenti nel triennio (se ne sono già fatti cenni in precedenza), a dispetto del fatto che esse vengono spesso viste come un unicum – come una sorta di oligopolio anomalo – nonostante la solo parziale sovrapposizione dei loro portafogli di business. Apple – che tre anni fa (a fine luglio 2019) valeva 963 miliardi, meno del doppio dei 554 di Meta-Facebook – ora (nonostante i dividendi e i buyback come visto estremamente generosi) vale quasi 6 volte tanto: è salita infatti di oltre il centosettanta per cento a quota 2530, mentre Meta-Facebook ha perso più del venti, scendendo a quota 432.
Se guardiamo ai picchi raggiunti durante la pandemia, Apple era arrivata quasi a quota tremila miliardi, perdendone successivamente solo il quattordici per cento. Invece Meta, dopo aver superato quota mille, ha perso quasi il sessanta per cento, entrando – nonostante il livello tuttora notevole dell’utile netto – in una fase di crisi quasi esistenziale del suo business model (“Meta’s existential risks mount” il commento di Richard Waters su FT il 28 luglio), per effetto da un lato del radicale cambiamento nella politica di privacy dell’iPhone e della crescente preferenza per il “modello Tik Tok” da parte dei più giovani e dall’altro delle forti incertezze sulla (costosa) scommessa fatta da Meta stessa sul metaverso. E ordinatamente Microsoft, Alphabet-Google e Amazon mostrano crescite decrescenti rispetto a tre anni fa e cali crescenti rispetto ai massimi raggiunti nel frattempo.
Big tech cinesi
La seconda categoria considerata è quella delle due big tech cinesi, Tencent e Alibaba, gravemente colpite non dal mercato, ma dal cosiddetto tech backlash lanciato da Xi per motivi di potere: un attacco condotto attraverso le authority finanziarie e antitrust, che ha avuto come prima vittima a novembre 2020 l’IPO – mancato – di Ant (il braccio finanziario di Alibaba), che era destinato a essere il più grande della storia.
Tech company
Nella terza categoria ho inserito due imprese – PayPal e Netflix – emblematiche della molteplicità di tech company che, dopo aver raggiunto picchi di capitalizzazione rilevanti durante la pandemia (le due in oggetto oltre 300 miliardi di dollari), hanno visto il loro valore precipitare ai livelli pre-pandemia o anche – come nei casi di Meta, PayPal e Netflix – inferiori. Un’isteria del mercato o una corretta valutazione? Non c’è dubbio che ci siano mediamente stati momenti di eccessiva euforia nel determinare i picchi e più recenti momenti di eccessivo pessimismo nell’effettuare le correzioni al ribasso. Ma sarà solo il tempo a poter rispondere alla domanda e lo farà caso per caso, come avvenuto dopo lo scoppio della bolla Internet.
Big oil
La quarta categoria, infine, è quella delle big oil, che ho inserito perché hanno avuto un andamento speculare rispetto alle big tech: hanno perso valore durante la pandemia, a fronte dei forti rallentamenti dell’economia, e sono viceversa risalite (Exxon Mobil ha addirittura triplicato il suo valore rispetto al punto di minimo) nei mesi più recenti, con la ripresa dell’economia prima e con le tensioni generate dalla guerra russo-ucraina poi.
Forse quindi c’è un ritorno al potere delle big oil e un segnale di declino delle big tech che per la prima volta affronteranno una recessione; oppure quanto stiamo vivendo è solo un temporaneo intoppo sulla strada per un futuro di sicura forza per le big tech principali, che si sono spartite il crescente mercato del digitale.