In questi ultimi anni la rete ha perso l’equilibrio.
Si fa fatica a distinguere cosa è vero e cosa è falso, guadagna di più chi produce contenuti scadenti che chi lo fa con professionalità e attenzione. È cambiato il modo di leggere, di sfogliare, di informarsi. Il diritto d’autore e la svalutazione della creatività, in particolare, ad oggi sono gli aspetti più danneggiati dal nuovo social-web. Qualcosa doveva cambiare: continuando così il web da grande opportunità di cultura stava diventando terreno fertile per l’ignoranza.
Questa riforma, con l’approvazione al Parlamento europeo della direttiva copyright (e ora in attesa dei negoziati con Consiglio e Commissione prima di diventare norma europea, per poi dover essere recepita in legge nazionale dai singoli Paesi), tenta di ristabilire gli equilibri, invitando gli stati membri a recepirla, riconoscendo alle pubblicazioni di carattere giornalistico i diritti di riproduzione e comunicazione al pubblico, così da ottenere un equo e proporzionato compenso per l’utilizzo delle loro pubblicazioni.
Aggregatori di news e necessità dell’equo compenso
La necessità dell’equo compenso (impropriamente denominato “link tax”) previsto dall’art.11 solo per gli utilizzi “commerciali” e non privati, nasce dalla analisi dei click, in calo per gli editori nonostante l’aumento spropositato del tasso di condivisione. Negli ultimi 10 anni, i siti di informazione di qualsiasi entità, hanno avuto la possibilità di iscriversi agli aggregatori di notizie, come Google News, Yahoo! News, Libero Pulse o Flipboard. Gli aggregatori citavano le notizie dei vari giornali, acquistando sempre più importanza, e in cambio veicolavano milioni di click ai giornali iscritti. Quando tali aggregatori hanno iniziato ad includere sempre più informazioni fino ad integrare il titolo della news, una foto e lo “snippet”, cioè un breve riassunto del contenuto, l’incantesimo si è rotto. I lettori, riuscivano a comprendere la notizia senza approfondirne l’intera versione nel giornale di provenienza, procurando così un guadagno solo per l’aggregatore.
Perché è sbagliato gridare al bavaglio
Parlare invece di bavaglio per l’art.13 è assolutamente improprio. La direttiva si ispira tacitamente a qualcosa che già esiste sul web da molto tempo: il sistema Content ID di Youtube. Si tratta cioè di un sistema di filtri che bloccano automaticamente la condivisione di ogni contenuto coperto da copyright. I video caricati sulla piattaforma vengono esaminati e confrontati con un database di file ricevuti dai proprietari dei contenuti. La direttiva chiede ai service provider di munirsi di un filtro simile. Del resto, testi, articoli e fotografie godono delle stesse tutele di musica e video.
La rete rispecchia la società. Anzi la società “è” la rete. Eppure, un gap c’è, tra il mondo reale ed internet. Il web è la raffigurazione virtuale di ogni ramo della società, eccetto che di uno: la legge. La legge è l’unico aspetto del mondo reale che non riesce a trasmigrare sul web.
La legge deve scendere in campo, senza spaventarsi delle paranoie che gridano al bavaglio. La legge è l’unico aspetto del mondo reale che non riesce a trasmigrare sul web. Ben vengano le norme, se equilibrate e proporzionate alle tecnologie del momento. Perché è giusto che l’informazione torni ai giornalisti, che le persone possano pensare di investire online nella massima sicurezza e soprattutto concretezza, che la nostra privacy non venga violata.
Nell’interesse della gente, nell’interesse dei semplici utenti, nell’interesse dei lavoratori e di chi vuole investire online.
Tanto è chiaro che se la normativa dovesse prevedere regole che mal si incastrano con la prassi del web, a vincere sarà sempre il web e mai la legge. Ed è giusto così.
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Direttiva Ue sul copyright, Scorza: “Minaccia alla libertà di espressione, ecco perché”