Le notizie sulle nuove strette del Dipartimento del Commercio Usa per i prodotti esportati in Cina continuano a rincorrersi anche nelle ultime settimane.
Le nuove regole impattano in particolar modo il mercato dei chip, richiedendo ai produttori come i giganti statunitensi Nvidia e AMD, per i quali i divieti erano arrivati già ad inizio settembre, di avere una licenza del Dipartimento di Commercio per esportare semiconduttori e apparecchiature necessarie alla loro produzione verso Pechino.
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L’obbiettivo dell’amministrazione americana è chiaramente quello di rallentare la corsa di Pechino verso la supremazia tecnologica, riducendo al contempo la vulnerabilità americana dal mercato cinese. In questo senso si inseriscono anche le iniziative da ambo le sponde del Pacifico volte a internalizzare la catena del valore dei semiconduttori, in altre parole volte a rafforzare la produzione interna.
In questo scenario si inserisce anche il ruolo, centrale, di Taiwan: al centro del contendere tra Usa e Cina, ma anche perno di quell’equilibrio che aiuta a mantenere la pace tra le due potenze.
Ma andiamo per gradi.
Chip: l’ondata di restrizioni Usa verso la Cina
I divieti si susseguono per quanto riguarda le esportazioni di chip costruiti con tecnologia statunitense ed in particolar modo per quanto riguarda le esportazioni di chip da utilizzare nei sistemi di supercalcolo cinesi, sistemi da oltre 100 petaFLOPS in grado di compiere più di 100 trilioni di operazioni al secondo.
Secondo la dirigente del Dipartimento del Commercio Statunitense, la Cina ha promosso i sistemi di supercalcolo come strategia per diventare leader nel settore dell’intelligenza artificiale, e sta investendo in queste tecnologie per incrementare le sue capacità militari e di sorveglianza.
Un’altra ondata di restrizioni era arrivata poi ad agosto ed aveva riguardato, tra le altre cose, gli Electronic Design Automation (EDA) software, ormai indispensabili per il design dei chip ultramoderni. Le prime tre società nella produzione di queste componenti — Cadence (americana), Synopsys (americana) e Mentor Graphics (americana ma acquisita dalla società tedesca Siemens nel 2017) — controllano circa il 70% del mercato globale dell’EDA. Il loro predominio è così forte che molte startup EDA si specializzano in un uso di nicchia e poi si vendono a una di queste tre società, cementando ulteriormente l’oligopolio. L’impatto che possono avere delle restrizioni su queste componenti è quindi oltremodo notevole. Il blocco implica che le aziende cinesi di chip non saranno in grado di accedere agli strumenti software più avanzati e, con il passare del tempo, potrebbero rimanere indietro nella corsa tecnologica. Tuttavia, bloccare l’esportazione di un software è molto diverso che bloccare l’esportazione di una componente hardware, impossibile da contrabbandare perché tracciabile. Essendo distribuiti online, gli strumenti software EDA possono infatti essere piratati.
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L’impatto delle restrizioni sulle aziende Usa
Molte sono le analisi e le dichiarazioni, anche delle stesse compagnie americane, sull’impatto che il susseguirsi di queste restrizioni inevitabilmente avrà sul mercato USA. Già a settembre, Nvidia affermava che le misure sarebbero costate all’azienda più di 400 milioni in vendite, senza considerare gli effetti del crollo in borsa, che nei giorni immediatamente successivi all’annuncio aveva visto un crollo delle azioni dell’azienda del -11%. A questi numeri devono aggiungersi le conseguenze delle nuove strette varate dal Dipartimento del Commercio, non solo per Nvidia, ma per un numero esorbitante di aziende che utilizzano componenti statunitensi.
Le misure Usa per rafforzare la produzione interna di chip
Quanto alle iniziative volte a internalizzare la catena del valore, è di agosto la decisione dell’amministrazione Biden, per esempio, di approvare il Chips and Science Act, misura da 280 miliardi di dollari e che prevede 52 miliardi di sussidi per incoraggiare le aziende che scelgono di costruire impianti di produzione dei chip su suolo americano.
Oltre a un numero di aziende americane quali, ad esempio, Micron Technology o Intel, ad approfittare del clima statunitense era già stata nel 2020 la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, annunciando l’intenzione di costruire una fabbrica per semiconduttori dal valore di 12 miliardi di dollari in Arizona.
Taiwan insieme a Giappone e Corea del Sud ha anche siglato quest’anno la così detta Chip4Alliance (Alleanza per i chip), una partnership con l’alleato statunitense vista dalla Cina come un tentativo ancora più sfacciato di escludere la Repubblica Popolare dalla catena del valore mondiale dei semiconduttori.
La dipendenza di Usa e Cina da Taiwan che aiuta a mantenere la pace
Taiwan potrebbe però non beneficiare così tanto da un totale affrancamento statunitense dal mercato cinese. Come suggeriscono Mozur e Zhong in un’analisi pubblicata per il New York Times, la rete di dipendenze che lega sia gli Stati Uniti che la Cina alla taiwanese TSMC aiuta a mantenere la pace. “La dipendenza della Cina da TSMC e da altre società di chip taiwanesi dissuade il Partito Comunista dall’invasione dell’isola. La dipendenza degli Stati Uniti dallo stesso know-how conferisce ulteriore credibilità al suo sostegno militare a Taiwan. In caso di scontro militare, l’importanza di Taiwan per le forniture globali di chip significa anche che il danno per tutte le parti – e per l’infrastruttura digitale del resto del mondo – è enormemente amplificato. Non per niente le persone a Taiwan chiamano la TSMC la loro “montagna sacra, protettrice della nazione”.
Nel frattempo, però, la più recente tecnologia prodotta dalla “montagna sacra” taiwanese verrà utilizzata da Apple per alimentare la prossima generazione di iPhone. Il processore mobile A17, attualmente allo sviluppo nei laboratori di Cupertino, verrà prodotto in massa con la tecnologia N3E di TSMC, disponibile dalla seconda metà del 2023.
Conclusioni
Le relazioni di Taiwan con Washinton sembrano inspessirsi quindi sempre di più. Quanto a questa rotta verso gli Stati Uniti, c’è da augurarsi che non sia troppo rovinosa e che Taiwan riesca nella miracolosa impresa di utilizzare la propria posizione al centro della catena mondiale del valore come arma a suo vantaggio. D’altronde tutte le parti in causa dovrebbero riconoscere come un’invasione di Taiwan significherebbe una specie di distruzione reciproca assicurata, non nella forma di un olocausto nucleare, come si prospettava ai tempi della guerra fredda (e ogni tanto ancora si paventa), ma certamente di distruzione della modernità per come l’abbiamo imparata a conoscere.