È stata Meta-Facebook il 2 febbraio ad “aprire le danze”, quando – nonostante gli oltre dieci miliardi di dollari di utile netto realizzati nell’ultimo trimestre 2021 – ha visto la sua capitalizzazione crollare di ben 232 miliardi in meno di ventiquattro ore (il giorno prima ne valeva circa 900) a seguito dell’annuncio che stava perdendo utenti a favore di Tik Tok, soprattutto nella fascia dei più giovani.
Il crollo di Facebook anticipa il “declino” delle Big Tech? Tutti i motivi per crederlo
I crolli dei giorni scorsi
In realtà, su scala un po’ minore, già nei giorni precedenti si erano verificati diversi crolli, a fronte di annunci di cadute, come nel caso di PayPal, o anche solo di rischi di future cadute, come nel caso delle “regine dello streaming” Netflix e Spotify. Si era salvata al momento Amazon, la principale indiziata (fra le big five) insieme a Meta di una possibile caduta, sotto l’impatto dell’aumento dei prezzi delle materie prime e del costo del personale (per la crescita a quasi un milione e mezzo del numero degli addetti e gli aumenti salariali), presentando risultati superiori rispetto ai timori degli analisti.
Il crollo di Amazon
E Amazon è stata viceversa l’impresa che nei giorni scorsi ha subito la maggiore caduta di valore in termini assoluti, dopo le presentazioni dei risultati del primo trimestre 2022: alla chiusura del mercato il 22 aprile valeva 1.470 miliardi di dollari (già molto meno dei 1.860 toccati cinque mesi prima), mentre alla chiusura del 29 aprile la sua capitalizzazione era scesa di oltre duecento miliardi a quota 1.260. Da che cosa era rimasto colpito negativamente il mercato, sempre più nervoso e volatile e sempre più simile – nelle recenti parole di Warren Buffett – a un gambling parlor?
Non solo dai problemi della logistica e dall’aumento dei suoi costi e di quello del lavoro, ma anche – e credo soprattutto – dal rallentamento dell’ecommerce in concomitanza con il miglioramento sul fronte della pandemia e dalle crescite inferiori alle attese nel digital advertising (ove anche il leader Alphabet-Google ha subito una contrazione della crescita) e nel cloud computing (ove Amazon mantiene comunque saldamente la leadership).
La caduta di Neflix
Una caduta, quella di Amazon, che era stata preceduta qualche giorno prima da quella – percentualmente molto più rilevante – di Netflix: a cavallo fra ottobre e novembre 2021 Netflix, forte dei suoi 220 milioni di abbonati nel mondo, aveva superato la soglia dei 300 miliardi di dollari; alla vigilia della presentazione del 19 aprile ne valeva poco più della metà (157), penalizzata per non essere riuscita nell’ultimo trimestre 2021 ad accrescere il numero di abbonati come il mercato si aspettava; alla chiusura del 29 aprile il suo valore si era quasi ulteriormente dimezzato – 84,6 miliardi – dopo aver annunciato una perdita di 200mila abbonati nel primo trimestre e una aspettativa di perdita di altri 2 milioni nel secondo, sotto il triplice impatto del minor interesse per lo streaming nel post-lockdown, del minor potere di acquisto a causa dell’inflazione e dell’entrata in campo – con tariffe più convenienti per rubare quote di mercato – di nuovi agguerriti concorrenti (quale in primo luogo Disney).
Anche Alphabet-Google ha problemi
Ma anche Alphabet-Google è stata punita dalla Borsa – meno 180 miliardi in una settimana (da 1.690 a 1.510) – per aver aumentato “solamente” del 23 per cento (su base annua) i suoi ricavi nel digital advertising e per aver evidenziato il rischio di un calo delle spese in advertising delle imprese, in connessione con la crescita dell’inflazione e dei suoi possibili riflessi sui consumi.
Apple non gioisce troppo
E persino Apple è stata punita – meno 150 miliardi (da 2.720 a 2.570) – nonostante i risultati superiori a ogni aspettativa del primo trimestre 2022, dopo aver evidenziato il rischio di una perdita fra i 4 e gli 8 miliardi di ricavi nel trimestre in corso, soprattutto per le difficoltà nella gestione delle supply chain (che sinora ha saputo gestire in modo brillante).
I problemi del Nasdaq
Complessivamente il Nasdaq ha presentato la più elevata caduta mensile dalla grande crisi finanziaria del 2008 – meno 13,3 per cento e meno 21 dall’inizio dell’anno – contribuendo a trascinare verso il basso il più ampio indice S&P 500 (meno 8,8 e meno 13 rispettivamente). Un po’ minori le perdite del Dow Jones Industrial Average (meno 4,9 e meno 9), anch’esso estremamente volatile e con un profilo temporale (come si può vedere dalla Figura) molto simile.
Fonte WSJ
I motivi della crisi delle tech company
Perché una caduta così forte?
- Una prima spiegazione è che le enormi risorse messe in campo dalle banche centrali per proteggere l’economia e più in generale la società dall’impatto della pandemia e dei lockdown avevano “drogato” la Borsa e che l’attesa di politiche monetarie molto più restrittive – in risposta alla crescita dell’inflazione – sta “sgonfiando” la bolla che in una certa misura si era venuta a creare.
- Una seconda spiegazione, fortemente intrecciata con la prima, guarda ai riflessi della guerra in corso, dopo l’attacco della Russia all’Ucraina iniziato il 24 febbraio, e della serie crescente di sanzioni (dolorose anche per le proprie economie) poste in atto come risposta dai Paesi occidentali.
- Guarda anche ai riflessi della strategia “zero Covid” cinese, che ha comportato un durissimo lockdown per Shanghai, di gran lungo il principale porto del mondo per merci movimentate, creando nuovi problemi per le supply chain già fortemente sotto stress e rendendo più problematico il raggiungimento da parte della Cina dell’obiettivo di crescita del 5,5% fissato per quest’anno; guarda alle carenze nell’offerta di microprocessori, che continuano ad affliggere la produzione di auto, e non solo; guarda all’impatto dell’inflazione, che non dà per il momento cenni di arrestarsi (negli Stati Uniti è all’8,5%) e potrebbe crescere a seguito di nuove sanzioni su petrolio e gas naturale, non solo sulle scelte delle banche centrali ma anche sulle perdite di potere di acquisto e sui consumi.
Ma c’è una domanda che molti si pongono, più in linea con gli interessi della rivista che sta pubblicando questo articolo: siamo di fronte a una crisi di carattere generale, che impatta più pesantemente sulle imprese tech perché il valore loro attribuito comprendeva un forte premio per la crescita, o siamo di fronte – per ragioni strutturali esaltate da una congiuntura particolarmente negativa – alla fine di un’era, che ha visto il comparto tech crescere ininterrottamente, spesso generando disruption negli altri comparti dell’economia?
Un tris di articoli
- “An Unsteady Moment for Tech”, sosteneva la nota columnist Shira Ovide nella sua rubrica sul New York Times il 28 aprile scorso (a conclusione delle presentazioni delle prime trimestrali del 2022 delle imprese tech), osservando come l’ultimo decennio fosse stato una sorta di party continuo per il mondo tech e chiedendosi però se non si fosse in presenza di un punto di svolta e quale potesse essere il futuro.
- E il giorno dopo il Financial Times, in un articolo intitolato “Growth stock stars of pandemic tumble into bear market”, rincarava la dose: riportando nel sottotitolo la convinzione dei CEO dei principali hedge fund che le condizioni di mercato del passato decennio – quelle che avevano favorito la crescita incessante delle imprese tech – fossero tramontate per sempre.
- Meno propenso alla tesi generalizzata della “fine di un’era” Richard Waters (capo del team di giornalisti del Financial Times che segue la Silicon Valley), che in suo articolo a duplice firma di due giorni dopo – “Big Tech trims its sails as it braces for a bruising quarter: IT spending is strong but headwinds from inflation, supply chains and Ukraine war cast a chill over Silicon Valley” – notava come molte imprese tech, a dispetto dei forti timori della vigilia, avessero presentato risultati notevolmente solidi e come per esse fossero le incertezze di origine politica e macroeconomica la maggiore incognita sulla dinamica nei trimestri (o addirittura anni) successivi.
In conclusione
Voglio aggiungere, in chiusura, tre osservazioni.
La prima è che a mio avviso in futuro avrà sempre meno senso parlare di un comparto tech. Perché da un lato le tecnologie digitali sono entrate negli ambiti più diversi e il successo delle imprese che le portano avanti dipende in misura non piccola da fattori non tecnologici: la logistica è ad esempio sempre più rilevante nell’ecommerce e la capacità di gestire le fake news è la chiave di volta per lo sviluppo di larga parte del digital advertising.
Perché dall’altro si fa sempre più sfumato, in molti ambiti, il confine fra imprese tech e non tech: esemplare il caso (che amo citare sempre) di Visa e Mastercard, che – a dispetto della loro immagine finanziaria – sono incluse nell’ambito dello S&P500 fra le imprese IT, alle spalle di Apple e Microsoft, per la rilevanza della infrastruttura tecnologica che possono mettere a disposizione delle loro diverse categorie di clienti.
La seconda osservazione riguarda l’incognita “regolamentazione”.
La Cina ha mostrato negli ultimi due anni come si possano mettere in ginocchio con pochi provvedimenti regolamentari imprese – quali in primo luogo Alibaba e Tencent – fra le principali del mondo: anche se il “costo” per l’economia e l’occupazione può risultare, come si sta verificando in Cina, tutt’altro che irrilevante. L’UE sta mettendo a punto una legislazione almeno in apparenza molto dura nei riguardi delle big tech e altrettanto sembravano fare gli Stati Uniti: anche se il crescente confronto con la Cina – esaltato dalle vicende belliche recenti – potrebbe portare in questi ultimi a misure molto meno drastiche di quelle promesse all’inizio della presidenza Biden.
L’ultima osservazione riguarda i rischi di una progressiva deglobalizzazione, con l’emergere di due macroaree con al loro centro Stati Uniti e Cina.
Le conseguenze potrebbero essere anche molto pesanti, e alcune di esse già si vedono: perché, al di là delle perdite di fette di mercato importanti soprattutto per Apple e Microsoft, le filiere – dalle materie prime, alla componentistica, al manufacturing e al software – sono tuttora fortemente intrallacciate.
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L’eccezione Microsoft: un bilancio senza preoccupazioni
In questo quadro, se c’è un attore che è riuscito a evitare tutte le minacce – sul fronte supply chain, regole privacy e antitrust – è Microsoft. Il valore e l’utile di Microsoft sono aumentati lo scorso trimestre; la domanda per i suoi servizi cloud e software ha continuato a salire con il passaggio al lavoro a distanza innescato dalla pandemia.
Per il trimestre fino a marzo, la società di Redmond, Washington, ha annunciato che le sue entrate sono aumentate del 18% rispetto a un anno prima, a 49,4 miliardi di dollari, mentre l’utile netto è aumentato dell’8% a 16,7 miliardi di dollari. Gli analisti interpellati da FactSet avevano previsto che avrebbe riportato un fatturato di circa 49 miliardi di dollari e un utile netto di circa 16 miliardi di dollari per il trimestre.
Nella pandemia, Microsoft e altre aziende di software per le imprese hanno sperimentato prezzi delle azioni e vendite in forte espansione, dato che le organizzazioni di tutto il mondo hanno usato più strumenti digitali per aiutare il lavoro a distanza. Questo ha sostenuto la domanda per le applicazioni d’ufficio di Microsoft così come i suoi servizi di infrastruttura cloud.
Microsoft rimane il secondo più grande fornitore di cloud-infrastruttura dietro Amazon.com, ma l’azienda ha guadagnato quote di mercato utilizzando la sua leadership nelle applicazioni per ufficio come leva per afferrare grandi accordi per il suo cloud Azure. Aveva quasi il 20% del mercato nel 2020, secondo la società di ricerca Gartner, ben dietro il 40% di Amazon Web Services, ma in forte salita rispetto al 7% nel 2016.
Il business complessivo della nuvola dell’azienda è aumentato del 32% con 23,4 miliardi di dollari di vendite, mentre il suo rivale del servizio di infrastruttura cloud di Amazon è cresciuto del 46%.
Analisti e investitori sono stati alla ricerca di segni che la domanda si sta raffreddando. Le azioni del software sono scivolate quest’anno, con Microsoft giù di circa il 20%, in linea con il Nasdaq Composite Index.
I risultati sono stati in gran parte in linea con le aspettative. C’erano preoccupazioni che un rallentamento potrebbe essere all’orizzonte dopo che i precedenti guadagni trimestrali sono stati riportati a gennaio, perché la crescita del servizio cloud di Microsoft Azure per quel trimestre non era stata così forte come previsto. La crescita sembra essere di nuovo in pista ora, hanno detto gli analisti, mostrando che le aziende continuano a spendere per i servizi cloud.
Microsoft sta mostrando pochi segni di rallentamento nonostante la guerra in Ucraina, l’inflazione e altri fattori che hanno danneggiato la crescita in molti settori. L’azienda si aspetta che le sue vendite per il trimestre in corso siano tra 52,4 e 53,2 miliardi di dollari. Gli analisti si aspettavano un fatturato di circa 52,8 miliardi di dollari per il trimestre, secondo FactSet.
Il fronte regolamentare
Microsoft ha avuto un anno impegnativo. A gennaio, ha annunciato la sua più grande acquisizione di sempre con la sua offerta di 75 miliardi di dollari per Activision Blizzard Inc, sviluppatore di franchise di videogiochi popolari come Call of Duty, World of Warcraft e Candy Crush. L’accordo dovrebbe rafforzare il servizio di abbonamento Game Pass di Microsoft, che offre una libreria di giochi per un canone mensile.
Il ramo dei videogiochi ha generato quasi il 10% delle entrate di Microsoft nel 2021. L’azienda sta cercando di costruirlo in un altro core business, utilizzando la sua infrastruttura cloud per prendere il comando in un settore emergente del cloud-gaming.
Microsoft non si aspetta che l’affare Activision, in fase di revisione da parte della Federal Trade Commission degli Stati Uniti, si chiuda fino al prossimo anno. La nuova presidente Lina Khan ha preso provvedimenti per aumentare il controllo degli accordi. Se si chiuderà, Microsoft ha detto che diventerà la terza più grande compagnia di gioco per vendite, con 30 studi di gioco sotto la sua gestione.
Microsoft è stata la prima big tech a passare dalle forche caudine della regolamentazione e ora è una di quelle che è vista più di buon occhio dai regolatori di tutto il mondo. Un’acquisizione come quella di Activision non sarebbe stata nemmeno tentata, in questo clima, da Meta e da Google ad esempio.
La spinta di Microsoft sul mercato delle nuvole tuttavia è stata oggetto di critiche in Europa, dove i rivali hanno presentato denunce antitrust. La scorsa estate, la società francese OVHcloud ne ha presentato uno sui termini di licenza che dicono che rendono i prodotti Microsoft più costosi da usare su nuvole non-Microsoft.
Un portavoce di Microsoft ha detto in risposta alla denuncia che sta continuamente valutando come può lavorare meglio con i partner.
Redazione