Siamo ormai abituati a sentire parlare di carbon credits e del loro utilizzo da parte di aziende che, più o meno sinceramente, adottano un percorso virtuoso al fine di limitare o azzerare la propria impronta ecologica, attraverso l’adozione di strumenti che catturano l’anidride carbonica (naturali come gli alberi o di immagazzinamento sotterraneo) in termini virtualmente paritetici a quelli dell’anidride carbonica prodotta nei propri processi produttivi.
Nella creatività tipica dell’uomo, spesso accompagnata dal desiderio di creare nuove opportunità di affari, si affaccia ormai da qualche tempo anche l’idea di creare dei biodiversity credits: considerato che la biodiversità, da un lato, è minacciata dai cambiamenti climatici e, dall’altro lato, quando essa è perduta limita la resilienza delle specie esistenti anche con effetti che possono esacerbare i cambiamenti climatici stessi. Si pensi alla diminuzione degli impollinatori – che non coincidono solo con le api ma anche con altri insetti, uccelli quali i colibrì e piccoli vertebrati – e le conseguenze che tale diminuzione ha sulla flora, che è essenziale non solo per il nutrimento degli essere viventi ma anche per combattere il cambiamento climatico.
L’esperienza dei carbon credits
Il sistema dei carbon credits può ormai considerarsi sviluppato ed è fondamentale per tutte quelle imprese che vogliono perseguire il risultato delle zero emissioni compensate.
Come menzionato, esso si basa per lo più sulla piantumazione di alberi e il recupero di aree degradate, spesso attraverso il coinvolgimento delle popolazioni locali, creando opportunità di occupazione.
Sulle modalità con le quali, poi, i risultati raggiunti siano misurabili, molto si può discutere. Spesso ci si limita a indicare il numero e le specie di alberi piantati, calcolando il quantitativo medio di anidride carbonica assorbibile, senza considerare che un albero piantato non è detto che cresca e senza specificare se esso sarà sostituito nel caso di morte, poco o nulla si dice poi su come esso sarà utilizzato al momento in cui la capacità dell’albero stesso di assorbire anidride carbonica sarà azzerata: punto essenziale, considerato che l’assorbimento coincide con la crescita dell’albero e tende ad azzerarsi quando lo stesso ha raggiunto la sua dimensione “adulta”.
Carbon credits, non è tutto oro quello che luccica
Appare chiaro, quindi, che sebbene la piantumazione di alberi sia senz’altro benefica per il pianeta, anche perché di massima assicura già di per sé un habitat per molte specie animali, non tutto ciò che luccica è oro, creando la falsa percezione che si possa inquinare e rimediare contemporaneamente.
Al momento, inoltre, vi sono varie polemiche sulla validità dei sistemi di certificazione, quali quello rilasciato da Verra; polemiche che pongono al centro il tema se il sistema di per sé funzioni o sia un’altra creazione “finanziaria” sulla quale arricchirsi inquinando e salvandosi la reputazione, con buona pace dei nobili propositi tanto decantati.
A ciò si aggiunge l’ulteriore considerazione negativa che, spesso, i programmi di riforestazione non tengono conto delle realtà locali: è recente la polemica che riguarda il colosso petrolifero Total con la piantumazione di acacie nella Repubblica Democratica del Congo, in una vasta area attualmente coltivata a manioca dalle popolazioni residenti, in gran parte pigmei, che sarebbero pertanto allontanate a forza per dare spazio al rimboschimento.
Il sistema dei carbon credits, tra l’altro, premia le riforestazioni, ma non considera la conservazione delle foreste esistenti, con il palese paradosso che sono addirittura premiate le industrie del caffè che prima hanno devastato le foreste per ottenere campi coltivabili e poi ora si gloriano perché piantano nuovi alberi.
Cionondimeno, il sistema appare utile quanto meno a limitare i danni delle emissioni e ritardare il riscaldamento globale.
Green economy: le startup che risolvono i problemi dei carbon credits
Cosa sono i biodiversity Credits
Le varie COP (Conference of Parties) che si tengono annualmente in relazione alla UN Biological Diversity Convention sottolineano sempre più l’importanza di assicurare e difendere la biodiversità.
L’obiettivo 30/30 (ovvero la protezione del 30% del Pianeta entro il 2030) è diventato uno dei mantra più ripetuti, anche se il rischio è che rimanga anch’esso una mera petizione di principio, al di là della non chiara valenza dell’obiettivo dichiarato: basterà salvaguardare un 30% del Pianeta per salvare il Pianeta stesso?
La recente adozione, avvenuta il 4 marzo 2023, della risoluzione delle Nazioni Unite per la protezione dell’Alto Mare appare comunque essere un passo concreto nella giusta direzione.
Attraverso il sistema dei biodiversity credits, governi e aziende dovrebbero perseguire azioni di conservazione o di recupero di aree degradate volte al mantenimento della biodiversità in tutte le sue forme, animali e vegetali.
Sicuramente essi costituirebbero uno strumento volto a limitare i danni che l’uomo compie con le proprie azioni. Si pensi, ad esempio, a interventi volti a difendere le barriere coralline o la ricostituzione delle mangrovie, o semplicemente alla tutela degli habitat dove vivono specie animali a rischio.
I possibili problemi
Se non si può dubitare della bontà di tali azioni, dubbi sorgono quando all’azione si collega il termine credits, che lascia pensare, come per le emissioni di carbonio, che gli stessi possano dare luogo ad una licenza di inquinare o degradare l’ambiente in una zona, grazie agli effetti di azioni di supporto in altre aree.
E qui sorgono le perplessità e non solo per le ragioni già sopra espresse in relazione ai carbon credits a e alla loro effettiva capacità di risolvere il problema del cambiamento climatico.
Principalmente, tali perplessità sorgono dalla non fungibilità delle varie forme di vita, da qui il termine biodiversità, e della non misurabilità delle azioni intraprese.
Le emissioni di anidride carbonica si possono misurare, l’assorbimento teoricamente pure (sebbene con le varie criticità summenzionate), la biodiversità no: riesce difficile pensare che una foresta di mangrovie distrutta su una costa sia la stessa di un’altra ricostituita 200 km più in là.
Il rischio, quindi, è che si crei un mercato che si presti a utilizzi di dubbia utilità se non addirittura con esiti fuorvianti, lasciando spazio ad abusi, con la promessa di compensazioni arbitrarie.
Potenzialità per i paesi in via di sviluppo
Poste le criticità summenzionate, lo strumento, dei biodiversity credits, laddove fosse accompagnato da sgravi fiscali nei paesi in cui sono collocate le aziende che pongono in essere azioni di tutela della biodiversità e non venisse limitato a un semplice “do ut des” con licenza di inquinare, potrebbe considerarsi comunque idoneo a sostenere quei paesi cui l’Occidente sta chiedendo il massimo sforzo di preservazione della natura, limitandone lo sviluppo economico.
Azioni di tutela della biodiversità, con coinvolgimento delle comunità locali, potrebbero infatti costituire opportunità di lavoro e di protezione anche delle tradizioni delle popolazioni indigene, nonché fonte di entrate economiche con lo sviluppo di un turismo sostenibile.
Attraverso questo tipo di attività potrebbero inoltre essere salvate le foreste esistenti e i suoi abitanti, non considerate invece – come sopra menzionato – nel sistema di carbon credits perché non volte a creare nuovi sistemi di assorbimento: tutte buone ragioni queste per sperimentarne l’utilizzo in una visione di benessere globale.