“Una settimana brutale per le big tech”. Il titolo di un articolo del Financial Times del 27 ottobre, uscito alle 20 (Brutal week for Big Tech with $550bn wiped off valuations) sintetizzava in maniera chiara l’impatto in Borsa sino a quel momento delle presentazioni delle trimestrali da parte di Alphabet-Google, Microsoft e Meta-Facebook e delle scommesse sui risultati che avrebbero comunicato Apple e Amazon poco dopo, al momento della chiusura del Nasdaq (la Borsa statunitense come noto a prevalenza tech ove tutte le cinque sono quotate).
In tutto hanno bruciato 800 miliardi in Borsa, di cui 250 a causa delle delusioni provocate dai risultati di Amazon nel trimestre finito a settembre e ancor più dalle previsioni comunicate dalla società stessa sul quarto trimestre (tradizionalmente il più importante per la presenza del Natale).
I motivi del tonfo in Borsa delle Big Tech
Ottocento miliardi sono tanti, sono di più del valore dell’intero mercato azionario italiano. Il motivo del vero e proprio crollo:
- il calo degli utili trimestrali, da un lato,
- la paura dall’altro di un calo più accentuato della domanda, a causa della crisi internazionale in atto, e di una esplosione dei costi, come conseguenza sia delle tensioni inflazionistiche anch’esse in atto sia (nel caso di Amazon soprattutto) del sovradimensionamento – nel personale e nelle infrastrutture – creatosi con le aspettative originate dalla pandemia,
- ma sullo sfondo anche la paura che si stia avviando a conclusione il periodo “magico” delle big tech: un periodo, durato diversi anni, in cui esse erano sembravano essere immuni (resilienti se si vuole usare un termine abusato) alle crisi di qualsiasi natura o addirittura – come nel caso della pandemia – riuscire a trarre vantaggi da esse.
Quanto ha pesato il calo degli utili
Quanto ha pesato il calo degli utili? È stato così drammatico? Come notava il New York Times, in un articolo uscito appena dopo le presentazioni delle prime due trimestrali, “molte imprese vorrebbero avere i problemi delle big tech”.
Fanno ancora molti, molti profitti.
La somma degli utili netti di Alphabet-Google e Microsoft è stata pari, nel trimestre più recente, a 31,5 miliardi di dollari. E ci si aspetta che l’utile che Apple comunicherà superi i 20 miliardi [così come poi è stato] in un trimestre altrimenti considerato molto deludente.”
Sono la paura del futuro prossimo, in cui molti fattori sembrano congiurare a sfavore, e di quello meno prossimo, di natura più strutturale, che – insieme con le spinte di natura più spiccatamente speculativa – giocano molto probabilmente il ruolo più forte.
Tutte le big tech hanno dato segnali di prudenza sulle assunzioni, del resto, e anche di licenziamenti (Microsoft, Meta).
Meta-Facebook l’azienda con più problemi
Anche se appare sempre più sbagliato vedere le big tech come un unicum, perché – nonostante la tendenza a farsi concorrenza l’una contro l’altra in diversi settori (Microsoft e Google cercano di rubare quote ad Amazon nel cloud, Amazon è entrata di peso nel digital advertising tradizionalmente dominato da Google e Facebook, tutte vorrebbero avere un ruolo più importante nella finanza e nei pagamenti, ecc.) – esse hanno pesi molto diversi dei differenti business al loro interno e quindi sono esposte in modo diverso all’evolvere del contesto esterno. Senza entrare in una analisi di dettaglio, Meta-Facebook sembra essere l’impresa con più problemi, sia di natura congiunturale sia strutturale:
- perché colpita pesantemente dalla politica per la privacy posta in atto da Apple, e probabilmente nel prossimo futuro da Android (Google), che ha letteralmente sconvolto il suo business model nel digital advertising, fonte larghissimamente prevalente dei suoi ricavi;
- perché il digital advertising è soggetto, – come si vede anche dai risultati di Google (leader del comparto) – a una minor propensione alla spesa da parte delle imprese potenziali clienti e alla entrata come concorrenti di tutti i soggetti che riescono a raccogliere una massa ragionevole di dati;
- perché i social network sono insidiati – soprattutto per le fasce di età più giovani – da formati innovativi, quali in primo luogo quelli di TikTok;
- perché non è assolutamente certo che le scommesse sul metaverso, che assorbono una quota rilevante dei potenziali profitti, si traducano negli epocali successi di cui parla Mark Zuckerberg. La divisione di Meta dedicata al metaverso brucia miliardi e ha anche dimezzato i ricavi l’ultimo anno.
I dubbi sul futuro di Amazon
Proseguendo dal basso è Amazon la seconda, che risente allo stesso tempo di:
- una domanda nell’eCommerce (il business che assorbe la maggior parte delle sue persone e delle sue risorse) che fa fatica a crescere, sia per il minor potere di acquisto dei consumatori sia per il parziale ritorno degli stessi – soprattutto per certe categorie di prodotti (quali ad esempio il vestiario) – agli acquisti “di persona” in una rete commerciale nel frattempo fortemente ristrutturatasi;
- una crescita dei costi, sempre nell’eCommerce, legata all’inflazione in generale, alle rotture di diverse supply chain (a causa, ad esempio, dei frequenti lockdown in Cina) e al sovradimensionamento (sopra citato) – nel personale e nelle infrastrutture logistiche – dovuto alle eccessive aspettative di crescita generatesi durante la pandemia;
- un rischio di rallentamento nei due settori dove genera i suoi profitti: nel cloud computing, dove è il numero uno al mondo ma ove la crisi rende più attente ai costi le imprese clienti o potenziali clienti e ove anche la concorrenza è robusta, e (per le ragioni viste sopra) nel digital advertising.
Apple fa bene, ma non mancano le nubi
Saltando in vetta alla classifica, Apple è l’unica – fra le cinque – ad avere presentato un utile netto e un volume dei ricavi in crescita: con un successo al di là delle previsioni nel fatturato realizzato in quello che rimane di gran lunga il suo principale prodotto, l’iPhone, soprattutto nei modelli di fascia più alta. Ma con maggiori difficoltà per altri business, in particolare per quello dei servizi che dovrebbe rappresentare il suo futuro.
A fronte dei buoni risultati complessivi, anche Apple ha espresso però preoccupazioni per il futuro prossimo, segnalando con una particolare enfasi i problemi (sia in termini reali sia contabili) derivanti dal continuo apprezzamento del dollaro rispetto alle altre monete.
Al di là del futuro a breve, ci sono nubi che riguardano quello a medio-lungo, quali (accennando ai due principali):
- la tenuta dell’iPhone, e dei premi di prezzo che il mercato finora ha riconosciuto, vedendolo più come prodotto di lusso che non come smartphone;
- la geopolitica, soprattutto in relazione ai rapporti con la Cina (in un crescente clima di confronto da “guerra fredda” con gli Stati Uniti): che continua a essere un mercato estremamente importante, anche se percentualmente un po’ ridimensionato dall’entrata di Apple in altri mercati asiatici (a partire dall’India, Vietnam). La Cina continua a rappresentare, anche se sono in atto tentativi di differenziazione, il luogo privilegiato di manufacturing dei suoi prodotti. Sono cinesi le aziende con cui Apple collabora anche fuori dalla Cina per la fornitura, perché insostituibili (per ora) le competenze maturate.
Conclusioni
Un quesito di fondo a chiusura di questo mio articolo: è ragionevole pensare che il periodo “magico” delle big tech sia arrivato al capolinea? Difficile dirlo. Io faccio solo due ragionamenti, uno (quasi) contro e uno a favore.
Contro
La storia ci mostra, se si guarda ad esempio ad Apple, il profilo a “montagne russe” dell’andamento delle valorizzazioni, con sbalzi percentualmente enormi – in almeno tre occasioni nell’ultimo decennio – al profilarsi di pericoli strutturali (nella fattispecie la caduta di interesse per l’iPhone) e viceversa al manifestarsi di dati in grado di neutralizzare la paura.
A favore
Come evidenziato nell’articolo sopra citato del New York Times, la sensazione che negli ultimi anni non ci siano state innovazioni così rilevanti da generare quei tassi di crescita nelle vendite capaci di far superare anche le crisi economiche generali più acute e che viceversa (Apple è stata maestra in questo) si sia puntato a sfruttare al massimo il potenziale delle idee innovative generate nel passato, con miglioramenti incrementali. E a questo aggiungo: è quando l’innovazione radicale rallenta, a favore di quella incrementale, che è più facile per i regolatori introdurre “regole” potenzialmente penalizzanti per la profittabilità.