Valutazioni delle startup: nel dibattito all’interno dell’ecosistema startup Italia, le posizioni si dividono tra chi le considera troppo basse rispetto a quelle europee e chi troppo alte rispetto all’economia reale. E se il dibattito si spostasse sui contratti di investimento, vera nota dolente del venture capital in Italia?
Contratti di investimento: quando diventano un doppio cappio al collo
Nella mia carriera imprenditoriale credo di avere visto ogni genere di contratto. E qualche volta ho sottoscritto contratti con i quali ho perso il controllo della società per un pugno di dollari. Anzi di euro.
Il contratto di investimento è l’insieme delle norme che disciplinano l’ingresso all’interno di una società di un socio finanziario o industriale. Con il quale vengono spesso riscritte le regole di governance della stessa società.
Circa due anni fa, all’inizio della mia ultima avventura imprenditoriale, siamo stati avvicinati da un fondo di Venture Capital, operante tra l’altro nel settore dell’impact investing. Un settore che almeno teoricamente dovrebbe avere cura non solo del ritorno di investimento ma anche della qualità e dei valori associati ad un business. Tutto vero. L’interesse c’era per il nostro business legato al turismo sostenibile. Ma il contratto era un doppio cappio al collo per noi imprenditori.
In ordine sparso, il contratto di investimento a fronte di un investimento di 100.000 euro includeva: nomina di due amministratori su cinque, diritto di veto su business plan che si fossero discostati da quello iniziale, liquidation preference (ovvero in caso di vendita prima viene risarcito l’investitore e poi gli altri), stipendio bloccato per gli amministratori anche dopo un’eventuale exit, diritto di recesso in caso di non raggiungimento degli obiettivi, diritto di svendere la società dopo 5 anni anche ad una valutazione molto bassa per poter rientrare anche parzialmente dell’investimento.
Dopo un interminabile negoziazione, il deal è saltato. Alla fine, abbiamo rinunciato al denaro per avere la possibilità di sperimentare sul business plan. Mai decisione si rivelò cosi corretta, visto che poi abbiamo cambiato modello di business perché il primo non ha funzionato.
In molti contesti, in particolare quello degli acceleratori e degli incubatori di startup, il principale elemento di valutazione delle startup è l’accettazione del contratto di investimento che generalmente è rigido e prevede: il classico membro in Cda, la liquidation preference, una clausola anti-diluizione, la possibilità di trascinare gli altri soci verso una vendita ritenuta vantaggiosa e altre clausole tecniche che determinano uno sbilanciamento molto importante tra imprenditore e socio investitore.
Anche perché nel caso degli investitori early stage (appunto business angels, acceleratori, incubatori) i soldi sono pochi, finiscono molto velocemente, ma il contratto resta. E dopo un anno dalla firma del contratto ci si ritrova spesso un socio non più attivo, che non reinveste e che gode dei privilegi ottenuti in momento di sbilanciamento negoziale (tipicamente: l’imprenditore con l’acqua alla gola senza alternative)
Cosa fare per rendere i contratti più equi
Come si esce da questa empasse? Apparentemente non in modo facile. In un contesto come quello italiano, gli interlocutori in grado di iniettare capitale in una startup sono in tutto qualche decina, e se si classificano per fase di investimento (preseed, seed, round A, round B) e per tipologia di investimento (digital, fashion, etc), diventano 3-4 potenziali per ogni stadio di crescita di una startup.
Il disequilibrio tra domanda (startup) e offerta (investitori) è quindi completamente sbilanciato. Questo comporta che, anche se il prezzo non si alza (anzi la valutazione della società si abbassa), tuttavia aumentano le clausole parasociali dei contratti di investimento.
Si dovrebbero probabilmente definire degli standard contrattuali per fase di investimento. E a questo potrebbero lavorare associazioni e soggetti che si occupano di promuovere l’intero ecosistema come Italian Tech Alliance, che ha tra i propri soci sia soggetti investitori che soggetti imprenditori (le startup) e che si occupa proprio di favorire la crescita di settore.
Idealmente, andrebbero identificate delle linee guida e individuati dei paletti etici rispetto a clausole mortificanti come il recesso (risarcimento del capitale in caso di non raggiungimento obiettivi) e pratiche commerciali aggressive come il cashback, che molti investitori impongono in cambio di essere “lead investor” ovvero investitori rilevanti e riconosciuti che aiutano come “brand” a reclutare altri investitori (spesso business angels) e che molto spesso, essendo soggetti istituzionali, permettono poi alle startup di partecipare a bandi e/o finanziamenti di cassa depositi prestiti e altri finanziamenti istituzionali. Nella mia esperienza imprenditoriale, questo è solo raramente un vantaggio.
Molti investitori investono piccole cifre e svolgendo un ruolo di lead investor riescono a ottenere condizioni estremamente favorevoli in termini di clausole parasociali e contratto di investimento. Lasciando perdere gli elementi psicologici della negoziazione con investitori, dove l’imprenditore si trova sempre dalla parte sbagliata del coltello, come suggerisce Gabriele Grecchi nel bel libro “Capitali di Ventura”, l’imprenditore negozia un contratto di investimento 3-4 volte nella propria vita, mentre un investitore lo fa 3-4 volte nella propria giornata e spesso ha già dei template di contratto costruiti a proprio vantaggio e perfezionati nel corso del tempo. La non esperienza dell’imprenditore sui contratti di investimento è un grande vantaggio per l’investitore che può costruire una contrattualistica basandosi sull’asimmetria informativa.