Al Padiglione Italia della Biennale di Architettura di Venezia, c’era una mostra di Pinuccio Sciola, uno scultore sardo convinto che alcune pietre antiche avessero mantenuto l’Anima che «sicuramente» avevano al momento della Creazione. Ripulite e tagliate nel modo giusto, se ben accarezzate, queste pietre, cantano: ed è quel che effettivamente accade nel Giardino Sonoro che ha lasciato vicino a Cagliari. Non so se essa sia la storia giusta e adatta per questa atipica prefazione, ma il “magico” e lo “storico” sono i legami che dobbiamo cercare per dare profondità al futuro tecnologico, anche quello dei videogiochi.
Perché, vedete, è da questa unione tra “sacro” e profano, tra tradizione e innovazione e dall’interazione della mano, arto più innervato del corpo umano con quella con un’(in)animata pietra, che si propaga il “magico” canto. E da quella stessa interazione propugnata dalla mano dell’essere con pollice opponibile che, per lo più, l’homo sapiens inter-agisce anche con un dispositivo denominato controller per, appunto controllare un alter ego digitale, anch’esso, apparentemente, (in)animato nella dimensione virtuale dei videogame.
L’atipicità di quella inconciliabile e quasi inspiegabile esperienza interattiva alla Biennale ha instillato o, forse, rafforzato la mia curiosità derivante per l’interazione “4.0”. Ma ancor prima che io possa dire qualcosa sui videogame, cosa hanno da dire essi, i videogiochi, “addirittura” in una tesi di master, tra: business, marketing e diritto? E più generalmente: cos’hanno da dire i “giochi elettronici”, a “noi di questo mondo”?
La tangibile immaterialità dei videogiochi
Anzitutto, che si sia nativi digitali o meno, i videogiochi rappresentano (e non si limitano a proferire, a dire, ma, proprio, rappresentano) quest’epoca post-contemporanea e, a prescindere dalle “promesse” (minacce?) sulla costituzione di un Metaverso di Mark Zuckerberg, essi, già oggi, sono parte della dimensione sociale cementante il “virtuale” con il “reale”; l’«online» con l’«offline», in quell’inestirpabile, continua e ubiqua dimensione che è ormai divenuta la nostra vita nell’«onlife» di “floridiana” memoria.
E trattando della “tangibile immaterialità”, non si può che parlare del tempo: così sfuggente, così evidente. Tempo che per essere “dimensionato” dall’essere umano, si abbarbica su altre figure retoriche, come l’acqua, così fondamentale, impiegata per descriverne il trascorso temporale con il suo passaggio sotto i ponti ma che, per ciò solo, non può, con il suo inesorabile trascorrere, apportare progresso (come peraltro testimonia buona parte della Storia), se non innestato con l’umana curiosità, con l’ambizione, con la desiderosa e la desiderata crescita di volere e di arrivare. Per poi nuovamente superarsi.
Videogiochi, un’industria così giovane e così redditizia
E così apprendiamo di come un’industria, che commercialmente non ha compiuto nemmeno cinquant’anni, sia diventata tra le più redditizie al mondo e, di come sia proprio l’attenzione temporale di ciascuno di noi l’oggetto delle aspirazioni unanimi delle corporazioni sull’arena commerciale mondiale, senza alcun limite di classificazioni, tantomeno geografiche. Così creando un abbattimento di confini cui il videogioco ha contribuito come soft power di una globalizzazione, checché se ne dica, ancora in atto e imperante.
E per quanto si possa discutere sulla presunta decadenza statunitense, anche l’essenza di Microsoft in generale e il “caso” Xbox in particolare, testimonia di come la lancia occidentale, e quella americana nello specifico, sia tutt’oggi molto affilata e pronta nello “scoccare”. Certo, magari trasmigrando parte del potere geopolitico – dagli apparati pubblici dello Stato a quello di alcune società per azioni – ma per un fine strategico ultimo, univoco e ben delineato (qual è l’“egemonia” culturale che poi vuole dire identitaria che poi si sostanzia nell’essenza esistenziale, del pianeta) passando inoltre, questa fluidità, dal concetto di «proprietà» di un «bene» a quello neanche di «possesso» ma di “mera” «fruizione», ci si assicura comunque quel tanto che basta per «godere» di “qualcosa”. “Qualcosa” che, e lo stiamo vedendo, da «fisico» (la «proprietà» di cui sopra) è divenuto intangibile servizio (digitale, online e in streaming), ma per questo non meno reale: come vorrebbe essere proprio l’Xbox Game Pass, quasi “troppo bello per essere vero”.
Xbox Game Pass, una business strategy dirompente
Dal punto di vista della business strategy, il giudizio sull’Xbox Game Pass è immediato: dirompente!
Essere creatore e gestore di un ecosistema mette fuori gioco (oppure obbliga alle proprie regole) tutti i produttori di videogiochi che hanno una strategia “Razors‐and‐Blades”.
Ma, paradossalmente, innalza di molto il livello di competizione: ecosistema vuol dire anche portare il confronto su un altro piano che è quello non dei videogiochi, ma del tempo libero: e lì la competizione è con tutte le major dell’entertainment, con i social media, con lo sport, e con tutti quelli che operano nel business del tempo libero. Ma alzare il piano del confronto vuol dire, soprattutto, sollevare di molto il livello della complessità e destare l’interesse di altri player (attenzione: player non gamer!) che hanno fatto della gestione della complessità uno dei loro fattori distintivi. Aumentare la complessità e saperla gestire, questa sarà la nuova regola del business.
E sapere come si gestisce la complessità, oltre a far vincere un premio Nobel (Giorgio Parisi), comporta una crescita culturale complessiva che diventa un patrimonio sempre più consistente di maturità e conoscenze. È quello che Hiroyuki Itami definisce le Risorse Invisibili, la “riserva” di energia vitale che, per essere tale, va continuamente alimentata da una lucida politica di people management.
Saper gestire la complessità è una competenza che può essere insegnata e appresa. Insegnare le competenze rare sarà la vera sfida delle organizzazioni competitive.
L’importanza di saper insegnare le competenze rare
E saper insegnare le competenze rare è e sarà sempre più importante della consueta (o ormai abusata) «ricerca dei talenti».
Un progetto, quello di Microsoft, pertanto non inedito, ma innovativo abbastanza da essere, a distanza di quasi mezzo decennio dal rilascio, ancora «non compreso» nella sostenibilità del business dagli stessi addetti ai lavori.
«Sostenibilità», quale concetto chiave a trecentosessanta gradi che Greta Thunberg ci ha imposto, al di là di quella ambientale (ma che volendo far pensare proprio per quella limitata alla «sostenibilità» ecologica, si può dubitare essere attualmente nello streaming videoludico).
Ma, soprattutto, «sostenibilità» nell’ambiente… Lavorativo.
Ed è qui che pretendo di soffermarmi ora: perché tra l’altro, come Direttore del Master Publitalia ‘80 da trentaquattro edizioni, insegniamo ai nostri giovani discepoli, donne e uomini manager del domani, che la conoscenza (le cosiddette hard skill) è una parte fondante e fondamentale del mondo del lavoro ibrido post-manifatturiero.
Al tempo stesso essa, fine a sé stessa ormai, essendo fruibile a costo zero e a tempi quasi nulli, può essere pressoché rinvenibile da una platea sconfinata di soggetti e, su Google e chissà, presto o tardi, persino da robot e da intelligenze artificiali. Perché, si presti attenzione, Microsoft, che ha decine di migliaia di ingegneri e un know-how tecnico-tecnologico quasi invidiabile nel panorama mondiale, ma, e qui sta la pietra angolare de «la potenza è nulla senza controllo», senza una leadership illuminata capace di: coordinamento, collaborazione e cooperazione interpolata da intangibili ma non meno “reali” ed efficaci capacità di motivare, di galvanizzare, di comprendere e di far crescere (soft skill) la propria squadra, sarebbe precipitata.
Perché i dati sono importanti, ma sono interpretabili. Perché i numeri sono infiniti, ma non sono tutto. Perché ognuno vale uno, ma con ineliminabili differenze.
Ed ecco allora il rilievo della “testimonianza” manageriale di Phil Spencer, dell’«ultimo uomo rimasto al tavolo» (e si potrebbe dire anche al timone) di un transatlantico che s’era schiantato. Riportandolo in porto, pur nella tempesta (andando di paragoni retorico-pindarici, lunga quasi quanto una traversata nel deserto biblica) e con tutta la “ciurma” (o perlomeno i ranghi che non si sono gettati sulle “scialuppe di salvataggio” o presunte tali), per la “restaurazione” quasi risorgiva dell’imbarcazione per poi ri-partire in mare aperto: con il duro ma prezioso bagaglio dell’esperienza pregressa e la chiglia rivolta verso l’avanti, alla scoperta di nuovi mondi. Per floride dimensioni non “reali”, bensì digitali epperò non per questo meno entusiasmanti e ricche di una “terra promessa”.
Per un fallimento, che è ripartenza, segnato senza essere segnante. Perché non esiste sentenza senza appello: purché lo si voglia. Un appello per un (mai parola fu scelta più erroneamente) insperato successo.
Ma è qui, nell’apparente «(lieto) fine» che si apre un livello sottaciuto, quasi segreto. La “resistenza” nel successo. Ed è allora che si rende necessario fornire un “chi va là” a queste persone irrefrenabili: affinché il combattuto e il conquistato successo non abbagli il prosieguo del proprio ruolo di guida. Di leader. Perché i canti adulanti che si odono, in mare aperto, dal timone del capitano, sovente, non provengono da sirene. Perché quando si ha successo, soprattutto per imprese da principio ritenute “improbe”, a “cantare” possono essere davvero pure le “pietre”: gli scogli affondanti l’imbarcazione.
Scogli dalle mille forme, dalle innumerevoli sembianze, dalle più ammalianti cantiche e che, quelle davvero sì, possono irretire persino l’animo ancestrale e più puro: imprigionandolo, tra i flutti, inabissandosi di vita ancor prima che dalla vita.
«Non so se essa sia la storia giusta e adatta per questa atipica prefazione», dicevo in principio e riecheggio prima di questa chiusa. Ne dubito ancora adesso ma, che lo sia o meno, potrete giudicare voi: dopo l’integrale lettura. Tenendo a mente una cosa: il prendere decisioni e, ancor di più, il giudicare, non è mai affatto un «gioco da ragazzi». Così come, oggi, non l’è più neppure il videogame.
Conclusioni
E parlando di videogioco torniamo al punto di partenza: il gioco.
Il cui meccanismo di apprendimento è, a sua volta, simile al meccanismo di apprendimento del saper gestire la complessità.
L’aspetto psicologico ci dice che il gioco è, per il bambino, ma anche per l’adulto, un contenitore di esperienze e di conseguente crescita psichica.
In «Al di là del principio di piacere», Freud racconta di come il nipotino si divertisse a lanciare un rocchetto, recuperandolo poi tramite il tiro del filo.
Il gioco era, dice Freud, una rappresentazione simbolica del rapporto con la madre: abbandono/ricongiungimento, sofferenza/piacere.
Il gioco, aggiunge, ha una funzione catartica, ripetibile e tale da rendere “neutra” o piacevole un’iniziale sofferenza.
Il videogioco ricorda, in questa interpretazione freudiana, il salto da “Razors‐and‐Blades” a ecosistema. Questo non può che arricchire, con l’aumento della complessità, le occasioni di maturazione e crescita.
Inoltre, quasi ogni videogioco racconta una storia. E, come dice Propp (Morfologia della Fiaba), dietro a ogni storia ci sono gli archetipi: «forme determinanti che sembrano essere presenti sempre e dovunque» (Jung, Gli Archetipi dell’inconscio Collettivo). E dove si basano le risorse invisibili se non sull’inconscio collettivo di una specifica organizzazione?
Inconscio collettivo, archetipi, risorse invisibili, competenze distintive, gestione della complessità, strategia aziendale, “Razors‐and‐Blades” versus “continuum” via Xbox Game Pass: schegge impazzite, o un filo continuo come quello del nipote di Freud?
Certamente, il lavoro di Luca Federici ci aiuta a dipanarlo, a capirlo e a rivedere le stelle, come il filo che Arianna amorevolmente preparò per Teseo.