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Chip, la Cina sfida l’Occidente col “Big Fund” fase 3: ma è vera minaccia?



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Il governo cinese ha avviato la terza fase del “Big Fund” con 48 miliardi di dollari per potenziare la produzione interna di microchip. Tuttavia, nonostante gli investimenti, la Cina ancora fatica a produrre chip avanzati, lasciando l’Occidente relativamente tranquillo. Vediamo i dettagli e le implicazioni di questa iniziativa cinese

Pubblicato il 14 giu 2024

Marco Santarelli

Chairman of the Research Committee IC2 Lab – Intelligence and Complexity Adjunct Professor Security by Design Expert in Network Analysis and Intelligence Chair Critical Infrastructures Conference



chip stm

All’avvio da parte del governo cinese della terza fase del “Big Fund”, la produzione di microchip cinesi potrebbe non rappresentare ancora un motivo di preoccupazione per l’Occidente. Vediamo perché.

Chip, la fase 3 del Big Fund: obiettivo l’autosufficienza nella produzione

La corsa alla produzione di microchip per dominare la scena tecnologica mondiale vede ormai da tempo scontrarsi le principali ptenzeeconomiche globali, Cina e Stati Uniti in primis.

Proprio il governo cinese ha lanciato, da quanto è emerso il mese scorso, la terza fase del fondo di investimento denominato China Integrated Circuit Industry Investment Fund o Big Fund, destinato all’industria nazionale dei semiconduttori. Si tratta di una dotazione di 48 miliardi di dollari per espandere la produzione interna dei microprocessori, che nel caso della prima fase, istituita nel 2014, aveva a disposizione circa 19 miliardi di dollari e nella seconda fase, o “Big Fund II”, del 2019, circa 30 miliardi di dollari.

Non siamo molto distanti dagli importi elargiti dagli Stati Uniti, 53 miliardi di dollari, e dall’Unione Europa, 49 miliardi di dollari, destinati allo stesso scopo.

L’obiettivo di questo fondo è di permettere alla Cina di arrivare all’autosufficienza nella produzione dei semiconduttori, campo in cui il Paese già domina da tempo, ancora, però, fermo alla vecchia generazione di chip e senza le skill adatte a progettare e realizzare chip di tipo avanzato, che, per esempio, così come nel caso dei processori di Nvidia, azienda di processori per l’intelligenza artificiale, alimentino le applicazioni di AI.

Se con le due prime fasi del finanziamento erano state finanziate le due principali società produttrici di microchip, SMIC e Hua Hong, Yangtze Memory Technologies, forte nella produzione delle memorie flash, e altre aziende minori, con la terza fase si mira a supportare i macchinari di produzione di chip e creare un circuito di aziende di componentistica attorno al colosso Huawei.

Partecipano al fondo il Ministero delle Finanze cinese con il 17%, la China Development Bank Capital con il 10,5%, le amministrazioni locali di Pechino e Shenzhen e 5 banche cinesi tra le più quotate, tutte con il 6%, ossia la Industrial and Commercial Bank of China, la China Construction Bank, la Agricultural Bank of China, la Bank of China e la Bank of Communications.

I divieti ai microchip cinesi

La produzione cinese di microchip negli ultimi anni è stata presa di mira dall’Occidente per frenarne la crescita. Già nel 2022, secondo Nvidia, gli Stati Uniti avevano limitato le esportazioni in Cina di chip avanzati e strumenti per produrli per controllare le esportazioni dei chip verso il Medio Oriente e, allo stesso tempo, i chip di memoria di Micron erano stati esclusi da alcuni progetti infrastrutturali.

Nel caso dei produttori americani di strumenti per la produzione di chip, ad avvertire nel 2022 di una riduzione delle vendite di 2 miliardi di dollari nel 2023, circa il 10% del fatturato, erano state lam Research e Applied Materials, che, però, hanno potuto continuare a vendere apparecchiature dedicate alla produzione di semiconduttori meno avanzati alla Cina, compensando in questo modo le perdite.

Per questo motivo, come riportato dalla società di analisi New Street Research, tra il 2019 e il 2023 sono aumentati di quattro volte gli acquisti cinesi di questi strumenti. Secondo il Wall Street Journal, gli Stati Uniti hanno limitato l’accesso cinese al cloud computing americano, con conseguenze che non colpirebbero solo Apple, ma anche le altre grandi aziende tecnologiche USA, come Alphabet, Amazon, Microsoft. La quota di Huawei nelle vendite nazionali di smartphone è cresciuta dal 7% al 13% nell’anno fino al secondo trimestre del 2023, secondo la società di ricerca Idc. Anche Huawei trae vantaggio dagli sforzi di Smic per innovare in base ai controlli americani.

Le preoccupazioni (forse) infondate dell’Occidente

I vari divieti hanno portato le aziende cinesi a non poter produrre microprocessori all’avanguardia, con i transistor che misurano pochi nanometri e alimentano i modelli più recenti di AI. Quelli che sono riusciti a realizzare sono comunque microchip avanzati, dotati di transistor di decine di nanometri, che si utilizzano per ogni cosa, dai televisori ai termostati e dai frigoriferi alle automobili. Le aziende produttrici di semiconduttori cinesi sono diventate tra le più forti nel settore e la quota di capacità totale della Cina passerà dal 31% nel 2023 al 39% nel 2027, secondo uno studio di TrendForce.

L’Occidente ha subito la pressione dell’andamento positivo della produzione di microchip cinesi e lo scorso aprile il segretario del commercio americano, Gina Raimondo, ha avvertito che le “massicce sovvenzioni” della Cina alla loro produzione potrebbero portare a una “enorme distorsione del mercato”.

America e UE hanno avviato delle verifiche per valutare l’effetto dell’accumulo di legacy chip, componenti di vecchia generazione ma ancora molto diffusi, da parte della Cina sulle infrastrutture critiche e sulla sicurezza della catena di approvvigionamento. Secondo Jan-Peter Kleinhans del think-tank tedesco SNV, la maggior parte della nuova produzione cinese sarà interna e per sé stessa.

Nel 2018 SMIC e Hua Hong Semiconductor hanno generato quasi il 40% delle loro entrate da clienti stranieri, mentre lo scorso anno la percentuale era scesa al 20%. Allo stesso tempo, la produzione complessiva delle fonderie cinesi è aumentata, riflettendo la robusta domanda interna.

Inoltre, se i microchip cinesi, in particolare quelli più complicati, come i microcontrollori e i processori analogici, sono superiori in quanto a design, ingegneria e affidabilità rispetto a quelli stranieri, dopo aver raddoppiato la quota di mercato nazionale fino a circa il 12% tra il 2019 e il 2021, non sono riusciti a fare ulteriori passi avanti e potrebbero fornire solo il 14% del mercato nazionale entro il 2026, lasciando quindi campo aperto agli occidentali Analog Devices, Texas Instruments e Nxp.

Si aggiunge anche la questione relativa i costi, che le aziende affermate riescono ad ammortizzare, dato che utilizzano le stesse attrezzature per molto tempo, mentre per le aziende cinesi, che stanno puntando a nuove capacità produttive, rappresenteranno grandi investimenti per diversi anni. Per questo, probabilmente il Big Fund non sarà l’ultimo che il governo rilascerà.

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