La fase di trasposizione della direttiva europea sul copyright in norma nazionale dovrà tenere conto di diverse problematiche e in particolare della vaghezza con cui sono formulate le norme fondamentali della riforma, in particolare quelle relative all’identificazione degli snippets e all’ambito di utilizzo dei filtri.
Ne consegue che l’opera di trasposizione della direttiva da parte del governo italiano potrebbe essere creativa, ben lontana dalla pedissequa riproduzione delle norme europee che normalmente accompagna l’implementazione delle direttive, dando luogo a scelte di policy discrezionali ed originali.
Ripercorriamo e analizziamo le criticità della direttiva.
L’iter di applicazione della direttiva
L’iter per l’effettiva applicazione della direttiva europea sul copyright, approvata dal Parlamento europeo lo scorso 26 marzo, è ancora lungo: dopo l’approvazione da parte del Consiglio (presumibilmente tra aprile e maggio) il testo dovrà essere pubblicato nella Gazzetta europea ed entrerà in forza dopo 20 giorni di vacatio legis. A quel punto scatterà un periodo massimo di 24 mesi per la trasposizione della direttiva in norme nazionali – in quanto queste ultime, e non la direttiva, si applicheranno ad imprese ed utenti.
Pertanto, l’applicabilità concreta delle norme in questione potrebbe farsi attendere fino alla metà del 2021.
Occorre aspettarsi velocità differenti nella trasposizione della direttiva nei vari Stati membri: i governi apertamente a favore (ad esempio: Francia, Germania e Spagna) si affretteranno ad emanare le norme nazionali di attuazione, mentre quelli scettici probabilmente prenderanno più tempo. Tra questi, oltre a Finlandia, Olanda e Polonia, c’è anche l’Italia.
Alcuni esponenti del governo italiano avevano ufficiosamente dichiarato che la direttiva non sarebbe stata trasposta in diritto italiano, ma è improbabile che ciò avvenga veramente, sia perché un tale inadempimento volontario comporterebbe delle conseguenze per l’Italia, sia perché una direttiva non trasposta può pur sempre essere applicata, in determinate circostanze, nei giudizi nazionali.
Com’è noto, la direttiva ha introdotto una serie di novità in tema di disciplina del copyright nella rete Internet, di cui le più eclatanti sono il diritto ancillare degli editori per l’utilizzo online di articoli o estratti degli stessi (la c.d. linktax, per quanto questa denominazione sia contestata), oltre ad un nuovo tipo di responsabilità delle piattaforme online di condivisione dei contenuti. Le modalità di trasposizione delle disposizioni relative in diritto italiano creeranno probabilmente un acceso dibattito nei prossimi mesi ed anni a venire.
Art. 15: il diritto ancillare degli editori
Occorre innanzitutto precisare che, diversamente da quanto riportato dalla maggioranza dei media, la norma ha applicazione generale e non prevede eccezioni verso le attività no-profit, enciclopediche e le PMI.
Si è fatta infatti confusione con le eccezioni previste dall’art. 2(6) ma riferite solo ed esclusivamente all’art. 17, relativo alle piattaforme online per la condivisione di contenuti. Al contrario, entità come Wikipedia e simili, startup e piccole imprese resteranno soggette all’art. 15 ed alla relative richieste economiche degli editori.
L’unica eccezione prevista dalla norma è quella per le persone fisiche, ma a condizioni che si tratti di attività private o non commerciali: eccezione di incerta applicazione però, visto che le condizioni generali di tutte le piattaforme social prevedono sempre un utilizzo commerciale del servizio da parte degli utenti, che possono infatti monetizzare la pubblicità online generata da contenuti proprietari o condivisi con un sistema di revenue sharing.
L’aspetto fondamentale del diritto ancillare di cui all’art. 15 sta nell’applicazione non solo agli articoli per intero, ma anche agli “snippet”, cioè semplici brevi estratti o persino a combinazioni di parole tratte dall’articolo stesso (vengono escluse solo le “parole singole”). In altre parole, riportare anche una breve frase dell’articolo, oppure il solo titolo o parte di esso, farà scattare il pagamento del diritto.
Spetterà al governo italiano decidere, in fase di trasposizione, i criteri per l’individuazione dello snippet, e cioè la lunghezza dell’estratto oppure il numero minimo di parole dell’articolo o del titolo per le quali occorrerà corrispondere una remunerazione agli editori. Questa decisione avrà un impatto molto importante su come aggregatori di notizie (da Google News a servizi analoghi ma meno blasonati) opereranno nel nostro paese, ma anche su soggetti che pur non facendo aggregazione riportano articoli di stampa, anche tramite il solo titolo.
Tra questi vi è appunto Wikipedia, che è soggetta all’articolo 15 e che riporta normalmente, in calce alle sue pagine, gli articoli di giornale che fungono da fonti delle notizie. Non essendo prevista un’eccezione a favore delle attività enciclopediche (a differenza di quanto analogamente previsto all’art. 17 per le piattaforme di condivisione), Wikipedia dovrà pagare il diritto ancillare o modificare sensibilmente le modalità con cui vengono riportati gli articoli di giornale nelle proprie pagine.
Lo stesso problema si porrà per le PMI e per le startup italiane. In assenza di un’eccezione prevista a loro favore, l’ostacolo per esse potrebbe derivare dai costi delll’adeguamento alla normativa e dalle procedure per il pagamento dei diritti ancillari. La trasposizione della norma da parte del governo italiano dovrebbe tenere conto di queste problematiche.
Infine, vale la pena fare una valutazione se il termine linktax sia ancora attuale o debba considerarsi superato con l’attuale versione della direttiva. L’art. 15(1)§3 specifica che gli hyperlink non sono tassabili di per sé. Tuttavia, il fatto generatore del diritto ancillare risiede nella combinazione di poche parole o brevi contenuti abbinati ad un hyperlink, al fine di fornire un’anteprima dell’articolo da condividere. In altre parole, per quanto l’hyperlink non sia tassato di per sé tecnicamente, lo è il suo uso funzionale, e cioè la stretta combinazione dell’hyperlink con dei testi. Pertanto, è verosimile che il termine linktax possa continuare a trovare applicazione nell’uso corrente, quanto meno come esemplificazione della fattispecie soggetta al diritto ancillare.
La responsabilità delle piattaforme di condivisione
L’articolo 17 della nuova direttiva crea una responsabilità principale per i fornitori di servizi di condivisione dei contenuti online che forniscono accesso pubblico alle opere protette da copyright caricate dai loro utenti.
Si tratta di aziende quali Youtube, Facebook o simili (mentre sono esentate le piccole imprese fino a 10 milioni di euro, le enciclopedie online ed altri casi marginali, oltre ai servizi di accesso). Responsabilità principale significa responsabilità ex-ante, e cioè che la piattaforma è responsabile ipso facto quando il contenuto illecito viene caricato su di essa, come semplice conseguenza del caricamento da parte di un terzo (l’utente della piattaforma e uploader).
Per meglio spiegare questa innovazione legislativa, è bene ricordare che l’attuale regime di responsabilità (in vigore dal 2001 con la Direttiva 2000/31) opera invece ex post, cioè attraverso la rimozione del contenuto illecito dopo il caricamento (normalmente a seguito di una segnalazione da parte dei titolari).
Filtri per i contenuti e contratti di licenza
Si tratta di un cambiamento di regime fondamentale e con implicazioni legali molto rilevanti per la piattaforma, che per evitare responsabilità dovrebbe ora “intercettare” i contenuti illeciti non autorizzati già al momento del caricamento, così da impedirne la visibilità al pubblico. Tecnicamente, l’unico modo efficace per raggiungere questo obiettivo è l’adozione di filtri di riconoscimento dei contenuti, cioè di software che, sulla base di informazioni relative ai contenuti da intercettare, combinati con tecnologie per il riconoscimento degli stessi, dovrebbero essere in grado di bloccare in maniera preventiva i contenuti non autorizzati.
L’art. 17 non menziona in maniera esplicita l’utilizzo dei filtri. La norma prevede che piattaforme e detentori dei diritti debbano provare a stringere dei contratti di licenza. Solo in mancanza di questi, e premesso che la piattaforma abbia fatto del suo meglio per concluderli, scatta l’obbligo di mettere in atto delle misure che rendano “indisponibili” tali contenuti, cioè di impedirne la pubblicazione.
Come evidenziato supra, non esistono tecnologie efficaci diverse dai filtri per assicurare un tale effetto. Tuttavia, poiché la norma non menziona esplicitamente il termine “filtro” e fa comunque riferimento ad un obbligo di “best effort”, c’è da chiedersi se si possa addivenire a soluzione tecniche diverse. E’ questa una scelta molto delicata con cui si dovrà confrontare il governo italiano al momento di trasporre la direttiva.
Uso dei filtri e trasparenza degli algoritmi
Nel compiere questa valutazione, il governo italiano dovrà inoltre considerare che i filtri sollevano delle criticità circa la trasparenza degli algoritmi usati per il riconoscimento dei contenuti. Tali algoritmi infatti impattano sensibilmente sulla libertà degli individui di condividere idee o opere creative libere e non protette, e quindi una regolamentazione ad hoc potrebbe essere prevista. Inoltre, il governo italiano potrebbe valutare se sanzionare i comportamenti “temerari” dei rights-holder, consistenti nel fornire alla piattaforma informazioni erronee circa la detenzione del copyright su determinate opere. Tali sanzioni non sono previste dalla Direttiva ma neanche escluse.
E’ utile notare che il governo francese, uno dei maggiori promotori della direttiva, ha dichiarato, già il giorno successivo all’approvazione della stessa da parte del Parlamento europeo, di voler lanciare una larga cooperazione per lo sviluppo di tecniche di filtraggio, in quanto “essenziali” per il buon funzionamento dell’art. 17.
Tale dichiarazione può apparire sorprendente visto che il fronte pro-direttiva aveva sempre escluso, nel dibattito precedente all’approvazione della direttiva, che l’art. 17 implicasse l’uso di filtri. Ad ogni modo, la dichiarazione del governo francese è significativa anche per altri aspetti: l’industria europea non dispone di sofisticate tecnologie di filtraggio, a differenza delle piattaforme americane che vi hanno già investito al fine di applicare dei filtri volontari (ad esempio: Content ID di Youtube).
Pertanto, se l’utilizzo di filtri diventasse uno standard imposto per legge, si creerebbe un mercato delle tecnologie di filtraggio dominato, al momento, dagli americani ed in particolare dalle stesse aziende contro le quali la direttiva è stata adottata (Google e Facebook).
L’utilizzo di filtri avrebbe anche un risvolto anti-competitivo, e cioè un maggiore costo per le piattaforme più piccole, spesso europee. Queste ultime potrebbero eludere l’obbligo di filtraggio rimanendo sotto la soglia di fatturato di 10 milioni, il limite che la direttiva fissa per esentare le imprese dall’applicazione dell’art. 17. Ma così facendo si auto-condannerebbero ad un permanente nanismo, lasciando definitivo spazio libero ai giganti americani. Non sorprende quindi che lo stesso governo francese, in prima linea nella lotta della difesa dei contenuti europei contro Google, Facebook ecc, stia ora cercando di trovare delle soluzioni al meccanismo perverso creato dai filtri, non previsti ma impliciti, di cui alla direttiva stessa.
Portata e efficacia della riforma
La portata ed efficacia della riforma europea del copyright è stata probabilmente oscurata dal dibattito accesso, e per certi tratti manicheistico, che ne ha accompagnato l’approvazione. Da un lato, occorrerà valutare se l’allarme paventato dagli oppositori della direttiva, in quanto ad impatto su funzionamento di Internet, diritti degli utenti e competitività per le start-up, sia reale o sovrastimato; dall’altro, occorrerà prendere atto che alcuni rassicurazioni importanti che hanno accompagnato l’iter legislativo si sono rivelate false, tra queste la presunta totale esenzione per Wikipedia e simili (che invece sono soggetti all’art. 15), così come l’esclusione dei filtri Internet.