Il Tribunale di Milano ha condannato Meta al pagamento dell’importo di 5.000,00 euro a titolo di risarcimento per non aver rimosso tempestivamente dei post palesemente diffamatori, seppur scarsamente diffusi e consultati. La condanna è basata sulla responsabilità oggettiva del prestatore di servizi, principio che trova le sue origini nell’art. 16 del d.lgs. 70/03.
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I fatti
Il Tribunale di Milano, prima sezione civile, ha condannato Meta a pagare un risarcimento di 5.000,00 euro alla Snaitech, al centro di alcuni post diffamatori pubblicati sul social network nelle pagine “Truffa Snaitech” e “Snaitech Truffa”, in cui le venivano attribuite delle condotte penalmente rilevanti, come la truffa, la minaccia, la corruzione e l’induzione a violare la legge.
Invero, i post pubblicati dall’autore dei contenuti si riferivano a vicende giudiziarie in cui era stata coinvolta la società, al termine delle quali però l’Autorità giudiziaria non aveva accertato alcuna responsabilità in capo ad essa. Dunque, i contenuti diffamatori erano stati pubblicati sulla base di mere convinzioni personali del loro ideatore, che non trovavano alcun riscontro nella realtà dei fatti.
Snaitech ha prontamente notificato a Facebook la presenza degli accennati contenuti, ma il gruppo di moderazione del social network non li ha rimossi se non dopo mesi. Pertanto, l’azienda ha convenuto in giudizio Meta, chiedendo di essere risarcita per i danni subiti per la tardiva rimozione dei contenuti.
Diffamare non è diritto di critica
Il social network, costituendosi in giudizio, ha sostenuto che l’autore dei post aveva esercitato il proprio diritto di critica e che, comunque, la rimozione dei post diffamatori sarebbe potuta avvenire solo e soltanto se ci fosse stato un preventivo intervento dell’Autorità giudiziaria che ne attestasse la loro illiceità.
Il Tribunale di primo grado ha ritenuto infondate le ragioni addotte da Meta, da un lato, perché chiunque potrebbe trincerarsi dietro il diritto di critica per pubblicare contenuti denigratori ed offensivi, dall’altro, perché la responsabilità di Facebook è quella del prestatore di servizi, così come disciplinata dal d.lgs. 70/03, e, quindi, avrebbe dovuto procedere senza indugio alla rimozione dei post diffamatori, senza attendere – come ha fatto – un lasso di tempo troppo lungo.
Infatti, sempre secondo il Tribunale, la durata contenuta e l’esiguo numero di post contribuiscono solo a limitare l’importo del risarcimento e non certo la responsabilità di Meta, visto che «la capacità diffusiva di una informazione condivisa tramite la piattaforma di un social network travalica spesso i limiti della stessa. Infatti, un contenuto ivi pubblicato è certamente idoneo ad essere immagazzinato in dispositivi personali e riprodotto indipendentemente dalla volontà del gestore della piattaforma nonché trasmesso ad un’indefinita platea di soggetti; e ciò si verifica a prescindere dalle interazioni concretamente verificabili a margine del contenuto (condivisioni sulla piattaforma, “mi piace” ovvero commenti allo stesso da parte degli utenti)».
In altre parole, Facebook è responsabile perché i post diffamatori, se non prontamente rimossi, possono essere potenzialmente diffusi a una platea indeterminata di persone anche al di fuori del social network stesso, tramite, ad esempio, screenshot memorizzati sui dispositivi personali degli utenti e da costoro diffusi ad altri soggetti.
La responsabilità di Facebook è quella del prestatore di servizi
È interessante notare come il Tribunale meneghino abbia qualificato Facebook come un prestatore di servizi ex d.lgs. 70/03: detto soggetto fornisce servizi della società dell’informazione, ovvero qualsiasi servizio prestato a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale del destinatario del servizio. Dunque, possono essere considerati prestatori di servizi ai sensi del D.Lgs. 70/03 le aziende che gestiscono i siti web che offrono servizi di e-commerce, di hosting, di e-learning o di social networking.
Come è noto, il prestatore di servizi è tenuto a rispettare tutta una serie di obblighi previsti dalla citata normativa, (tra cui l’obbligo di fornire informazioni complete e trasparenti sui propri servizi e sulle proprie politiche di privacy, l’obbligo di fornire un servizio sicuro e garantire la sicurezza dei dati dei propri utenti, l’obbligo di indicare il proprio domicilio fiscale e l’obbligo di fornire un canale di comunicazione con i propri utenti) ed anche quello di rimuovere i contenuti illeciti. Infatti, il prestatore di servizi deve rimuovere immediatamente qualsiasi contenuto illecito dal proprio sito web o dalla propria piattaforma, non appena ne ha conoscenza.
Detto obbligo va letto congiuntamente al disposto dell’art. 16 dell’accennato decreto legislativo che prevede un esonero di responsabilità del prestatore per gli illeciti commessi dai propri utenti, a meno che non abbia avuto effettiva conoscenza dell’attività illecita e non abbia agito con prontezza per rimuovere o disabilitare l’accesso a tali informazioni.
In sostanza, l’articolo 16 del d.lgs. 70/03 malleva il prestatore di servizi da ogni responsabilità conseguente alla condotta dei propri utenti, a condizione che abbia adottato misure tecniche ed organizzative in grado di prevenire la pubblicazione di detti contenuti e, comunque, di rimuoverli tempestivamente.
Nel caso in esame, Facebook era perfettamente a conoscenza del contenuto dei post diffamatori, dato che le erano stati segnalati per ben due volte dall’azienda lesa, ma non ha provveduto alla loro rimozione immediatamente, ma solo dopo tre mesi dalla loro pubblicazione: dunque, a detta del Tribunale di Milano, «all’hosting provider si rimprovera una condotta commissiva mediante omissione e, quindi, di aver concorso nel comportamento lesivo altrui a consumazione permanente».
Conclusioni
La sentenza in esame, seppur resa dal giudice di merito e non dalla Corte di Cassazione, è senza dubbio di particolare interesse per gli operatori del settore e per chiunque, vittima di post diffamatori, s’è visto negare da Meta la rimozione degli stessi.
Tra l’altro, lo spirito della sentenza non è dissimile da quello del Digital Services Act e del Digital Markets Act, già ampiamente analizzati, che sono diretti verso una maggiore responsabilizzazione delle big tech, il cui ruolo non può più essere quello di terzo estraneo ai rapporti fra gli utenti, ma di garanzia, proprio affinché siano scongiurate vicende che possano ledere la dignità, l’onorabilità e ogni altro diritto e libertà di ognuno di noi.