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Dazi Trump, così l’Europa può sopravvivere e innovare



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I dazi Usa hanno rinfocolato il dibattito sulla sovranità digitale europea. Ma per innovare e rafforzarci sul digitale, superando questa fase, l’Europa deve seguire un’altra strada. Non dazi e presunta autonomia, ma diventare più competitiva su scala globale

Pubblicato il 4 apr 2025

Stefano da Empoli

presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)



dazi trump sovranità europea

I dazi annunciati nei giorni scorsi da Trump e che entreranno in vigore la prossima settimana hanno rinfocolato il dibattito sulla sovranità digitale europea, intesa come capacità di fare affidamento sulle proprie tecnologie, indipendentemente da fattori o restrizioni esterni.

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Purché naturalmente le soluzioni tecnologiche alternative disponibili siano sufficientemente competitive in termini di qualità, prezzo e innovazione. Circostanza che oggi purtroppo è molto lontana dalla realtà, con buona pace di chi vorrebbe fughe in avanti che non solo non sono possibili ma che, qualora ricercate, rischiano di tradursi in bruschi risvegli. 

Le possibili ritorsioni ai dazi e il ruolo dell’innovazione digitale

Anziché annunciare subito misure di ritorsione nei confronti delle decisioni annunciate dal presidente americano, la Commissione europea proverà a negoziare per scongiurare o quantomeno attutire gli impatti di una guerra commerciale con gli USA. In effetti, nonostante il grande lavoro preparatorio che è stato sicuramente fatto nell’ultimo anno, con l’istituzione di una task force ad hoc, il menu di possibili scelte potrebbe risultare a dir poco indigesto per l’Europa.

Dato il forte avanzo della bilancia commerciale di beni che l’Unione europea può vantare nei confronti degli USA, una ritorsione generalizzata che a sua volta potrebbe innescare un’ulteriore escalation da Oltreoceano, potrebbe non essere la soluzione più saggia. Anche perché a perderci di più sarebbe inevitabilmente il vecchio continente, che è quello che si presenta in aspetto migliore in un match che potrebbe essere molto sanguinoso per i due contendenti.

I servizi arma in mano all’UE

Per questo da molte parti in Europa si sono levate richieste per colpire gli Stati Uniti dove potergli fare più male, cioè nei servizi. Rispetto ai quali Washington vanta un avanzo con il vecchio continente di ben 109 miliardi di dollari che quasi compensa il disavanzo tra import ed export di beni che sempre nel 2023 era di 157 miliardi di dollari. Dato che una parte consistente di questo surplus è dovuto al predominio USA nelle tecnologie digitali, per molti si tratterebbe di prendere due piccioni se non addirittura tre con una sola fava.

La sovranità UE

Questa mossa, oltre a segnare un ottimo colpo nella guerra commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, aiuterebbe la sovranità tecnologica europea a consolidarsi lungo le linee tracciate ad esempio dal progetto di EuroStack, presentato negli scorsi mesi da un gruppo di esperti guidato da Francesca Bria. E in più sarebbe un ottimo modo per dare una lezione all’opportunismo delle Big Tech statunitensi che non solo sono passate armi e bagagli nel campo trumpiano ma si fanno sempre più scudo della protezione politica acquisita per sparare ad alzo zero contro la regolamentazione europea.

Anche se in realtà, a punire questi ultimi, ci ha già pensato Trump, visto che nel tracollo di borsa che è seguito agli annunci dell’altro giorno, il più grave dal marzo 2020, quando il Covid incominciava a scuotere l’economia mondiale,  tempi del Covid, a farne le spese sono state molte delle principali società tecnologiche, in primis Apple, Amazon, Meta e la stessa Tesla di Musk, con cadute dei corsi azionari che si sono avvicinate al 10%.

Apple e Nvidia hanno perso 470 miliardi di valore azionario insieme.

È però soprattutto l’assunto relativo alla sovranità digitale europea a lasciare perplessi. Ad oggi in quasi tutti i segmenti che compongono la catena del valore nel digitale non ci sono alternative di pari livello alle imprese americane, con l’eccezione della litografia chip dove Asml è pressocché monopolista.

Come ha scritto nei giorni scorsi sul Corriere della Sera Francesco Giavazzi, sintetizzando uno studio realizzato insieme ad altri economisti della Bocconi e di università americane per la Commissione ECON del Parlamento europeo, colpire le big tech americane sarebbe come sparare sui consumatori e sulle imprese europee non solo e non tanto per i danni economici diretti che questo provocherebbe ma per il rallentamento nell’adozione delle tecnologie digitali che ne deriverebbe. Di fronte a un continente che negli ultimi decenni ha perso competitività proprio a causa del non aver intercettato la rivoluzione digitale, come ha impietosamente descritto il rapporto Draghi solo pochi mesi fa, sarebbe un lusso che non possiamo proprio permetterci.

L’autonomia strategica e i limiti attuali. Il modello di Eurostack

In effetti, la stessa analisi di partenza del progetto di Eurostack parte dalla constatazione che l’Europa è indietro in tutti gli strati che compongono la catena del valore del digitale, dalle materie prime critiche fino alle applicazioni di intelligenza artificiale. L’unica situazione di vantaggio competitivo, offerta dall’olandese ASML nella produzione di macchine di ultima generazione per la produzione di chip, è a serio rischio come già riportato su questa testata nei giorni scorsi.

Dunque, il piano immaginato, che dovrebbe portare a un riequilibrio tecnologico a favore dell’Europa, è giocoforza di orizzonte decennale e punta a investimenti massicci nonché a un quadro federato con un mix di centralizzazione e decentramento su 7 strati interconnessi e sovrapposti: risorse (materiali critici e terre rare), semiconduttori, reti, dispositivi connetti e IoT, infrastrutture cloud, piattaforme software e applicativi, dati e intelligenza artificiale. Il progetto è sicuramente affascinante e traccia uno scenario che almeno in astratto appare condivisibile, pienamente coerente con i valori più cari a noi europei.

I problemi da superare in Europa sull’innovazione dopo i dazi Trump

Sconta però due limiti fondamentali. Non è chiarissimo come potrebbe essere finanziato e, prima ancora, se gli investimenti immaginati siano sufficienti a ridurre effettivamente il gap tecnologico rispetto alle enormi risorse che Stati Uniti e Cina stanno mettendo in campo.

Inoltre, si basa su una lettura non del tutto convincente di come funziona un ecosistema innovativo di successo. Che si basa su un mix di competizione e cooperazione dove solitamente la prima prevale comunque sulla seconda.

È così negli Stati Uniti ma anche nella stessa Cina, dove la rivalità tra una vasta pluralità di aziende è estrema e ridisegna continuamente la catena del valore. Il modello Eurostack, con le sue geometrie cartesiane, sembra sottovalutare questa componente, immaginando a tavolino un disegno dei mercati che nella realtà, specie quando si parla di vera innovazione, finisce per essere (per fortuna) una chimera.       

Dazi Trump, cosa dovrebbe fare l’UE sull’innovazione

Per aspirare concretamente a raggiungere una sufficiente competitività e dunque una vera e robusta sovranità nel digitale, l’Europa, oltre a investire in innovazione molto più di quanto stia facendo e a accelerare sulla strada di un mercato realmente unico, deve operare di fioretto più che di spada rispetto alle misure di Trump, facendo leva sulle attuali condizioni di contesto che vedono tra i leader di mercato aziende extra-europee, di cui molte americane.

E allora occorrerebbe fare di necessità virtù. D’altronde, non è probabilmente un caso che l’impresa europea più competitiva nei modelli fondazionali dell’intelligenza artificiale generativa sia Mistral, figlia diretta del capitalismo tecnologico statunitense. Grazie al quale, peraltro senza abbandonare l’Europa, i suoi fondatori, ovviamente con loro grandi meriti, si sono fatti le ossa e una parte consistente dei fondi per finanziarne l’impresa sono arrivati.

Come fare dunque, per rispondere più efficacemente possibile alla postura aggressiva dell’amministrazione americana? Ad esempio, legando alla politica commerciale (ma anche all’enforcement della regolamentazione) l’attrazione degli investimenti esteri sul territorio europeo.

Oppure evitando esclusioni tout court delle imprese USA dal procurement, che servirebbero solo a lasciare le amministrazioni pubbliche europee in balia di tecnologie inferiori, ma semmai spingendole a consorziarsi o ad avere una catena di fornitori europei.

Insomma: non dazi, ma diventare più competitivi su scala globale. La strada opposta a quella seguita dagli Usa.

D’altronde è stato con le famose joint venture con investitori esteri che la Cina è riuscita a ridurre il gap tecnologico con l’Occidente fino al punto di incominciare a sopravanzarlo in alcuni settori chiave. E gli stessi Stati Uniti condizionano ad esempio le commesse militari fornite da player esteri a partnership locali. Ne sanno qualcosa Leonardo e Fincantieri.

Perlopiù quindi non si tratta di inventarsi nulla di nuovo. Ma di perseguirlo con coraggio, capacità di visione e necessaria perseveranza.

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