I passaggi finali del lungo iter legislativo della Direttiva sui Diritti d’autore e il mercato unico digitale (Direttiva DSM) sono esemplificativi di alcune difficoltà obiettive che qualsiasi legislatore deve affrontare quando si appresta a regolare, oggi per il domani, le dinamiche economiche innestate dall’evoluzione tecnologica.
La prima difficoltà è nella gestione del tempo: un processo democratico è inevitabilmente più lento del progresso tecnologico, il che richiede una maggiore capacità di astrazione nella formazione delle leggi, che devono resistere alla prova del futuro. L’accusa alla politica sull’incapacità di essere concreta va forse rovesciata: spesso non è abbastanza astratta. I tempi si allungano con le leggi nazionali derivanti da Direttive europee: la Direttiva DSM nasce sulla base di studi di impatto condotti nel 2016 e si conclude nei singoli paesi dopo cinque anni: un tempo in cui le tecnologie hanno avuto modo di trasformarsi più volte.
Direttiva Copyright, il diritto connesso degli editori di giornali: punto sui lavori
La seconda difficoltà attiene alla necessità di aggiungere competenze tecnologiche alle tradizionali competenze giuridiche ed economiche necessarie per ben regolare i mercati.
Infine, nella legislazione europea c’è anche un problema di linguaggio, sia perché a Bruxelles le norme sono discusse in inglese e devono poi calarsi nelle lingue nazionali, sia perché il linguaggio tecnico si modifica con un ritmo simile a quello delle tecnologie che descrive.
Le eccezioni sulle applicazioni di intelligenza artificiale di cui nessuno si occupa
La combinazione di barriera linguistica e innovazione delle tecnologie e quindi del linguaggio per descriverle è il punto da cui partire per raccontare cosa è accaduto nel luglio del 2021 al decreto di attuazione della direttiva DSM in Italia nelle parti che riguardano il text and data mining.
L’espressione, tipica degli anni della prima redazione della Direttiva, è stata correttamente tradotta in italiano come “estrazione di testo e di dati”, senza tuttavia rendere la connotazione del termine mining che, in questo contesto, è da intendersi come estrazione di valore da “miniere” di informazioni. Nel frattempo, lo stesso gergo inglese si è evoluto così che l’espressione è comprensibile oggi solo a chi se ne occupa professionalmente. Il suo significato, in termini più attuali, è nascosto nelle premesse che parlano (al considerando 8) di “analisi computazionale automatizzata delle informazioni in formato digitale, quali testi, suoni, immagini o dati”. Detto altrimenti: le eccezioni riguardano l’intelligenza artificiale, un tema centrale nell’agenda politica europea. Se i titoli degli articoli 3 e 4 della Direttiva avessero parlato di “eccezioni per facilitare le applicazioni di intelligenza artificiale”, probabilmente non sarebbero passate così sotto silenzio, e sarebbe stato più difficile cadere negli equivoci dell’ultima versione dello schema di decreto all’attenzione del parlamento italiano.
La ratio della Direttiva si capisce solo in questa chiave. Le due eccezioni al diritto d’autore (una per scopi di ricerca scientifica, la seconda per gli altri casi) sono disegnate per rispondere a questa finalità. Prevedono infatti la possibilità di realizzare una copia delle opere solo per usi legati alle applicazioni di intelligenza artificiale, con garanzie di sicurezza sulle modalità con cui le copie sono conservate, così da evitare che se ne faccia un uso ulteriore. Le applicazioni di intelligenza artificiale si nutrono di informazioni, di cui sono anzi spesso bulimiche, e non sono solo ghiotte di testi e di dati, ma – come specificato nel considerando – anche di suoni e di immagini.
Se si fosse parlato di intelligenza artificiale nel testo della direttiva, non si sarebbe mai immaginato di associare alla possibilità di realizzare una copia da dare in pasto agli algoritmi, anche la “comunicazione al pubblico”, come è scritto, per quanto si faccia fatica a crederlo, nero su bianco nel decreto consegnato dal Governo all’esame del Parlamento. La previsione sembra davvero frutto di un equivoco: quando qui si parla di “estrazione” (mining) si intende qualcosa di diverso dall’uso dello stesso termine (extraction) nella Direttiva sulle banche dati, e può riferirsi a “estratti” di minor valore per cui un’eccezione di comunicazione al pubblico avrebbe avuto un possibile senso.
Le applicazioni qui regolate analizzano invece intere banche dati di riviste scientifiche, o annate di quotidiani, biblioteche di audiovisivi, immagini o brani musicali. È incomprensibile come si possa pensare di mettere questa mole di contenuti a libero accesso in Internet, come autorizzato dal decreto.
Partendo quindi da un equivoco linguistico e da una conoscenza limitata delle tecnologie, nasce un articolo di legge che viola la stessa Direttiva (che rigorosamente limita l’eccezione al diritto di riproduzione), e al contempo distruggerebbe interi settori industriali. L’errore, in questo caso, è così evidente che sarà certamente corretto, ma evidenzia bene i problemi che possono sorgere in processi legislativi complessi.
L’equa remunerazione di autori e artisti (interpreti o esecutori)
Non molto diversi i problemi generati dagli interventi dell’ultim’ora sul capitolo relativo alla “equa remunerazione di autori e artisti (interpreti o esecutori)”. Si tratta di un insieme di norme sacrosante, ben bilanciate in Direttiva, frutto di un dibattito molto ampio in sede europea. Anche in questo caso, tuttavia, il decreto del Governo presenta problemi che sembrano nascere da una limitata conoscenza dell’evoluzione dei prodotti culturali, in particolare nel mondo librario, associata ad equivoci linguistici nel passaggio dall’inglese all’italiano.
Il titolo in italiano dell’articolo 18 della Direttiva traduce la “appropriate and proportionate” remunerazione in una “equa e proporzionata”, il che ha dirottato la discussione nel nostro paese verso i casi di “equa remunerazione” (fair remuneration) fissati dalla legge. La Direttiva regola invece rapporti contrattuali, fissando dei vincoli, senza tuttavia derogare al “principio della libertà contrattuale”, espressamente ricordato. Lo spiega bene il considerando 73: proporzionato va inteso in relazione “al valore economico effettivo o potenziale dei diritti concessi in licenza o trasferiti, tenendo conto del contributo dell’autore o dell’artista (interprete o esecutore) all’opera”.
Il decreto del Governo aggiunge però un ulteriore aggettivo: la remunerazione deve essere anche “commisurata” ai ricavi. Poiché non specifica diversamente, sembra riferirsi a tutti gli autori e artisti. Qui riemerge il tema della difficoltà di comprendere le novità generate dal digitale. Si pensi a un testo scolastico: ci sono certo gli autori che compaiono in copertina e sono pagati in percentuali sulle vendite. Ma l’opera nasce con contributi di molti altri autori: traduttori, illustratori, autori degli apparati iconografici o didattici, resi dal digitale ancora più numerosi. Ai libri di testo sono oggi legate integrazioni online, software, dati, audiovisivi, immagini, musiche…
Da questa realtà deriva la previsione della Direttiva per cui “un pagamento forfettario può costituire una remunerazione proporzionata, ma non dovrebbe rappresentare la norma”, come del resto è già previsto, per l’editoria libraria, in una serie di casi definiti dalla legge. Si può convenire, quindi, che sia applicabile il principio secondo cui lex specialis derogat generali, giacché il contrario condurrebbe a situazioni assurde: come si può pagare a percentuale tutti gli autori quando questi siano centinaia per un singolo titolo? Tuttavia, la norma sembra disegnata per incentivare i contenziosi giudiziari, minando così le basi dei rapporti tra editori e autori, che sono un asset fondamentale, se non il principale, di ogni casa editrice.
A cascata, questa impostazione genera ulteriori norme semplicemente inapplicabili, a partire dalle modalità di rendicontazione delle vendite. Si rendono obbligatori rendiconti “almeno trimestrali”, sconosciuti nel resto del mondo, e si continua a non distinguere tra autori principali e secondari. Di particolare rilevanza è la richiesta che i rendiconti contengano “l’identità di tutti i soggetti interessati alle cessioni o licenze, ivi inclusi gli utilizzatori secondari di opere o esecuzioni”, il che è ragionevole nel mondo analogico, quando, ad esempio, l’editore cede il diritto di traduzione a un editore straniero: nel rendiconto ci sarà certo l’identità dell’editore e le vendite della traduzione. Ma una caratteristica precipua del digitale è la frammentazione delle sublicenze. Si pensi a un editore universitario che ceda i suoi diritti a più atenei e centri di formazione perché ne riproducano per gli studenti brevi estratti in digitale: secondo le ipotesi previste dal decreto non sarà più sufficiente riportare annualmente il totale dei ricavi di tali licenze ma dovrà trimestralmente inviare all’autore i ricavi suddivisi per ciascun cliente?
Si rischiano davvero situazioni ingestibili, con l’aggravante che sono introdotte sanzioni amministrative molto pesanti (fino all’1% del fatturato annuo) per il mancato adempimento dell’impossibile, sanzioni anch’esse assenti dalla Direttiva, e mai proposte in alcuna sede europea. In un mercato unico digitale viene da chiedersi se norme così irragionevoli non stimoleranno gli editori a spostare la propria sede legale in altri paesi dell’Unione, dove gli stessi articoli sono recepiti in modo più coerente al dettato e agli obiettivi della Direttiva.
Eccezioni e licenze digitali per scopi educativi
La Direttiva prevede anche un’eccezione al diritto d’autore a fini didattici: scuole e università potranno fare una copia digitale di parti di opera e postarle su un sistema ad accesso riservato agli studenti di un corso. Lo stesso articolo consente tuttavia agli stati membri di prevedere che tale eccezione ceda il passo ad offerte volontarie di licenze che coprano gli stessi utilizzi oppure l’introduzione di un sistema di equo compenso come avviene per le fotocopie fatte con le stesse finalità.
Anche qui parliamo di un tema di antica data. Era il 2013 quando la Commissione europea lanciò un dialogo strutturato con i portatori di interesse denominato Licences for Europe. A rileggerne a distanza di otto anni gli atti ci si rende conto come fossero quelli i primi passi di quella che sarebbe poi diventata la Direttiva DSM: si parlava di text and data mining, di licenze sul riutilizzo di opere nelle piattaforme web, di nuove prospettive per gli editori di giornali, del controllo delle informazioni sui diritti, di opere fuori commercio. Le conclusioni del convegno finale (14 novembre 2013) può riassumersi nel titolo della relazione di Eefke Smit: More tools than rules. Si potrebbe dire che la scelta della Direttiva – ancorché opzionale – risponde alla stessa logica: favorire lo sviluppo di strumenti digitali e licenze volontarie. La scelta apre spazi, sia perché consente il rilascio di licenze gratuite (es. Creative Commons) sia perché spinge le imprese a innovare nelle proprie offerte digitali.
Il testo del Decreto accoglie il criterio della prevalenza delle licenze – e non poteva essere altrimenti, perché richiesto dal Parlamento nella legge di delegazione – ma una modifica dell’ultim’ora ne riduce la portata a pochi casi: i “materiali destinati principalmente al mercato dell’istruzione” e gli “spartiti e partiture musicali”, senza prevedere alcuna remunerazione per le opere che non rientrano in questa definizione. Con effetti paradossali: sarebbero remunerate le vecchie fotocopie e non le nuove forme digitali, ma ciò spingerebbe fuori mercato anche le prime – più care e di minor valore.
Il punto chiave della differenza tra eccezioni e licenze è nella capacità evolutiva delle seconde, molto più idonee a superare le problematiche relative al tempo di cui si diceva in premessa. Un’eccezione fissa i termini di utilizzo, che devono essere descritti con precisione, in un dato istante – nel nostro caso cinque anni prima dell’entrata in vigore – e pretende che restino immutati nel tempo, fino all’approvazione di una nuova legge. In questo modo congela il mercato e fa attorno terra bruciata vanificando le possibili innovazioni, incluse quelle intervenute negli ultimi cinque anni.
Il tempo dello studio e del confronto
La Direttiva DSM ha avuto una lunga gestazione – i temi erano già al centro del dibattito all’inizio degli anni 10 – ed un tempo altrettanto lungo per arrivare a conclusione. L’AIE ha seguito l’intero percorso con attenzione e passione. È stato un viaggio fatto di studio e confronto, di battaglie per difendere le industrie culturali e ancora di studio, di riflessioni e di ricerca e sviluppo che hanno consentito di acquisire conoscenze tecnologiche, comprendere gli impatti economici e socio-culturali così da poter maneggiare con cura e rispetto le parole della legge, tra l’inglese e l’italiano.
Gli aspetti critici qui segnalati hanno un elemento in comune: sono tutti intervenuti nell’ultimo caldo mese di luglio 2021, dopo che una prima bozza del decreto era stato discussa in ogni dettaglio nel Comitato consultivo permanente sul diritto d’autore, nel confronto tra i diversi portatori di interesse e gli esperti del Ministero. L’amarezza che si può leggere tra queste righe è quella di chi vede a rischio il lavoro di un decennio, vanificato da interventi dell’ultim’ora, senza che vi sia stato alcun confronto che ne anticipasse il contenuto, ne spiegasse ratio e obiettivi, ne prevedesse gli impatti.