Mai come in questi mesi la difesa del copyright ha raggiunto traguardi importanti nel nostro Paese e in seno all’Ue: i provvedimenti adottati e le decisioni delle Corti nazionali e comunitarie hanno fatto segnare progressi che superano quelli riscontrati in materia negli Stati Uniti, la nazione ove la lotta alla pirateria è sorta e ha svolto un ruolo predominante fino alla fine dello scorso secolo.
Le ragioni di questa attuale diversità di atteggiamento dell’Europa rispetto agli USA verso il copyright, trovano ancora una volta una spiegazione di natura economica. I colossi multinazionali che controllano il mercato digitale dei contenuti sono tutti (o quasi) rappresentati da aziende d’oltreoceano. Tali imprese svolgono un ruolo determinante per la globalizzazione e per la gestione delle informazioni sulla rete, ma esse sono al contempo entità che gestiscono i contenuti, i quali ultimi – ove non siano creati dagli utenti – appartengono a terze imprese, titolari dei diritti o licenziatarie esclusive dei medesimi.
La querelle circa i limiti e le responsabilità derivanti dall’appropriazione dei contenuti da parte degli utenti e dalla comunicazione al pubblico degli stessi attraverso i siti web e i motori di ricerca, costituisce uno degli aspetti più evidenti di una situazione di distorsione del mercato che per i titolari dei diritti ha raggiunto livelli inaccettabili. Inoltre, coloro i quali dovrebbero godere della facoltà esclusiva di disporre dei propri contenuti e di trarre da essi un ritorno economico, o almeno parte di esso, derivante dalle visualizzazioni e dai ricavi pubblicitari che quelli producono, sono esclusi da questa triangolazione che va a beneficio esclusivo di ISP e utenti che si suddividono contrattualmente il frutto dell’utilizzazione dei beni altrui.
In Italia, ancor prima che in Europa, i giudici hanno progressivamente compreso questa anomala situazione di “free ride” di cui si avvalgono i fornitori di servizi di “hosting”, elaborando attraverso l’ermeneutica concetti che si sono radicati nel tempo per il tramite delle loro decisioni, dimostratesi capaci di riflettere la realtà digitale ed il suo progressivo mutamento, come si constata dall’esame di un numero crescente di provvedimenti giudiziari. Dalla sentenza del 16 dicembre 2009 della Sezione Specializzata IP di Roma, che ha introdotto la figura “dell’hosting provider attivo”, fino alle ultime decisioni, la ricostruzione dei fatti oggetto di causa, svela un preciso disegno da parte dei gestori delle piattaforme digitali volto alla monetizzazione dei contenuti caricati sulla rete dagli utenti e posti a disposizione del pubblico gratuitamente.
Nell’inquadrare tale fenomeno alla luce delle vigenti norme in materia di e-commerce, i giudici nazionali hanno compreso che l’effettiva conoscenza da parte dei fornitori dei servizi (di hosting) delle violazioni poste in essere tramite le piattaforme digitali, comporta una serie di conseguenze che, inizialmente valutate come neutre, hanno assunto valenze significative andando ad incidere direttamente sul patrimonio dei detentori dei diritti. Ci riferiamo, in particolare: a) alla smisurata presenza abusiva sulla rete di file contenenti opere tutelate di identico seme o contenuto; b) alla asserita impossibilità (oltre che alla pretesa assenza di un obbligo giuridico) da parte dei gestori delle piattaforme di rimuoverli totalmente; c) ai nuovi caricamenti dei medesimi contenuti posti in essere dagli utenti; d) alla presenza di banner e di messaggi pubblicitari abbinati ai suddetti contenuti; e) alla disponibilità di sistemi di identificazione dei contenuti abusivi da parte dei gestori dei principali siti web che ospitano materiale immesso sulla rete dagli utenti; f) al danno causato ai detentori dei diritti dalle suddette attività cui questi ultimi sono estranei.
Sui punti sopra brevemente tratteggiati le determinazioni delle Corti, dopo un iniziale periodo di incertezza, hanno stabilito che – ove le piattaforme siano connotate da finalità commerciali attuate per il tramite dello sfruttamento abusivo di opere protette di terzi, in cui il sistema operativo adottato risulti incompatibile con l’attività passiva tipica dell’hosting provider – non solo devono attivarsi per rimuovere i contenuti loro indicati, ma debbono anche impedire nuovi caricamenti delle stesse, assumendosene il relativo costo.
In base alle sentenze più recenti la creazione di siti web organizzati all’offerta non autorizzata di opere tutelate, rappresenta un grave danno per i titolari dei diritti che deve essere adeguatamente compensato.
Si comincia in tal modo a delineare un perimetro dell’azione degli ISP che non si configura solo come un’estensione dell’ambito della responsabilità degli utenti (intoccabili alla stregua delle norme sulla privacy), ma anche come l’espressione di un obbligo risarcitorio del danno causato ai proprietari dei contenuti orientato verso il “prezzo del consenso”, cioè nella direzione di una valutazione legata al quantum corrisposto – ceteris paribus – sul mercato per acquisirne analoghi diritti. In questo teorema appare chiaro quindi che lo sfruttamento economico di un bene altrui vada remunerato secondo logiche di mercato tutte le volte in cui l’offerta di servizi attuata attraverso le piattaforme digitali, appaia consapevolmente costruita ed organizzata allo scopo di sfruttare l’altrui investimento.
Lo sviluppo di tali modelli di business non si limita ad avere rilevanza sotto l’aspetto della violazione dei diritti d’autore: esso dà vita anche a un’attività concorrenziale illecita. Quale operatore nel mercato dei media può infatti competere sul mercato dell’audience e della pubblicità per i prodotti relativamente ai quali detiene i diritti esclusivi, se i suoi stessi prodotti sono disponibili per gli utenti a titolo gratuito su una piattaforma digitale visibile worldwide che li indicizza, li organizza e li pone a disposizione del pubblico per la visione con la pubblicità pre-inserita?
La difficoltà che si pone di fronte agli operatori è quella di mantenere la convinzione di sostenere sul piano della legalità iniziative commerciali non condivise fra tutti coloro che hanno titolo per prendervi parte; questo genera l’evidente necessità da parte dei Governi di rivedere questo comparto essenziale delle comunicazioni e della libertà di espressione, concetti questi che, per quanto estesi essi possano essere considerati, non possono giustificare l’appropriazione di beni altrui.