Alcuni anni fa, una mia amica professoressa di fisiologia vegetale mi disse che in molti paesi africani il cibo è così biologico da morire. La frase non voleva essere una battuta, ma la semplice amara constatazione che non tutto quel che è naturale, perché non trattato, è sano e che il mancato utilizzo di agenti chimici e la mancata conoscenza di tecniche, anche di carattere biologico, portano spesso i prodotti della terra a essere nocivi per l’uomo.
E così, pensando anche alla siccità che sta imperversando in Africa orientale, segnatamente nel Nord del Kenya, in Etiopia e ancor più gravemente in Somalia, dove sono mancate 5 stagioni delle piogge consecutive, causando una crisi umanitaria che coinvolge 22 milioni di persone (fonte Arab News del 25 febbraio 2023), in Africa spesso ci si trova di fronte al dilemma di dovere scegliere tra la fame immediata e il rischio di malattie e morti future.
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Il caso dei raccolti ugandesi (e non solo) e le aflatossine
E’ recente delle autorità del Sud Sudan (South Sudan National Bureau of Standards – SSNBS) sul rischio aflatossine del granturco prodotto dall’Uganda, che hanno invitato a un maggiore controllo sulle importazioni da questo Paese. Del resto, l’allarme aflatossine è stato sollevato dalla National Agricoltural Research Organization (NARO) basata nella capitale ugandese, che ha riscontrato come il granturco ugandese superi sino a 10 volte il limite massimo di tali tossine stabilito dagli standard sanitari dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (fonte The City Review del 25 febbraio 2023).
Il tema non è nuovo, ad esempio nel 2021 il Kenya bloccò l’importazione del granturco dall’Uganda e dalla Tanzania per ragioni legate alle micotossine, anche se poi lo stesso granturco prodotto in Kenya non si è rivelato esente da tali criticità, tant’è che il bando venne quasi immediatamente tolto dopo un invito ad applicare più rigidi protocolli sanitari in sede d’importazione, registrando gli importatori e imponendo certificazioni sul rispetto del limite massimo di aflatossine presenti (fonte East African dell’11 marzo 2021).
Il Sud Sudan non è in grado di bloccare le importazioni in quanto le produzioni locali non sono sufficienti, da qui l’invito a massimizzare i controlli e l’implicita accettazione della non scelta: tra male immediato certo (la fame) e quello futuro e incerto (l’insorgenza di malattie tumorali e la morte da avvelenamento).
Rischi che sono concreti, considerato che, nel 2004, 125 persone morirono in Kenya e un numero imprecisato fu ricoverato in ospedale e che, nel giugno 2016, 20 persone sono morte in Tanzania, mentre ben 48 sono state ricoverate in ospedale sempre a causa del granturco contaminato (fonte Daily Monitor del 19 febbraio 2023).
Aflatossine: cosa sono?
Dalla definizione che ne dà l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (AESA) le aflatossine sono micotossine prodotte da due specie di Aspergillus, un fungo che si trova soprattutto in zone caratterizzate da un clima caldo e umido. La contaminazione può avvenire prima o dopo la raccolta. Esse hanno proprietà genotossiche e cancerogene: ragioni per le quali la loro presenza deve essere limitata nel massimo grado possibile.
Agricoltura e allevamenti: non basta l’acqua
Nell’Italia ormai unificata, caratterizzata da un’economia fondamentalmente agricola, gli animali da soma erano uno strumento fondamentale per il trasporto dei raccolti, eppure i nostri contadini non conoscevano bene le tecniche per mettere la soma sui propri muli e asini, con conseguente sofferenza di questi ultimi e danno economico per i proprietari che vedevano i propri animali non rendere quanto avrebbero potuto. Al riguardo un tentativo di aiuto arrivò dalle associazioni zoofile inglesi che cercarono d’insegnare come curare il benessere animale, invogliando i contadini ad imparare per trarre maggiore rendimento dai propri animali (come riportato in L’economia italiana dal 1861 al 1914, Gino Luzzatto).
Sulla stessa scia, questo è il problema che si pone con i raccolti in Uganda, come in altre parti del mondo: la conoscenza da parte degli agricoltori delle tecniche per evitare la contaminazione e la proliferazione delle aflatossine, che sostanzialmente si basano su processi di pulitura ed essiccazione che tengano il più possibile i prodotti in ambienti salubri e secchi, evitando il mantenimento dei prodotti sui carri di trasporto e costruendo una rete di magazzini che possa garantire la conservazione dei prodotti in condizioni ottimali. Un tema che dovrà essere affrontato a livello locale e anche globale è se, come riporta l’AESA, il cambiamento climatico renderà ancora di più esacerbato il problema delle aflatossine.
Conclusioni
Come in campo sanitario, così anche per la sicurezza alimentare, l’Africa ha bisogno di infrastrutture e conoscenze, ma anche di laboratori in grado di potere fornire dati e certificazioni affidabili.
Il trattamento dei prodotti raccolti richiede conoscenze circa le modalità di conservazione, attraverso l’utilizzo di ambienti salubri; i trasporti richiedono strade che siano percorribili e spesso non lo sono a causa della scarsa qualità dei materiali usati ma anche a causa del mancato rispetto da parte dei trasportatori dei limiti di peso per la percorrenza. Il tutto richiede controlli efficaci anche da parte delle forze dell’ordine e la possibilità di eseguire analisi puntuali.
Come evidenziano alcuni studi, la presenza di aflatossine anche in un medesimo sacco può variare tra una manciata e l’altra di cereali e, pertanto, soltanto un sistema efficiente di analisi con protocolli standard può assicurare delle certificazioni affidabili (fonte The Conversation dell’11 marzo 2021), proprio quello che sembra mancare a molti paesi africani. Come nel caso degli sciroppi per la tosse tossici che hanno causato la morte di numerosi bambini in Gambia, dove le difficoltà di individuarne le cause sono state in gran parte legate alla carenza di laboratori di analisi (vedi “Global Health, i limiti delle relazioni a senso unico: l’esempio di Africa e India” pubblicato su questa testata il 23 gennaio 2023); i paesi africani necessitano di tutte quelle strutture ancillari che consentono di eseguire controlli e agire tempestivamente.
Infrastrutture (non solo strade, ma anche magazzini), laboratori di analisi, protocolli standard di analisi e certificazione e buone pratiche di trasformazione, conservazione e trasporto sono le direttrici sulle quali insistere per assicurare, attraverso la sicurezza alimentare, lo sviluppo di molti paesi africani e liberarli dal dilemma di dovere scegliere tra un male immediato e certo e uno futuro e probabile.