mercato semiconduttori

Chip, la rincorsa Ue è destinata a fallire? Ecco i problemi

I 43 miliardi di euro messi sul piatto dalla UE per aumentare la produzione di chip e Usa, non basteranno a colmare il grandissimo divario con Asia e Usa. Pesa l’assenza di una fonderia e i tre giganti del settore non sembrano interessati ad aumentare il loro impegno nel continente

Pubblicato il 17 Feb 2023

Carolina Polito

Ph.D. Candidate LUISS Guido Carli

chip stm

Quello dei microprocessori, nonostante l’attuale revisione al ribasso delle stime dei ricavi, rimane un mercato di fondamentale importanza per il futuro. La domanda a questo punto rimane se il nuovo Chips Act dell’Unione Europea sia una mossa sufficiente per sostenere la sfida posta da questo mercato in espansione. Come proveremo a spiegare, le evidenze sembrano suggerire il contrario.

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La strategia europea per recuperare il distacco nella produzione di chip

Nel settembre 2021, durante la lettera di intenti sullo stato dell’Unione al presidente del Parlamento europeo, Ursula von der Leyen e Maroš Šefčovič hanno annunciato che l’European Chip Act sarebbe stato tra le nuove iniziative chiave della Commissione europea per il 2022. L’obiettivo dell’atto è quello di regolamentare meglio il mercato dei semiconduttori al fine di aumentare la produzione di chip, la maggior parte dei quali sono oggi importati dall’Asia e dagli Stati Uniti.

I membri del Parlamento europeo hanno ora dato l’ok al Chips Act e al Chips Joint Undertaking, due tasselli fondamentali della strategia Europea per una filiera dei semiconduttori più indipendente. Il peso europeo nella capacità produttiva globale di semiconduttori è inferiore al 10%. Con queste due iniziative si mira a portarla al 20% entro la fine del decennio. Con un investimento previsto di 43 miliardi di euro, lo European Chips Act è forse tra i piani più ambiziosi della strategia industriale europea. Una precedente strategia in materia, rimasta tuttavia terribilmente disattesa, era già stata promulgata nel 2013 quando la Commissione si era preposta di aumentare la produzione di microchip del 20%. Nonostante questi precedenti, il massiccio piano di investimenti messo in atto, nonché la drammatica situazione geopolitica in cui versa il mercato dei chip potrebbero infondere credibilità a questo nuovo atto.

La tiepida risposta ai tentativi di convincere i big del chip a investire in Europa

Oltre che all’ancora grandissimo divario tra gli investimenti europei e americani nel settore – che non questi 43 miliardi non riusciranno a risanare – la maggiore criticità con la quale si deve confrontare l’Unione al momento è l’assenza di una fonderia in grado di produrre i chip necessari al fabbisogno europeo. Per più di un anno, Breton ha spinto uno dei tre grandi produttori dell’industria dei semiconduttori – TSMC, Samsung e Intel – a creare uno stabilimento per la produzione di chip di ultima generazione (fino a cinque nanometri e meno) su suolo europeo.

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La TSMC è l’azienda più grande tra le tre. Il gigante taiwanese è l’attore dominante nel business della produzione di chip di ultima generazione utilizzati, tra gli altri, nei prodotti Apple, Qualcomm e Nvidia di ultima generazione. La TSMC non ha fatto tuttavia ancora alcun annuncio per investimenti in Europa. Allo stesso modo, Samsung si è mostrata quantomeno “tiepida” all’idea di investire in un mega stabilimento in Europa.

Intel dal canto suo si è mostrata, almeno a parole. più disponibile. Il CEO Pat Gelsinger ha puntato sulla sua personale conoscenza di Breton nell’ assicurarsi il sostegno alla creazione di una nuova mega fonderia in Europa. Nonostante l’azienda abbia dichiarato che sta considerando “un aumento significativo della propria impronta in Europa” gli ultimi avvenimenti sembrano segnalare tutt’altra direzione. Intel ha infatti di recente mostrato la sua intenzione di investire circa un miliardo di dollari in Vietnam, dove la compagnia statunitense aveva già avviato un progetto da 1.5 miliardi per un progetto di collaudo e confezionamento di chip. La notizia, combinata con gli investimenti da oltre sette miliardi di Intel in Malaysia, sembra testimoniare, in un momento di profondo ripensamento delle catene del valore mondiale del mercato dei semiconduttori, la centralità del sud-est asiatico come nuovo polo produttivo per l’azienda. In questo quadro si inseriscono i tentennamenti rispetto agli annunciati investimenti in Europa.

E’ di inizio febbraio la notizia, pubblicata dal quotidiano tedesco Handelsblatt, secondo il quale il colosso americano avrebbe chiesto alle autorità tedesche uno stanziamento di almeno 10 miliardi di euro di sussidi pubblici per la costruzione della prevista fabbrica di semiconduttori a Magdeburgo. I fondi approvati ammonterebbero al momento a soli 6,8 miliardi.

Una simile sorte sta toccando all’Italia dove sarebbe previsto un investimento di 4,5 miliardi per uno stabilimento per il confezionamento dei chip – ultimo anello della produzione – a Vigasio, in Veneto. Il decorso delle negoziazioni in Germania non lascia infatti ben sperare per le sorti dell’accordo in italiano.

Tali esitazioni di Intel ad investire in Europa non sembrano dovute solo all’aumento dei prezzi delle materie prime e al caro energia, ma anche, secondo alcuni commentatori, alle mutate condizioni di politica economica negli Stati Uniti e a fronte in particolar modo del Inflaction Reduction Act che si pone come obbiettivo proprio di stimolare gli investimenti in suolo americano piuttosto che altrove.

Il tutto si inserisce in un contesto in cui, seppure con aspettative ottimistiche, i ricavi attesi nel mercato dei chip sembrano al ribasso a causa di una (plausibilmente momentanea) sovrapproduzione del bene. Dopo mesi e mesi di carenza di chip nel mercato mondiale, ora sembra essersi verificato un repentino cambio di rotta. L’aumento del costo della vita e la diminuzione del potere d’acquisto dei consumatori ha infatti imposto un freno sull’acquisto di beni di consumo quali TV e computer.

Poste queste oscillazioni del mercato, la produzione dei chip non è tuttavia destinata a stagnare nel lungo termine. E, come abbiamo visto, la risposta della UE non sembra adeguata a rispondere a una sfida così complessa.

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