Molti commentatori leggono la crisi determinata dal fallimento della Silicon Valley Bank come una crisi manageriale, la sostanziale incapacità di gestire il rischio da parte del management accompagnata da una carenza dei controlli bancari. Questo spiega molto ma non spiega tutto perché spostando il punto di osservazione ad una distanza maggiore si può notare un incrocio di cause che hanno un impatto sistemico.
Essenzialmente ci troviamo di fronte all’incrocio tra la crisi della Silicon Valley che ha visto negli ultimi mesi il settore tech USA licenziare una quantità enorme di persone con competenze che in tutto il mondo sono considerate scarse, il fallimento ripetuto di aziende concentrate nella gestione delle criptovalute, il ridimensionamento di programmi di investimento sulle nuove tecnologie e, non ultimo, il segnale dei consumatori che non stanno più acquistando le ultime novità del mercato in termini di nuovi telefoni o beni tecnologici; l’ascesa della Cina che si posiziona sempre più come un soggetto in grado di competere anche sulle nuove tecnologie e che produce prodotti a basso costo che spopolano nella gran parte del pianeta che non può permettersi i prodotti statunitensi o sud coreani; una guerra che ormai molti osservatori chiamano “terza guerra mondiale a pezzi” e che chiama le banche centrali ad intervenire per frenare l’inflazione e difendere la moneta e l’economia.
La guerra ha creato uno scenario eccezionale di discontinuità rispetto al passato. La Russia è stata oggetto di sanzioni senza precedenti e tra queste l’impossibilità di far ricorso alle proprie riserve monetarie detenute in svizzera e presso paesi del G7. Perfino la Germania nazista aveva potuto accedere alle sue riserve monetarie depositate in svizzera. Questo dà il segnale a tutti i paesi extra G7 vulnerabili che riporre le riserve in paesi esteri può essere molto pericoloso. Questo vale soprattutto per quei paesi che sono già sotto pressione come l’Arabia Saudita o la Cina ad esempio. Contemporaneamente il livello di pressione politica su questa categoria di paesi da parte del G7 è aumentato e questo non ha certo contribuito a distendere gli animi.
Cosa succederebbe se Cina e Arabia Saudita uscissero dai mercati occidentali
Questi paesi “canaglia” sono anche degli enormi investitori nelle piazze occidentali, in particolare Arabia Saudita e Cina detengono un considerevole portafoglio di titoli USA e sono tra i principali soggetti che finanziano il sistema delle startup e gli investimenti esteri in occidente (in particolare gli arabi).
In un recente articolo sulle conseguenze della guerra due economisti fanno una simulazione dell’impatto della fuoriuscita da buoni del tesoro USA da parte di paesi esteri. I due economisti hanno ipotizzato una fuoriuscita dell’1% di rispettivamente Cina e Arabia Saudita e concludono che nel caso della Cina ciò significherebbe un aumento dei tassi di interesse in una forbice del 21,8-24,4% nel breve periodo, mentre nel caso dell’Arabia Saudita del 2,2-2,5%. Questo non starebbe accadendo secondo altri analisti, o almeno in questa percentuale, anche se i dati a nostra disposizione ci dicono che la Cina da gennaio 2022 a gennaio 2023 è scesa del 17% e Arabia Saudita del 7%. Tuttavia, le tensioni geopolitiche con la Cina e con l’Arabia Saudita da parte degli USA e non fanno presagire nulla di buono. L’Arabia Saudita, storica alleata degli USA, ha firmato un accordo con l’Iran in Cina e più di una volta durante quest’ultimo anno non ha seguito le indicazioni USA sulle sanzioni alla Russia facendo irritare la Casa Bianca che è arrivata ad accusare l’OPEC di essere filo-russa.
Accanto a questo scenario c’è l’aumento dell’inflazione determinato dalla guerra che non consente più alle banche centrali di mantenere i tassi di interesse bassi e non dovrebbe consentire a breve ad un ritorno alla “normalità” degli ultimi 15 anni. Questa situazione determina minore disponibilità di capitali sul mercato e dai paesi arabi arrivano segnali nella direzione di non essere disponibili a fare la cassa di ultima istanza dei problemi finanziari dovuti a cattiva gestione (il caso credit suisse su tutti), l’esatto contrario di quello che serve al sistema dell’innovazione tecnologica USA fondato sulle startup.
La Cina negli ultimi anni è riuscita ad imporsi non solo come il più grande player manifatturiero del pianeta ma anche come un player leader di segmenti tecnologici prima considerati dominio incontrastato degli USA. Per esempio il 5G che ha visto imporsi Huawei e ZTE che sono state messe al bando da molti paesi del G7 per problemi di sicurezza ma anche per contrastare il loro vantaggio tecnologico, la Huawei è stata anche bannata dal settore dei cellulari dopo che con il suo microprocessore stava erodendo importanti fette di mercato dei processori statunitensi (anche li per problemi di sicurezza).
Sull’intelligenza artificiale si sa che la Cina ha un discreto posizionamento, ciò che necessita è una tecnologia di microprocessori che gli garantisca la capacità di elaborazione, il G7 sta attivamente lavorando per impedire che possa approvvigionarsi di microprocessori avanzati e degli strumenti per poterli costruire. Nei giorni scorsi l’Olanda ha applicato sanzioni ala Cina in modo che non possano essere esportate in quel paese i macchinari che servono per la produzione, l’Olanda è l’unico paese al mondo dove si fabbricano tali macchinari. Di qui anche l’interesse insistente della Cina verso Taiwan dove invece esiste la più avanzata industria di progettazione e produzione di microprocessori al mondo. Il modello cinese all’innovazione è molto diverso da quello USA, esistono poche startup e la gran parte della tecnologia è prodotta da grandi soggetti non di rado sorvegliati e supportati dallo stato. Un modello che sta funzionando a pieno regime se in pochi anni ha consentito al paese di fare passi da gigante. In una recente puntata di Presa Diretta viene descritta molto bene la competizione tra Cina e USA e le conseguenze sull’economia mondiale.
Nel recente documento del governo cinese “Il piano generale per la costruzione della Cina digitale” si disegna la strategia per il futuro fatta di sforzo per superare i suoi concorrenti diretti e questo non potrà che avere impatti crescenti sull’ecosistema delle startup del G7.
In questo quadro la Cina sempre più si sta rivolgendo ad altri mercati anche rafforzando i paesi BRICS che rappresentano una fetta sempre più grande dell’economia mondiale e che riscuotono interesse da nuovi paesi. Gli ingenti investimenti cinesi che sono arrivati in occidente in termini di acquisto del debito e investimenti diretti si stanno riposizionando verso iniziative come “la nuova via della seta” che sono considerate geopoliticamente più convenienti e questo ha un impatto sulla disponibilità di denaro a buon mercato.
L’impatto delle tensioni geopolitiche sugli ecosistemi dell’innovazione
“Last but non least” c’è il tema di come tutto questo impatta sulle startup e settore tecnologico e come impatterà nel futuro.
Non era necessario essere un profeta per capire dove ci avrebbe portato questo modo di gestire le startup, In un mio articolo sul caso WeWork del 2019 affermavo “Da cosa sono spinti gli investitori per mettere soldi in questo sistema? La disponibilità di liquidità sempre più concentrata in poche mani e tassi di interesse bassissimi (ormai nell’area euro negativi) spinge ad affrontare rischi sempre più alti per guadagnare con la finanza. Il rischio finanziario diventa più basso quando puoi disporre di soldi e diventa difficile impiegarli per produrre altri soldi, questo ti spinge a scommettere su qualsiasi cosa possa portarti dei ricavi. Ti conviene anche farti prestare soldi per investirli nella finanza, giocare come in un grande casinò mentre l’economia reale, senza domanda interna e con lavoratori che ricevono stipendi sotto la soglia della povertà, non sono in grado di spingere i consumi e i profitti.
Questo “carosello” finanziario non ha solo cambiato le valutazioni sul corso azionario delle aziende ma anche cambiato in parte il modo di gestire le imprese. Se si possono fare molti soldi gestendo una azienda senza mai fare utili, comprando aerei privati, arricchendosi, acquisendo aziende senza alcuna nozione di gestione di impresa perché le altre imprese dovrebbero “fare fatica” a gestire managerialmente il loro business? In qualche modo questo modus operandi si è allargato anche ad aziende più tradizionali o ad altri settori: molti osservatori hanno segnalato come il valore delle azioni in borsa sia spesso frutto di buyback. Nei fatti le aziende anziché utilizzare gli utili per promuovere investimenti e mettere in atto strategie di business di lungo periodo preferiscono comprare le proprie azioni per mantenerne alto il valore. Spesso anche perché le stock option sono un importante elemento della retribuzione dei manager che dunque hanno tutto l’interesse a mantenerne alto il valore in borsa.
Mentre è sempre più difficile tenere la concorrenza internazionale e i clienti sono sempre più esigenti il “carosello” finanziario sostiene aziende sempre più alla ricerca della quotazione di borsa più alta e attenta alla chiusura del trimestre, alle aspettative degli investitori. Per ricevere finanziamenti nel mondo delle startup può bastare un “pitch” di pochi minuti presentando un’idea bella e futuristica sulla base di business plan in alcuni casi immaginari e per ottenere un finanziamento in banca è necessario presentare articolati piani, offrire garanzie, dimostrare l’impossibile. Molti manager tradizionali negli USA si sono così indirizzati verso questo genere di startup che, d’altra parte, possono permettersi di pagare molto bene e le cui stock option valgono molto di più dei settori tradizionali.”. È sgraziato citarsi ma è solo per dire che quello che sta accadendo era già davanti agli occhi di chi voleva vederlo e non bisognava essere dei nobel dell’economia.[3]
Tra il 2019 e oggi ci sono stati molti casi di fallimenti di startup o unicorni e le quotazioni in borsa di queste aziende sono diventate sempre più esagerate nel momento delle IPO rispetto al dopo.
Lo stato di salute delle startup Usa
In un articolo di CBinsights del 15 marzo 2023 troviamo molti dati interessanti sullo stato di salute delle startup USA.
Se guardiamo al valore di borsa delle principali 50 IPO quotate dal 2020 e quelli attuali troviamo un calo del 59%, questo ci dice che questo tipo di investimenti non sono poi così redditizi e che queste imprese, una volta che si confrontano col mercato non sono in grado di reggere con le proprie gambe ma il management è “viziato” dai soldi facili. Sono cresciute alimentate con “pesce di allevamento” e nessuno gli ha mai insegnato a pescare. Purtroppo, qui parliamo di una intera generazione di manager cresciuta in questo modello, si è determinata una cesura tra il vecchio management (troppo conservatore ma sapeva di numeri) e questo genere di manager temerario e incurante delle logiche di gestione.
Un quadro più evidente ce lo dà uno sguardo sulle principali imprese. Vediamo come sono poche le imprese che hanno saputo far camminare i numeri sulle proprie gambe, ci può stare un certo scostamento ma diventa difficile sostenere una tale sproporzione tra quotazione e valori correnti.
Anche questo, oltre che altri fattori di cui si è discusso, ha comportato una progressiva riduzione degli investimenti in questo settore. Si è determinata una crescita molto alta durante la pandemia ma adesso si sta scendendo e il trend sembra molto deciso a scendere al di sotto del pre pandemia. Molto del capitale di ventura che ha fatto girare il casinò della finanza delle startup è capitale dei paesi in via di sviluppo che trovava più sicuro e vantaggioso investire nei paesi del G7, questo scenario potrebbe modificarsi in futuro con la sempre più presenza della Cina e dei paesi BRICS che stanno cercando di rafforzare i loro legami e le interconnessioni con altri. Non c’è più il QE e i suoi lasciti, l’economia mondiale sta cambiando e soprattutto se leggiamo la lista delle startup non ci viene in mente nessun progresso tecnologico sconvolgente. Di questo parleremo più avanti.
Eppure, mentre questi campanelli di allarme suonavano e avrebbero dovuto svegliare dal sonno della ragione molti manager e finanziatori le startup hanno continuato con il loro programma di assunzioni.
Ma non è stata follia, fa parte del meccanismo stesso del finanziamento facile.
Il calo dei finanziamenti alle startup
Se la mia principale attività si sposta dal fatturato e dall’EBIT al convincere i venture capital a comprare le aspettative che gli genero con i miei pitch devo chiedergli soldi inventandomi fantomatici business futuri (dalla criptomoneta ai mondi virtuali) e assumere sempre più persone per far crescere i miei costi anche quando non ho bisogno di persone, far vedere che non guadagno ma il mio giro di affari aumenta(l’arte della magia) e così giustificare investimenti sempre più alti che soddisfano la domanda dei finanziatori di investire soldi su di me. Per chi ha cominciato a lavorare negli anni ’80 e a confrontarsi con i numeri e i clienti è un mondo alieno ma negli ultimi anni intorno a questo meccanismo si è costruito molto dell’innovazione tecnologica.
I finanziamenti nelle startup sono in calo del 35% dal 2021, in valori totali sono superiori ai livelli pre-pandemia ma il trend non è positivo se consideriamo il boom del digitale che c’è stato durante la pandemia e che ha cambiato in modo sostanziale i comportamenti dei consumatori, ormai sempre più online.
La minore disponibilità di fondi ha determinato la necessità da parte delle principali aziende tecnologiche USA di ridimensionare il personale (principale voce di costo). Dall’inizio del 2023 sarebbero 2000 al giorno i lavoratori delle aziende tecnologiche lasciate a casa. Mai era stato così forte l’impatto occupazionale nella silicon valley.
I licenziamenti non sono dovuti agli investimenti nell’IA, come alcune pubblicazioni dicono, ma sono dovuti alla necessità di fare un aggiustamento in un settore cresciuto troppo e troppo facilmente.
Questa crescita impetuosa e facile ha fatto emergere un management debole, non preparato nella gestione dei fondamentali ma fortemente orientato sulla finanza e sulle leve finanziarie. Questo tipo di gestione, per le cose che abbiamo detto sopra, non sarà più possibile. Non ci troviamo di fronte ad una rivoluzione ma il cambiamento di direzione è cominciato e non si torna dove eravamo prima.
A dirci questo c’è anche un nuovo fermento “direzionale” degli stati occidentali che negli USA, ad esempio, hanno portato il governo a creare degli incentivi per le imprese che vanno nella direzione di riportare indietro le produzioni di beni tecnologici. Il soggetto pubblico non si limita a immettere capitali sui mercati finanziari sperando che accada qualcosa ma li concentra imponendo una seri di condizionalità molto forti al mercato. In qualche modo questo segnala se non la fine l’inizio della fine di un settore innovazione fatto da enormi capitali immessi nei ventures capital e in borsa per finanziare tantissime startup con la speranza che tra mille una possa far recuperare gli investi di quelle perse. Come cercare l’oro di qualche pepita buttando giù le montagne a dinamite e sperando che con l’oro recuperato si riesca a diventare ricchi dopo aver pagato i costi della dinamite.
Questo ha portato le giovani generazioni che potevano permetterselo a concentrarsi sulla finanza anziché nella gestione delle stesse imprese innovative. Il CEO di Microsoft e di Google sono di origine indiana, moltissimi dei ricercatori che lavorano nelle big tech sono di origine cinese o orientale e europei ma sempre meno wasp. Quando la Silicon Valley è partita la presenza di nativi USA era molto grande, in un mondo globalizzato non è un grosso problema ma in un mondo nel quale si cominciano a ritracciare confini potrebbe diventarlo.
Le ripercussioni del caso SVP sugli altri ecosistemi startup
La scossa all’ecosistema delle startup USA non è solo locale, molti dei fondi di investimento che operano nella Silicon Valley operano anche a livello internazionale. L’ecosistema delle startup israeliane è fortemente finanziato da capitale proveniente dalla borsa di New York, ma anche quelle che operano in Europa o in UK non sono da meno. Avere problemi nel cuore del motore tecnologico mondiale significa avere problemi ovunque.
In Italia è da poco entrato in operatività il fondo innovazione rivolto alle startup con una capacità di fuoco di 2 miliardi di euro, c’è il rischio che arrivi troppo tardi con degli strumenti adatti in un momento storico che sta profondamente cambiando. Finanziare gli incubatori che finanziano idee senza avere ben chiaro cosa si voglia fare, verso dove si voglia andare e quali risultati determina il proseguimento di investimento e quale no non può essere ancora un metodo buono per il futuro.
Conclusioni
Non ci troviamo di fronte ad una rivoluzione, dicevamo, ma il futuro sarà molto diverso rispetto a prima. I paesi del G7 se non vogliono vedersi mettere in discussione nel dominio della tecnologia devono portare risultati, creare aziende solide e produrre qualcosa che realmente faccia la differenza per i loro clienti. L’ultima strabiliante novità che ha cambiato il nostro modo di vivere è stato l’iPhone con la nascita del telefonino e l’iPad con la nascita dei tablet. Dopo questo ci sono stati continui e grossi miglioramenti ma non si è riusciti a produrre una reale novità malgrado sia continuamente annunciata. Fino a pochi anni fa sembrava imminente la macchina che si guida da sé, l’auto volante, il metaverso ogni giorno ci compare in pubblicità proponendoci qualcosa che per ora ha prodotto 9 miliardi di dollari di perdita e ha un futuro alquanto incerto come mercato di massa. Per prendere denaro l’”innovazione finanziata” ha bisogno di molta più comunicazione che di tecnologia e questo sta ormai emergendo come un problema.
La risposta del sistema finanziario è stata pronta, le banche centrali sono intervenute direttamente o indirettamente e hanno consentito agli istituti in difficoltà di tornare operativi. Ci saranno degli aggiustamenti, saranno messe sotto accusa e processate alcune agenzie di rating che hanno quotato come affidabili aziende e banche che sono fallite pochi giorni dopo. Questo si può leggere come un fatto positivo o come una occasione persa di mettere ordine nel casinò della finanza. Rimane il fatto che si apre un periodo meno facile per le startup, il “parco buoi” che finanzia i ventures capital si accorgerà che mettere i soldi in questo tipo di imprese non sempre produce denaro.
Non credo sia terminato il tempo delle startup e non credo sia stato tutto da buttare ma certamente è tempo di tornare ai fondamentali. “Back to the basic”, ricominciare a leggere i numeri, occuparsi di come rendere efficiente ed efficace le proprie aziende, gestire il cash-flow, investire in idee e persone capaci con la consapevolezza che l’obiettivo è fare introiti non il “pifferaio magico” dei fondi di investimento. Fondi che vedono già una drastica riduzione per spostarsi anche in altre aree del pianeta e in altri settori. Questo è un alto segnale del bradisismo presente a livello internazionale, il post-pandemia non ci ha lasciato come prima e un riassetto dei poteri è in atto.