La discussione in corso, negli Usa, sull’American Innovation and Choice Online Act potrebbe essere il segnale di nuova tendenza caratterizzata dalla ripresa della volontà del regolatore statale di regolare anche il mercato, proprio per garantire lo sviluppo di una società digitale equilibrata e ben strutturata.
Il dibattito, compresa la strepitosa attività lobbistica che la caratterizza, potrebbe, come vedremo, segnare un punto di svolta di grande rilievo in virtù del quale gli Stati (in questo caso gli USA) comprendono che è finito il tempo di lasciare libero il mercato di trovare le strade più brevi e più convenienti per promuovere la Digital Age e ci si avvia invece a una nuova fase nella quale gli Stati, probabilmente anche a seguito della competizione con l’ecosistema cinese, sono spinti a riprendere la propria sovranità anche rispetto al mercato, andando oltre il cosiddetto “Washington consensus” e la sola tutela della concorrenza e dei diritti fondamentali.
La discussione sull’American Innovation and Choice Online Act
Il 18 gennaio di quest’anno sul Wall Street Journal Tim Higgins ha pubblicato un articolo importante per richiamare l’attenzione sulla tensione in atto tra le Big Tech e il Congresso USA, originata dalla discussione e, forse, dalla imminente approvazione dell’American Innovation and Choice Online Act da parte del Senate Judiciary Committee.
Sul New York Times del 20 gennaio il tema è stato ripreso da Cecilia Kang e da David McCabe, che sottolineano in particolare che l’Act in esame al Senato avrebbe come scopo di impedire ad Amazon, Apple e Google di promuovere i propri prodotti con sistemi che ledono negativamente la capacità di concorrenza dei loro competitori.
La questione, oggetto di questi due articoli, relativa all’American Innovation Act è stata riaperta in particolare dalla posizione assunta da Apple che ha contestato il contenuto dell’Act affermando che esso impone di fatto e di diritto alle Big Tech di aprire i loro stores on line e le loro piattaforme non solo alla pubblicità e alla vendita dei loro prodotti ma anche a chi, pur loro competitore, pagando le fees richieste intendesse usare tali stores e tali piattaforme per pubblicizzare e vendere prodotti di altre marche.
L’interesse dei consumatori usato come scudo
La posizione assunta da Apple, nel bel mezzo di una fragorosa battaglia in atto con il legislatore federale USA, finalizzata a imporre alle Big Tech di aprire i loro sevizi di pubblicità e vendita on line anche ai loro competitori è particolarmente interessante perché nel merito tenta di chiamare in ballo l’interesse dei consumatori. Tale interesse, infatti, sarebbe messo in crisi dal fatto che mentre le marche Big Tech che vendono on line sulle loro piattaforme i loro prodotti possono garantirne la qualità, anche e soprattutto sotto il profilo della protezione dei dati, la stessa cosa non potrebbe avvenire per prodotti venduti o pubblicizzati da altre marche che si avvalessero, ad Act approvato, delle piattaforme Big Tech.
Dunque, questa è la posizione di Apple: un’iniziativa normativa finalizzata a migliorare la posizione dei consumatori rendendo obbligatorio aprire anche le piattaforme Big Tech ai concorrenti, rischierebbe di trasformarsi in una grave lesione sostanziale dei loro diritti, proprio perché le Imprese titolari delle piattaforme e degli stores on line non potrebbero garantire la qualità dei loro prodotti e la tutela degli utenti ad un livello comparabile con quello in cui possono invece garantire i loro prodotti posti in vendita sulle stesse piattaforme.
Il tema è importante e la posizione assunta da Apple, per quanto affatto nuova, è interessante perché tende a mettere in tensione la possibilità di scelta degli utenti in un regime che apre alla concorrenza anche i servizi offerti dalle Big Tech e le garanzie che queste imprese possono fornire agli utenti delle loro piattaforme: garanzie che, appunto, possono essere ampie per i loro prodotti e assai meno per quelle dei prodotti messi in vendita da altre marche.
Concorrenza vs garanzie per i consumatori
In questo senso ritorna oggi sul tavolo, sia pure sotto una nuova luce, un tema antico e ben noto negli anni passati: quello appunto dei servizi di vendita online o di servizi offerti da piattaforme delle Big Tech ma utilizzati da altre imprese.
Questo tema in passato aveva sollevato l’attenzione delle Autorità di Garanzia, compreso il Garante italiano, che già si erano scontrate nei fatti con l’impossibilità di imporre alle piattaforme ospitanti gli oneri necessari a che i prodotti e i servizi offerti dalle loro piattaforme, rispetto ai quali i consumatori potevano ritenere di aver fiducia proprio per la tradizione di alta qualità associata ai prodotti del titolare della piattaforma, garantissero il rispetto delle norme europee in materia di protezione dei dati e soprattutto dei dati personali.
La questione allora posta, che riguardò per qualche momento anche l’applicazione del cosiddetto “diritto all’oblio” o delle regole relative alla “cancellazione dei dati” rispetto a notizie pubblicate dai devices offerti dalle piattaforme delle OTT, o accessibili attraverso servizi forniti dalle stesse piattaforme utilizzate da altre marche, non ebbe mai una soluzione soddisfacente ma condusse i Garanti a prendere atto di una cosa che alla maggior parte degli utenti non era adeguatamente nota, e cioè che non vi era coincidenza di responsabilità tra chi gestisce le piattaforme e chi offre attraverso di esse i loro servizi né vi era una responsabilità solidale verso gli utenti connessa alla struttura stessa dei servizi resi.
Su un altro versante tutto questo si tradusse comunque in una potenziale perdita di valore del marchio relativo ai prodotti propri dell’impresa Big Tech giacché il fatto che sulle sue piattaforme fossero acquistabili, a condizioni non sempre chiare nelle loro differenze, anche prodotti o servizi di altre marche non di pari qualità determinò negli anni una obiettiva confusione con relativa perdita di valore del marchio originale legata alla diminuita fiducia nelle qualità dei prodotti anche indirettamente riconducibili a tale marchio.
Valore dei dati e chiusura delle piattaforme
Contemporaneamente il crescente valore dei dati trattati dai devices e dalle piattaforme digitali spinse le Big Tech a cambiare la loro politica di impresa fino a condurle a una sostanziale chiusura delle loro piattaforme e dei loro stores a marchi di altre società.
Tutto questo, che fu certamente efficace nel far perdere rilievo ai problemi precedenti, portò però nel tempo al sorgere di una nuova problematica, che è esattamente quella alla quale ci si trova di fronte oggi rispetto alle attività del Big Tech USA. L’esclusione dei competitori dagli stores e dalle piattaforme di queste imprese, infatti, indebolì molto la loro capacità di competizione, incidendo anche sullo sviluppo della qualità dei prodotti digitali.
Va sottolineato tuttavia che ora la questione, proprio in quanto al centro di una iniziativa regolatoria federale quale l’American Innovation and Choice Online Act, cambia contesto e peso.
Il tema centrale della questione è infatti ora la chiara volontà federale di imporre, tramite la nuova Regolazione, alle Ott di aprire le loro piattaforme e, soprattutto i loro stores on line, anche a soggetti terzi che possano avvalersi delle loro strutture sia per promuovere e vendere on line i loro prodotti che per offrire i loro servizi.
Il punto centrale, dunque, si sposta sulla tutela della concorrenza come elemento fondamentale del mercato ma, invece di operare sul versante dei poteri e dell’ambito di competenza delle Autorità a tutela della concorrenza il legislatore americano intende adottare una nuova legislazione che incide direttamente sulla libertà delle OTT di organizzare il loro business, l’utilizzo delle loro piattaforme e dei loro stores on line.
La conseguenza è quella di aver messo in discussione una legislazione federale che non ha tanto al centro la tutela della libertà della concorrenza ma che pretende di regolare direttamente, anche se solo in parte, l’attività di impresa delle OTT e delle Big Tech imponendo la apertura delle loro piattaforme e dei loro stores on line anche a imprese terze che possano utilizzare i servizi offerti dalle piattaforme per promuovere i loro prodotti e per organizzarne la vendita on line.
Tutela dei marchi o dei consumatori?
Tutto questo ha determinato lo svilupparsi di una impressionante attività di lobbying da parte delle Big Tech, della quale vi traccia ampia nell’articolo del Wall Street Journal, fino a spingere le stesse Big Tech a rivendicare la tutela dei consumatori come valore essenziale della chiusura dei loro stores on line ad altre marche e altri soggetti diversi.
È interessante notare, tra l’altro, che la posizione assunta da Apple (ma non condivisa invece da Google che ha sempre puntato sulla apertura dei suoi servizi a qualunque attività in rete) si basa proprio sulla stessa tutela degli utenti dal punto di vista dell’affidamento nei marchi offerti negli stores e, dunque, tende essenzialmente a tutelare i marchi sia pure non per rafforzare posizioni di monopolio ma la tutela dei consumatori. Apple arriva a dire che non può tutelare la privacy degli utenti se passano le proposte di legge volte ad aprire gli store.
Posizione interessante questa, che può aprire la strada a interessanti riflessioni sul tema se davvero la libertà di concorrenza e la sua tutela sia sempre lo strumento migliore per tutelare anche i consumatori o, almeno in alcuni casi come nel mondo digitale, possa rischiare al contrario di ledere (o concorrere a ledere) i diritti dei consumatori e a indebolire la responsabilità delle imprese.
Una discussione questa che certo meriterà di essere fatta perché si colloca al cuore dell’intreccio tra tutela della concorrenza come strumento per garantire la libertà e lo sviluppo del mercato e la tutela dei diritti dei cittadini che non sempre può semplicemente essere garantita dalla libertà di mercato.
Un tema, anche questo, non nuovo che non a caso è alla base della tendenza a coinvolgere sia le Autorità a tutela della concorrenza che le Autorità di protezione dati nella verifica delle modalità di funzionamento dei servizi on line che comportino trattamenti di dati personali.
Qui però merita rilevare anche un altro aspetto, particolarmente interessante anche per gli sviluppi che potrà avere in futuro.
Come sappiamo, e come molto spesso chi scrive ha ricordato, lo sviluppo della società digitale e in particolare del sistema delle Big Tech con sede in USA ha avuto la sua spinta decisiva nel cosiddetto Washington consensus, quel movimento culturale, che ha coinvolto anche il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale degli investimenti, secondo il quale la spinta essenziale per sviluppare tutte le potenzialità proprie del mercato anche come molla per lo sviluppo della Digital Age è assicurare e garantire non tanto la regolazione delle singole attività, salva la tutela dei diritti fondamentali, quanto la libertà di competizione e di concorrenza.
Questa linea culturale, che fu alla base anche della apertura della rete alle finalità commerciali dell’epoca Clinton, ha condotto alla rinuncia progressiva alla regolazione delle attività digitali in rete (fatta salva per la UE la tutela dei diritti fondamentali della Carta europea) e a puntare invece sul costante sviluppo delle imprese e della ricerca tecnologica a fini di profitto commerciale o imprenditoriale.
Conclusioni
È presto per trarre conclusioni affrettate ma certo la vicenda in atto, segnalata con tanta, non casuale, enfasi dal Wall Street Journal e dal New York Times merita attenzione anche al di là del suo contenuto specifico.
Il tema è poi particolarmente importante per la UE, ancora incerta se continuare nella sua attività regolatoria per riacquistare la sovranità digitale o puntare anch’essa sulla enfatizzazione della libertà del mercato, recuperando la sua impostazione originaria di garante del Mercato Unico come area di competizione continentale unificata da regole e controlli comuni.
Non ci resta che seguire d vicino la vicenda in atto, con le antenne pronte a registrare anche le più tenuti scosse sismiche che si verificassero in un terreno ormai così strategico.
Infine, merita osservare che se anche le ormai incombenti elezioni di medio termine USA dovessero spingere il Congresso a rinviare l’esame dell’Act, come ipotizzano nel loro articolo sul New York Times la Kang e McCabe, il tema è ormai sul tappeto e sicuramente sarà ripreso nei prossimi anni. Certo, se anche la UE avesse un poco di tempo per riflettere meglio sulle sue linee di politica legislativa da adottare per il futuro sarebbe una cosa molto opportuna, purché questo non rimandi in alto mare la ormai imminente discussione finale sul Digital Package.