“The chip industry now determines both the structure of the global economy and the balance of geopolitical power” (L’industria dei chip ora determina sia la struttura dell’economia globale sia l’equilibrio del potere geopolitico, ndr), dice Chris Miller – docente di “International Affairs” alla Tufts University – nel suo recente libro “ChipWar: The Fight for the World’s Most Critical Technology”.
Il libro è un nonfiction thriller (come l’ha qualificato nella recensione The New York Times) che racconta la storia dei chip a partire dagli anni ’60, quando il futuro cofondatore di Intel Gordon Moore preconizzò in un suo famoso articolo quella che venne poi definita la “legge di Moore”, ovvero la continua crescita futura del numero di transistor integrabili in un chip (dai 4 di allora si è passati agli 11,8 miliardi attuali) e quindi delle prestazioni dei chip stessi.
Chip e altre dipendenze strategiche dell’Ue: come possiamo affrancarci
La rilevanza strategica dell’industria dei semiconduttori
Una tesi esagerata quella di Miller? Sicuramente un po’ eccessiva, ma non lontana dalla rilevanza strategica che all’industria dei semiconduttori (e soprattutto alla componente più avanzata di essa) viene attribuita dagli Stati Uniti e dalla Cina – nel contesto di quasi guerra fredda che caratterizza i loro rapporti – e dall’Unione Europea, con una conseguente serie di misure di restrizione degli scambi internazionali e di massicci aiuti alle proprie imprese, che contribuisce a una vera e propria inversione del processo di globalizzazione dell’economia avviato negli anni ’90 (o almeno al tendenziale abbandono dell’idea di libero mercato che si accompagnava ad esso).
Una rilevanza, quella attribuita all’industria dei semiconduttori (da sempre, insieme con l’industria delle telecomunicazioni, fattore abilitante delle innovazioni a valle nel mondo Internet), che si accompagna nella scala dei valori dell’opinione pubblica al declino del fascino esercitato dalle big tech – soprattutto per le loro ormai storiche innovazioni a forte impatto sul mondo consumer (dagli smartphone ai motori di ricerca all’ecommerce e ai social) – che aveva raggiunto il culmine durante la pandemia.
Una più forte attenzione in altre parole alla componente a monte della lunga e articolata “filiera digitale”, per la maggiore potenzialità di generare una nuova “ondata innovativa” (intelligenza artificiale …) rispetto alla componente a valle: vista quest’ultima come sempre meno capace di generare innovazioni radicali e sempre più propensa a usare invece il proprio potere di mercato e capacità di lobbying per rimanere ai vertici.
La Cina e il tech backlash
Una maggiore attenzione che Xi Jinping aveva in un certo senso anticipato, in occasione del suo attacco ad Ant Group e a Jack Ma nel novembre 2020 che diede inizio al cosiddetto tech backlash (ora in fase recessiva): anche se la motivazione fondamentale era quasi certamente quella di stroncare il crescente potere e prestigio che le grandi imprese tech private stavano acquisendo ai danni della sua leadership e del partito, la giustificazione ufficiale (la esprimo in termini ipersemplificati) fu che le imprese tech non dovevano “baloccarsi” con attività quali l’ecommerce, i giochi, i social network e i servizi finanziari, ma piuttosto impegnarsi in ambiti (quali quelli dei chip più avanzati e dell’intelligenza artificiale) che contribuissero alla grandezza della Cina, alla crescita della sua potenza anche militare e del suo peso nel mondo.
Fig. 1 Fig. 2
La visione della stampa Usa sulla questione dei chip
Mi ha colpito, perché in grado di dare un’idea plastica di questo cambiamento di atmosfera, il succedersi a metà gennaio – a un solo giorno di distanza l’uno dall’altro – di due articoli presentati con grande rilievo da The Wall Street Journal:
- “Chips Are the New Oil and America Is Spending Billions to Safeguard Its Supply: Recent shortages and fears of China’s ambitions to dominate the industry have led to a frenetic effort to rev up U.S. production” (I chip sono il nuovo petrolio e l’America sta spendendo miliardi per salvaguardarne l’approvvigionamento: le recenti carenze e i timori per le ambizioni della Cina di dominare l’industria hanno portato a uno sforzo frenetico per rilanciare la produzione statunitense, ndr) (Fig, 1);
- “Big Tech Companies Prep for a Tough Year: Competitors, regulators and an economic slowdown have started to make a meaningful dent in the fortunes of the largest tech companies” (Le grandi aziende tecnologiche si preparano per un anno difficile. Concorrenti, regolatori e un rallentamento economico hanno iniziato a intaccare in modo significativo le fortune delle più grandi aziende tecnologiche, ndr) (Fig. 2).
Il secondo dà già nel titolo l’idea della fine – almeno temporanea – di un’epoca in cui le big tech continuavano a crescere anche nelle fasi recessive dell’economia mondiale, forti dell’innovatività del loro output e della disruption che esse provocavano in molti altri comparti dell’economia.
Il primo appare molto allineato, con la prima parte del titolo (“Chips are the new oil”), alle tesi di Chris Miller: perché vede i chip come la nuova risorsa che, analogamente a quanto è tornato ad accadere (a seguito della guerra in Ucraina) con il petrolio e il gas naturale, permette a chi ne controlla la disponibilità di tenere sotto scacco il resto del mondo. Esso evidenzia però anche al suo interno la grande complessità di quello che potremmo chiamare l’ecosistema dei chip (o dei semiconduttori) – rispetto alla relativa semplicità e ridotta differenziazione del comparto oil & gas – e la conseguente difficoltà di:
- ricostruirsi in casa l’intero ecosistema, come sia gli Stati Uniti sia l’Unione Europea (e la Cina sull’altro versante) vorrebbero fare, per affrancarsi da possibili pressioni e ricatti esterni,
- o addirittura diventarne l’area dominante su scala globale, obiettivo dell’attuale politica degli Stati Uniti che – leader assoluti nella fase di progettazione dei chip – vorrebbero recuperare le attività di manufacturing, in larga misura abbandonate nel tempo dalle loro principali imprese in quanto “non strategiche”, ma viceversa rivelatesi sempre più come un fattore determinante di differenziazione e locate principalmente in Paesi geograficamente prossimi alla Cina quali Taiwan (che come noto la Cina vorrebbe annettersi ritenendola parte integrante del proprio territorio) e la Corea del Sud.
Fig. 3
Da cosa deriva la grande complessità dell’ecosistema dei chip
Da che cosa deriva questa grande complessità dell’ecosistema dei chip? In termini molto sintetici farò cenno a cinque macrofattori di complessità:
- l’ampia differenziazione nella tipologia e nel livello tecnologico di beni e/o servizi finali e/o intermedi e dei beni capitali necessari per la loro progettazione e la loro produzione;
- la molteplicità di settori che ne fanno uso (Fig. 3), almeno in parte richiedendone una personalizzazione delle caratteristiche;
- la varietà della composizione dei portafogli di business delle imprese che fanno capo – completamente o parzialmente – all’ecosistema: dai progettisti puri (fabless) come le statunitensi Broadcom e Qualcomm, ai contrattisti puri operanti nel manufacturing (foundries) come la taiwanese TSMC, alle imprese che come la storica Intel sono presenti allo stesso tempo nella progettazione e nella produzione, a quelle che come Samsung Electronic operano allo stesso tempo in altri settori (dagli smartphone ai televisori) e a quelle che come Apple si stanno crescentemente integrando a monte nella progettazione (ai danni dei fornitori storici quali Intel, Broadcom e Qualcomm), affidando il manufacturing a foundries quali TSMC e/o Samsung;
- la varietà nel livello di avanzamento tecnologico delle imprese facenti capo all’ecosistema stesso, in funzione ovviamente anche dei bisogni dei loro clienti: l’olandese ASML è ad esempio unica al mondo nel produrre le apparecchiature fotolitografiche che rendono possibili le produzioni dei chip più avanzati (3 nanometri e in prospettiva 2 le dimensioni dei transistori all’interno degli stessi), che saranno indispensabili tra l’altro per l’avanzamento dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie 5G e 6G, mentre l’industria dell’auto richiede ai suoi fornitori – tra cui la (semi)nostra STMicroelectronics – un numero sempre più elevato di chip ma molto meno sofisticati (se non per la guida autonoma);
- la nazionalità, la locazione degli headquarters (quando non coincidente con la prima) e la locazione delle diverse attività (molto concentrate a un estremo o sparse in tutto il mondo all’altri) delle imprese che – completamente o parzialmente – fanno capo all’ecosistema: il fattore come detto che, con l’acuirsi della guerra fredda fra Stati Uniti e Cina e delle voglie cinesi di riprendere possesso di Taiwan (sede tra l’altro di TSMC), ha scatenato una serie di misure protezionistiche nelle principali aree del mondo.
Alla complessità dell’ecosistema, che ne rende quasi impossibile la replica in una singola macroarea del mondo nonostante l’ampiezza delle risorse messe in gioco (il “CHIPS Act” statunitense del 2022 ha stanziato ad esempio 52 miliardi di dollari di sovvenzioni, oltre a crediti fiscali sugli investimenti dell’ordine del 25%, per promuovere l’espansione delle attività di manufacturing e il rafforzamento delle relative supply chain), voglio aggiungere altre due considerazioni che ne arricchiscono il quadro problematico.
La prima considerazione riguarda le misure sempre più restrittive poste recentemente in atto da Biden per:
- cercare di impedire l’export in Cina dei chip più avanzati e dei macchinari per realizzarli, non solo da parte delle imprese statunitensi ma anche da quelle che producono chip sfruttando i brevetti e il know how statunitensi,
- vietare ai propri cittadini e alle proprie imprese di lavorare per (o collaborare con) una serie di imprese cinesi poste in una black list che continua ad allagarsi.
Fig. 4
Una situazione difficile per la leader del mercato, TSMC
Sono misure che, al di là del loro successo o meno nel bloccare il flusso di beni e di conoscenze, non vengono vissute molto positivamente dalle imprese dell’ecosistema, abituate a trarre una quota significativa dei loro (solitamente rilevanti) profitti dalle vendite a imprese cinesi: in assenza ancor più di sovvenzioni, per quelle che non operano sul territorio statunitense, che controbilancino le mancate vendite. Sono misure che mettono in particolare difficoltà una impresa come TSMC, numero uno al mondo nel manufacturing dei chip più avanzati, che ha i suoi headquarters sulla costa occidentale di Taiwan che fronteggia la Cina e che si trova a essere separata dalla Cina da quella che secondo un recente articolo di The Economist (significativa l’illustrazione che accompagna il titolo riportata in Fig. 4) taluni definiscono la “silicon curtain”, per analogia con la “cortina di ferro” che separava l’Occidente dall’URSS ai tempi della guerra fredda. Una situazione veramente difficile quella di TSMC, che pur avendo dichiarato anche recentemente la sua volontà di rimanere la principale impresa (per capitalizzazione) di Taiwan, sta investendo 40 miliardi di dollari nella costruzione di una nuova struttura produttiva (fab) in Arizona e sta discutendo la possibilità di aprirne una anche in Germania.
La forte ciclicità dell’ecosistema dei chip
La seconda considerazione riguarda la forte ciclicità dell’ecosistema dei chip e la elevata consistenza degli investimenti (sia per realizzare impianti di produzione sia per progettare chip innovativi), nonché la lunghezza dei tempi per realizzarli. La ciclicità – che solitamente non riguarda l’ecosistema nella sua totalità ma alternativamente specifiche parti di esso (come verificatosi nel 2022 con rilevantissime perdite per il settore auto) – ricorda quella ad esempio del comparto dei noli marittimi ed è essenzialmente dovuta da un lato ai lunghi tempi necessari per accrescere la capacità produttiva a fronte di incrementi nella domanda e dall’altro al fatto che al momento in cui l’offerta addizionale è finalmente pronta ci si può accorgere che la somma degli investimenti fatti dalle diverse imprese è eccessiva e/o (come sta accadendo ora) che la domanda è nel frattempo calata a causa di una crisi globale dell’economia. E, analogamente a quanto accade per i noli marittimi, gli sbalzi dei prezzi possono essere molto elevati.
Infine, qualche dato. La Tab. 1, come ampiamente spiegato nelle note, mette a confronto la dinamica dei valori di Borsa delle principali imprese dell’ecosistema dei chip – TSMC, Nvidia, Samsung e ASML – con quelli delle big tech statunitensi e cinesi. È interessante notare come al momento attuale TSMC, Nvidia e ASML siano tra le imprese di maggior valore al mondo anche in termini assoluti: TSMC è addirittura al nono posto, alle spalle delle prime quattro big tech statunitensi, della prima cinese, di Saudi Aramco (prima nell’oil & gas), della Berkshire H. (la società assicurativo-finanziaria nota per avere a capo Warren Buffett) e di Visa; Nvidia è quattordicesima; ASML trentesima (terza fra le europee alle spalle di LVMH e Nestlé); meno significativo il caso di Samsung, ventiduesima, per le ragioni viste in precedenza. È interessante notare anche come la loro dinamica recente non sia troppo diversa da quella delle big tech statunitensi: TSMC e ASML, in particolare, sono tra le imprese tech che – analogamente a Apple – hanno subito minori cali rispetto al massimo raggiunto durante la pandemia, mentre più forte è stata la caduta di Nvidia (in linea, peraltro, con quella di Amazon), che appare aver risentito della crisi dei “crypto miners”, suoi importanti clienti. È interessante notare infine come la crescita del loro valore rispetto al periodo precedente la pandemia sia stata nettamente superiore a quella delle big tech per Nvidia, che l’ha quasi triplicato, e ASML, che l’ha più che raddoppiato, e comunque circa allineata con Apple quella di TSMC.
La Tab. 2 invece, riservata alle sole imprese dell’ecosistema dei chip, guarda ai dati di bilancio: al volume dei ricavi in particolare e all’utile netto. Ci sono varie considerazioni che si possono fare, né citerò solo alcune e in modo disorganico.
I distacchi nei ricavi, innanzitutto, sono molto inferiori rispetto a quelli fra i valori attribuiti dalle Borse: non guardando a Samsung, sono due – TSMC e Intel – le imprese che si distaccano, collocandosi attorno ai 70 miliardi di dollari; sono ben 10 le imprese con ricavi nella fascia fra 45 e 20 miliardi di dollari e altre cinque (STMicroelectronics compresa) fra 20 e 15; ma non va dimenticato che la complessità dell’ecosistema favorisce la nascita di subcomparti/ nicchie e rende più frammentata la competizione. Anche per merito di questa frammentazione, i livelli degli utili sono (con poche eccezioni) piuttosto elevati: l’utile netto di TSMC, 37,8 miliardi, è pari a quasi la metà dei ricavi, ma come visto in precedenza va a premiare una attività a intensità di capitale molto elevata; l’utile netto di Texas, che fattura meno di un terzo rispetto a TSMC, è ancora più alto se posto in relazione ai ricavi. Non esistono infine correlazioni che saltino immediatamente agli occhi fra i valori assegnati dalle Borse e i livelli netti degli utili: presumibilmente a causa delle differenze (qui non visibili) nelle esigenze di capitali e a causa delle differenze nelle prospettive che le Borse stesse a torto o ragione vedono, ad esempio legate alla diversa dinamica che la domanda potrebbe avere nei differenti comparti/nicchie piuttosto che al diverso potenziale innovativo.