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“Chips Act” è una svolta: senza guida pubblica non c’è politica industriale

In un mondo con colossi industriali che hanno il fatturato pari al PIL di un paese industrializzato, la presenza dello Stato nell’economia è indispensabile per sostenere interventi a lungo termine sull’innovazione. Anche la Ue lo ha capito e per questo, stavolta, il Chips Act potrebbe funzionare

Pubblicato il 10 Mar 2022

Paolino Madotto

manager esperto di innovazione, blogger e autore del podcast Radio Innovazione

Photo by Jason Leung on Unsplash

Dopo diversi tentativi andati, evidentemente, a vuoto, la UE ci riprova e vara il cosiddetto “Chips Act” che dovrebbe portarci a non dover dipendere dai produttori del Sud Est asiatico. Ma cosa ci dice che qualcosa è cambiato? Come mai la precedente iniziativa, risalente a 9 anni fa, non ha funzionato?

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Correva l’anno 2013…

Era il 23 marzo 2013 quando l’allora Commissaria Ue per l’agenda digitale Neelie Kroes affermava “Voglio raddoppiare la nostra produzione di chip a circa il 20% della produzione globale. Voglio che l’Europa produca più chip in Europa di quanti ne producano gli Stati Uniti a livello nazionale. È un obiettivo realistico se canalizziamo correttamente i nostri investimenti”, per poi aggiungere: “Con questa strategia l’industria europea sarà in una posizione migliore per convertire le innovazioni ingegneristiche in tecnologie distribuibili commercialmente”.

La strategia avrebbe dovuto portare i seguenti risultati:

  • Maggiore disponibilità di micro e nanoelettronica per le industrie chiave in Europa.
  • Una catena di approvvigionamento e un ecosistema ampliati, aumentando le opportunità per le PMI.
  • Maggiori investimenti nella produzione avanzata.
  • Stimolare l’innovazione lungo la catena di approvvigionamento per aumentare la competitività industriale dell’Europa.”

Cosa è cambiato col Chips Act?

In realtà la nuova iniziativa messa in campo aggiunge una importante novità. Ora la Commissione Europea sembra aver superato il tabù dell’intervento di stato e, come hanno fatto le “tigri” asiatiche, interviene direttamente a sostegno della produzione in loco. Il tabù dell’interventismo statale viene superato, anche se non viene detto a voce alta.

La pandemia ha messo alla luce che non si può dipendere da altri paesi: i vaccini hanno dimostrato la debolezza dell’Ue. Gli USA hanno bloccato per un lungo tempo l’esportazione dei vaccini anticovid e i paesi europei hanno faticato per farsi inviare i lotti che avevano opzionato. Lo stesso problema è accaduto con la Gran Bretagna per quanto riguarda AstraZeneca.

A fine 2021 la ormai ex-cancelliera Angela Merkel aveva detto che «una produzione competitiva di chips è impossibile senza sussidi statali». In una nota diplomatica trasmessa ai suoi partner, il governo federale ha anche proposto di andare oltre le norme ordinarie e di usare l’articolo 107 dei Trattati, che permette aiuti pubblici se «destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività». Sempre la Germania ha proposto inoltre di creare un “Fondo sovrano strategico dedicato ai semiconduttori europei”.

Senza l’intervento pubblico non si fanno politiche industriali (lo sanno bene Francia e Germania)

Dunque, la novità nel Chips Act non è la volontà di aumentare la produzione di chip nel vecchio continente ma il fatto che la UE si è resa conto che non si fa una politica industriale senza superare la normativa sulla concorrenza che per decenni ha limitato gli aiuti di stato e l’intervento pubblico.

Gli interventi pubblici che in Italia sono stati demoliti a colpi di privatizzazioni finite abbastanza male, mentre in Francia e in Germania si sono mimetizzati attraverso interventi che hanno eluso le norme europee e hanno mantenuto intatta la struttura industriale. La principale casa automobilistica tedesca, la Volkswagen, ha tra gli azionisti i langer tedeschi e gode di sostegni più o meno espliciti che ne hanno garantito la capacità di fare investimenti e innovazione. Così come altre aziende tedesche tra quelle più innovative e avanzate.

In Francia la presenza dello stato è elevatissima, nell’industria automobilistica è presente nei CdA delle principali industrie, nei cantieri navali, nell’industria delle armi e in quella aerospaziale. Ovunque ci sono aziende che rappresentano la punta del sistema industriale è presente lo stato con un ruolo direttivo e di stratega di lungo termine.

È proprio il ruolo dello stato che consente di mettere a terra una politica industriale di lungo termine, nessun privato può permettersi investimenti e piani a lungo termine.

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L’approccio Usa e asiatico

Ma l’intervento statale non è meno presente nell’economia USA dove lo stato agisce sia attraverso le politiche della FED (per esempio comprando azioni sul mercato o lanciando programmi di finanziamento focalizzati sui settori più innovativi) sia attraverso il comparto militare-industriale che è il vero motore dell’innovazione tecnologica statunitense. Il declino del tasso di innovazione e la presenza massiccia sui mercati internazionali della tecnologica cinese sono potuti accadere proprio perché da qualche decennio gli USA hanno ridotto l’intervento statale per lasciarli al libero mercato, ma questo il più delle volte non ragiona con in testa gli equilibri geopolitici, le necessità dei prossimi decenni e le esigenze del sistema industriale nel suo complesso ma solo con gli interessi dettati dalle trimestrali in borsa, e non può essere altrimenti.

Politiche Industriali a guida pubblica sono anche il motore più importante dello sviluppo delle “tigri asiatiche” che negli ultimi decenni hanno scalato le classifiche in innovazione tecnologica, capacità industriale e di esportazione a danno dell’Europa.

La Cina ne ha fatto il pilastro del suo “balzo in avanti” sulla frontiera tecnologica. Appena una decina di anni fa “cinese” era sinonimo di un prodotto di bassa qualità e bassa tecnologia, oggi è leader nell’intelligenza artificiale e molta della tecnologia che utilizziamo viene dal paese del dragone. Questo sviluppo tecnologico ha anche permesso di aumentare i salari e il benessere della popolazione che non è ai nostri livelli e non vive in una democrazia libera ma indubbiamente ha fatto passi in avanti.

L’Italia esempio di come non fare politica industriale

Da ultimo il caso italiano dovrebbe essere preso come caso di scuola su come non fare politica industriale. Negli ultimi decenni abbiamo perso posizioni in ogni settore industriale, il più delle volte le nostre migliori aziende sono state acquisite da colossi esteri che hanno buttato ciò che non serviva e portato all’estero brevetti e tecnologie migliori lasciando in Italia il vuoto.

La lista dei casi sarebbe troppo lunga per essere riportata in un solo articolo. Basta vedere cosa è diventata TIM, la vendita dell’Ansaldo STS alla Hitachi, un’azienda leader mondiale nei sistemi tecnologici ferroviari liquidata da un’azienda pubblica verso una impresa estera. Il caso Autostrade che ha scoperchiato le mancate manutenzioni a fronte di costi sempre più elevati e che oggi è riportata nella sfera pubblica. Ma ci sarebbe da parlare della Selenia Spazio e di altre aziende del settore aerospaziale dove vantiamo una notevole leadership che sono state passate in tutto o in parte ad imprese estere. Sempre più spesso il governo ha dovuto provare ad utilizzare il golden power sulle imprese strategiche per evitare delocalizzazioni o altri problemi di questo tipo. Dove sono rimaste aziende di stato come Leonardo, ENI, ENEL si è mantenuta una competitività internazionale, si è dato lavoro nell’indotto fatto di PMI e si sono effettuati investimenti a medio lungo termine. L’obiezione prevalente è che nelle aziende pubbliche interviene il malcostume politico, questo è un male italiano ma l’evidenza empirica ci dimostra che ha un effetto limitato visto che sono le aziende più capaci di competere nel mercato mondiale. È una malattia che va curata ma non implica la necessità di uccidere i pazienti.

La pandemia detonatore di una nuova certezza: non si può dipendere da industrie estere

La pandemia, dicevamo, è forse stato il detonatore principale che ha fatto esplodere il problema di non dipendere da industrie e tecnologie estere. Il tema non è l’autarchia ma assumere l’urgenza di intervenire per avere un sistema industriale in grado di rispondere alle crisi, di sostenere i comparti industriali ad essa collegati. Come stiamo vedendo in questi mesi l’industria automobilistica è bloccata dall’impossibilità di evadere gli ordini per mancanza di chip, mentre tuti ci ricordiamo la mancanza di mascherine o di respiratori durante la crisi più acuta della pandemia.

Chips Act: la presenza nello Stato nell’economia essenziale per l’innovazione

Il Chips Act si basa su interventi economici importanti, non al pari di altri paesi competitor internazionali ma rilevanti per le dimensioni europee; di un piano a medio-lungo termine; di linee strategiche chiare e, la vera novità, del potere della UE di poter intervenire direttamente bloccando le esportazioni e guidando ciò che accade nel comparto. Speriamo che il Chips Act possa essere messo nelle condizioni di essere realizzato e che si rivedano le norme più restrittive all’intervento pubblico.

La presenza dello Stato nell’economia è inevitabile in un mondo con colossi industriali che hanno il fatturato pari al PIL di un paese industrializzato, ed è inevitabile per sostenere interventi a lungo termine sull’innovazione. Nessuna azienda privata può permettersi la ricerca di base (che infatti per lo più è pubblica) ma spesso non può nemmeno permettersi di ingegnerizzare i prodotti ed innovarli continuamente. Gli azionisti privati non hanno (e non sarebbe giusto attribuirglielo) il compito e responsabilità di guardare in modo strategico a lungo termine, spesso trovano più conveniente costruire posizioni di vantaggio, lock-in verso i clienti, fare attività di lobbying che producano legislazioni compiacenti e così via.

Nella storia le nazioni che hanno saputo giocare un ruolo lo hanno fatto grazie all’iniziativa dello stato. La capacità migliore di Venezia non è stata il commercio ma l’Arsenale che gli ha consentito di dominare i mari grazie ad una tecnologia più avanzata degli altri ad esempio. I Romani grazie alla abilità idrauliche e di costruzioni. Tecnologie governate a livello statale dove poi si sono innescati i privati e l’intera società. Solo due esempi ma ce ne sarebbero decine.

I prossimi anni ci chiamano a ricostruire il nostro sistema industriale e a farlo puntando sulle tecnologie più innovative, siano esse l’Intelligenza Artificiale, le Scienze della vita o l’ICT. È tempo di abbandonare i tabù che hanno limitato i paesi europei, che li hanno frenati nell’acquisire un ruolo internazionale e di mettere in atto le capacità che hanno dimostrato di avere nei decenni passati. Questo va a tutto beneficio dello sviluppo del mercato che può trarre grandi risultati da una visione a medio lungo termine, politiche coordinate, aziende leader che trainano l’indotto e lo stimolino a sua volta ad innovare e ad iniziative che mirino ad utilizzare al pieno le capacità scientifiche, le abilità ingegneristiche e le capacità manageriali. Speriamo che il Chips Act non sia solo un timido raggio di sole ma uno stormo di rondini che anticipa la primavera.

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