È stata la recente cessione del Milan per 1,2 miliardi di euro (formalizzata il 31 agosto), da una nota società statunitense di private equity a un fondo privato di investimenti anch’esso statunitense, dopo una gara che aveva coinvolto anche Investcorp (il fondo del Bahrein divenuto celebre in Italia una trentina di anni fa per l’acquisizione di Gucci), ad attirare il nostro interesse – anche se non particolarmente tifosi – su un mondo che negli ultimi decenni sembra essersi allineato alle grandi tendenze in atto nell’economia e nella società, globalizzandosi (ma con alcuni recenti rilevanti contraccolpi) e finanziarizzandosi, e nel contempo adottando nuovi business model per sfruttare al meglio la passione dei tifosi e le potenzialità delle infrastrutture.
Calcio e finanza
Una cessione – quella del Milan – con una forte plusvalenza per Elliott Management, il fondo attivista venditore facente capo alla famiglia Singer (55,7 miliardi di dollari in gestione), resa anche possibile dalla concessione di un rilevante vendor loan a RedBirds, il fondo acquirente fondato da Gerry Cardinale che ha al suo interno una sezione specializzata negli investimenti in società sportive e che con il coinvolgimento di investitori per l’acquisizione del Milan accrescerà gli oltre 6 miliardi di dollari attualmente in gestione. Una operazione che potrebbe non limitarsi a un semplice cambio di proprietà, per l’affiancamento a RedBirds – con una quota diretta di minoranza nel Milan – di YGE-Yankee Global Enterprises, la società controllata dalla famiglia Steinbrenner che è proprietaria dei New York Yankees (la squadra di baseball che come si vede dalla Tab.2 è seconda al mondo per valore fra tutte le squadre sportive) e (insieme con RedBirds) della rete sportiva regionale più seguita negli US.
Ma la finanza, più specificamente il fondo statunitense Sixth Street Partners (60 miliardi di dollari in gestione), è intervenuta anche in operazioni riguardanti le due società di calcio di maggior valore al mondo (5,1 miliardi di dollari ciascuna secondo la più recente classificazione di Forbes) – Real Madrid e Barcelona – ove, non potendo acquisire quote azionarie delle società (che ambedue per statuto sono di proprietà dei loro soci e che a differenza del Milan non possono essere vendute), ha acquisito diritti sulle loro future fonti di reddito per un arco temporale lungo.
Nel caso del Real Madrid (360 milioni di euro la cifra pagata) è stata creata una joint-venture di durata ventennale per lo sfruttamento dei grandi eventi (concerti, etc.) che lo stadio – in fase finale di ristrutturazione (con la possibilità di una sua ricopertura integrale) – sarà in grado di ospitare: una joint-venture che coinvolge per il suo apporto di competenze Legend, probabilmente la principale società statunitense nell’organizzazione di eventi che sfruttino gli stadi sportivi (nella fattispecie football americano e baseball), anch’essa controllata da Sixth Street. Nel caso del Barcelona, invece, Sixth Street ha acquisito, per 200 milioni di euro, il 10% dei diritti media per i prossimi 25 anni. È interessante notare come queste due operazioni abbiano fatto seguito a un accordo (fortemente contestato da RealMadrid e Barcelona) fra la LaLiga, la lega calcio spagnola, e il fondo CVC (125 miliardi di dollari in gestione), in cui quest’ultimo ha pagato quasi 2 miliardi di euro per una quota dell’8 per cento di una costituenda joint-venture avente come asset principali i diritti media dei prossimi 50 anni delle due prime serie di calcio spagnole: quota che CVC non terrà per più di 10 anni.
I big data nel calcio, un nuovo fenomeno da sfruttare e regolare
L’internazionalizzazione della proprietà delle squadre di calcio europee
Nel frattempo, nel mese di maggio si chiudeva un’era, quella del possesso (dal 2003) del Chelsea – una delle principali squadre della Premier League inglese e ottava al mondo per valore fra le squadre di calcio – da parte di Roman Abramovich: l’oligarca russo, accreditato di una ricchezza personale di 15 miliardi di dollari, colpito dalle sanzioni conseguenti all’attacco russo all’Ucraina. Parliamo di era perché Abramovich è stato per quasi un ventennio il personaggio probabilmente più in vista di una tendenza sviluppatasi in parallelo con la globalizzazione, quella dell’acquisto di squadre di calcio europee – direttamente o attraverso fondi da loro controllati – da parte di personaggi di altre aree del mondo: per ragioni di status (il possesso di un team visto come una sorta di obbligo come quello di uno yacht di grandissime dimensioni), per desiderio di visibilità su scala internazionale (soprattutto per i ricchi emergenti russi, arabi, cinesi e del sud-est asiatico) o anche (più tipico per gli statunitensi) come oggetto di sfruttamento economico.
Se si scorre la lista delle società calcistiche di maggior valore pubblicata da Forbes (Tab. 1), si vede che sono passate in mani non europee:
- due delle prime cinque società della lista: il Manchester United, acquisito nel 2005 da Malcom Glazer (magnate statunitense proprietario anche nel football americano dei Tampa Bay Buccaneers) e ora di proprietà degli eredi, e il Liverpool, acquisito nel 2010 dal Fenway Sports Group (gruppo statunitense controllato al 40 per cento dal finanziere John W. Henry, che possiede anche la squadra di baseball Boston Red Sox);
- tre delle seconde cinque: il Manchester City, acquisito nel 2008 da Sheikh Mansour bin Zayed Al Nahyan della famiglia reale di Abu Dhabi; il Paris Saint-Germain, acquisito nel 2011 dall’emiro del Qatar attraverso Qatar Sports Investments; il Chelsea, dal 2003 come detto la squadra di Abramovich, ora passata in mani statunitensi;
- tre delle terze cinque: l’Arsenal, del miliardario statunitense Enos Stanley Kroenke, che possiede una molteplicità di squadre operanti in sport diversi (tra cui quella dei Los Angeles Rams, football americano, che lo ha reso più famoso); il Milan, discusso in precedenza, passato dalla Fininvest di Berlusconi al cinese Li Yonghong nel 2017 e da questo a Elliott nel 2018 per l’impossibilità di rimborso del debito contratto; l’Inter, passato da Massimo Moratti al magnate indonesiano Thohir nel 2013 e da questo al gruppo cinese Suning nel 2016, oggetto di frequenti voci di nuovi passaggi di proprietà;
- tre (ma a breve potrebbero diventare quattro) delle quarte cinque: l’Everton, di Alisher B. Usmanov (uno dei più ricchi oligarchi russi), formalmente del suo braccio destro Farhad Moshiri; il Leicester City, del tailandese Vichai Srivaddhanaprabha; l’Aston Villa, di una società dell’egiziano Nassef Sawiris con lo statunitense Wes Eden, acquisito nel 2018 dal cinese Tony Xia che l’aveva a sua volta acquisito due anni prima; il Leeds United, infine, che potrebbe diventare proprietà della statunitense 49ers Enterprises – il braccio finanziario dei San Francisco 49ers (football americano) – che hanno una quota del 44 per cento e una opzione di acquisto per la parte restante.
Non solo calcio: le squadre sportive di maggior valore al mondo e i più ricchi fra i loro proprietari
Più della metà delle squadre calcistiche di maggior valore, tutte europee, sono quindi (riassumendo) in mani non europee. Una domanda lecita è: accade lo stesso per le grandi squadre statunitensi, operanti nel football americano, nel baseball, nel basket, nell’hockey su ghiaccio e più marginalmente anche nel calcio? La risposta è no. Le squadre statunitensi occupano i primi cinque posti nella classifica mondiale (Tab. 2) delle società sportive di Forbes – davanti a Real Madrid e Barcelona – ma sembra che i magnati e gli investitori del resto del mondo abbiano timore di entrare nel loro azionariato e di affrontare i loro tifosi. Uno dei pochi casi di cui abbiamo trovato traccia è l’acquisto nel 2018, da parte del miliardario taiwanese-canadese Joe Tsai (cofondatore di Alibaba) del 49 per cento del Brooklyn Nets (basket), che al momento era però già in mani estere (russe nella fattispecie).
E una seconda domanda: i possessori di squadre sportive più ricchi al mondo (sei statunitensi, due europei, un indiano e un giapponese secondo la classifica ancora di Forbes riportata in Tab. 3) preferiscono squadre dei loro Paesi, come era un tempo anche in Italia, o preferiscono acquistare squadre estere? Gli statunitensi più ricchi non sono fra quelli (molti) che acquistano squadre europee di calcio: a partire da Steve Ballmer, CEO di Microsoft dal 2000 al 2014 e ora accreditato di un patrimonio superiore ai 90 miliardi di dollari, che – non appena lasciata la sua carica – si comprò i Los Angeles Clippers (basket). E l’indiano Mukesh Ambani, accreditato di un patrimonio analogo, è il proprietario dei Mumbai Indians, la squadra di maggior successo nel cricket, lo sport più amato dagli indiani. Così come il giapponese Masayoshi Son, fondatore di SoftBank e famoso per i suoi investimenti in ambito tecnologico, ha scelto il baseball (uno sport diventato molto popolare in Giappone dopo la Seconda guerra mondiale) per creare la sua squadra Fukuoka SoftBank Hawks. Unica eccezione forse è quella dell’austriaco Dietrich Mateschitz, cofondatore della Red Bull (di cui possiede il 49 per cento), che – data anche la dimensione limitata del suo Paese – ha scelto di investire in squadre di calcio in Germania e negli US, ma che soprattutto continua a cogliere grandi successi in Formula 1.
L’internazionalizzazione della proprietà delle squadre di calcio italiane
È stata la Roma, nel 2011, la prima fra le grandi squadre italiane a passare in mani estere, nella fattispecie statunitensi. Con un cambio della guardia nel 2020 e l’arrivo di un altro uomo d’affari statunitense, Dan Friedkin, accreditato da Forbes di un patrimonio di 4,21 miliardi di euro. Hanno fatto seguito (come visto) l’Inter nel 2013, con la decisione di Massimo Moratti (figlio del mitico Angelo che aveva presieduto la squadra fra il 1955 e il 1968) di vendere la squadra che aveva ricomprato nel 1995, e il Milan nel 2017, con l’uscita di scena di Silvio Berlusconi che aveva acquistato la squadra nel 1986. È del 2019 la cessione della Fiorentina – per 17 anni posseduta da Diego Della Valle (Tod’s) – all’imprenditore italo-americano Rocco Commisso, proprietario negli US di una TV via cavo e di una squadra di calcio, accreditato di un patrimonio personale di 5,97 miliardi di euro. Precedente, risale al 2014, la cessione del Bologna a un gruppo di investitori nord-americani capitanati dall’imprenditore canadese Joey Saputo (4,7 miliardi di euro) e viceversa recentissima la cessione della quota di maggioranza dell’Atalanta dalla famiglia Percassi (1,37 miliardi di euro) a un gruppo di investitori legati al famoso fondo Bain Capital. Spezia è la settima e ultima delle venti squadre di serie A in mano estere, mentre curiosamente è una squadra di serie B, il Como, ad avere dal 2019 i proprietari di gran lunga più ricchi: i fratelli indonesiani Robert e Michael Hartono, che hanno iniziato la loro fortuna con uno dei marchi di sigarette più famoso in Asia, accreditati di un patrimonio di 44,54 miliardi di euro.
Perché tante uscite di imprenditori italiani dal calcio? Presumibilmente perché le squadre possono costare anche molto, sotto la pressione dei tifosi che vogliono i giocatori migliori, se non vincono abbastanza o se non sono comunque in grado di garantirsi fonti di entrata adeguate. Famoso il caso del Manchester United, visto in precedenza, dove – nonostante i successi – i tifosi vorrebbero a tutti i costi liberarsi della famiglia proprietaria (Glazers Out era l’enorme scritta che appariva in una foto dello stadio riportata di recente dal Financial Times) accusata di aver prelevato oltre un miliardo di sterline in termini netti a partire dal leveraged buyout del 2005; mentre Diego Della Valle, ad esempio, dichiara di avere investito quasi 300 milioni di euro nella Fiorentina, solo in parte recuperati con la vendita.
Quali sono gli imprenditori italiani più noti (anche se non sempre più ricchi) rimasti in sella, oltre a Berlusconi che dopo la vendita del Milan si è comprato il Monza? Facciamo solo qualche nome per la serie A: la famiglia Elkann-Agnelli, il cui sodalizio con la Juventus dura ormai da 99 anni; la famiglia Squinzi (3,82 miliardi di euro), al Sassuolo; Urbano Cairo al Torino; Aurelio De Laurentiis al Napoli; Giovanni Arvedi alla Cremonese; Claudio Lotito alla Lazio. E in serie C Renzo Rosso (3,43 miliardi di euro) al Vicenza.
La pandemia ha messo a nudo i profondi cambiamenti nei business model delle società sportive
Un dato riportato di recente da The Guardian (di fonte Statista) può dare un’idea di come siano cresciute le società sportive negli ultimi vent’anni. Le 32 squadre del football americano (lo sport di maggior successo nel Paese), che avevano un incasso complessivo di circa 4 miliardi di dollari nel 2001, hanno superato la soglia dei 18 miliardi nel 2021 e puntano ai 25 per il 2027. E il contratto, sottoscritto lo scorso anno e che si estende sino al 2033, con una serie di protagonisti del broadcasting e dello streaming – CBS, Fox, NBC, ESPN and Amazon Prime – vale 113 miliardi di dollari. E Amazon in particolare si sta battendo anche nei principali Paesi europei (UK in primo luogo) per poter rendere disponibili via Prime gli incontri della Champions League e qualificarsi sempre più come una importante emettente sportiva.
I diritti media, per il broadcasting e lo streaming, non rappresentano l’unica voce enormemente cresciuta in questi anni. A essi si affianca la voce che nella Tab. 4 abbiamo indicato come commercial, e che comprende le sponsorizzazioni, il merchandising, lo sfruttamento degli stadi per altri utilizzi (come visto nel caso del Real Madrid) e le operazioni commerciali in genere. Nei ricavi complessivi appare poi la voce più tradizionale, i cosiddetti matchday (revenues), ovvero l’insieme delle entrate connesse con la presenza fisica dei tifosi nei giorni degli incontri (non solo i biglietti ma anche le spese in cibo e merchandising).
Perché la pandemia ha messo in luce i cambiamenti profondi nei business model e nella composizione dei flussi in entrata? Perché i ricavi da matchday sono stati nel 2021 (come nel 2020) prossimi allo zero, mentre nel 2019 essi si aggiravano attorno al 20 per cento del totale: le squadre cioè sono riuscite a sopravvivere per la presenza o addirittura la crescita delle altre due voci. Particolarmente interessante il caso del Manchester City, che – nonostante un crollo del 98 per cento delle entrate da matchday – è riuscita nel 2021, attraverso l’acquisizione di nuove sponsorship e il consolidamento delle tradizionali, a incrementare i ricavi complessivi rispetto al 2019, portandosi al primo posto nella classifica e risultando (Tab. 5) una delle quattro fra le grandi società a zero debiti.
Ben diversa la storia di altre squadre: le prime tre nel 2019 – nell’ordine Barcelona, Real Madrid e Manchester United – hanno visto scendere i loro ricavi complessivi rispettivamente del 30, 15 e 22 per cento. Sono numeri che ben giustificano l’entrata in campo della finanza, come visto per le due spagnole all’inizio di questo articolo.
Conclusioni
È un’esperienza, quella di questi anni, che lascerà a nostro avviso il segno: spingendo le grandi squadre a porre su piani non troppo dissimili la bravura di giocatori e allenatori e la bravura e innovatività dei manager (sempre più professionali) che verranno chiamati a gestire le società. Ed è molto probabile che il divario fra le grandi squadre e le altre sia destinato ad allargarsi, anche se potrebbe verificarsi un fenomeno ben noto al mondo digitale: l’emergere di startup che cerchino di conquistarsi spazi con business model nuovi, sfruttando le risorse di una finanza sempre alla ricerca di nuove occasioni.