Il Digital Services Act (DSA – Regolamento (UE) 2022/2065) è entrato in vigore lo scorso 16 novembre 2022, ma diverrà pienamente applicabile solo a partire dal prossimo 17 febbraio 2024; ci troviamo quindi in un regime di interregno, che comporta una serie di passaggi tecnici anche per permettere di capire a quali soggetti si applicheranno i nuovi obblighi previsti dal Regolamento e che consente alla Commissione Europea di avere sufficiente margine per lavorare sui regolamenti delegati che aiuteranno operatori ad amministrazioni ad attuare il Regolamento nella sua interezza.
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E la Commissione ha iniziato i lavori su questi atti delegati proprio con l’attuazione di una controversa disposizione inserita all’interno del DSA, ovvero l’imposta ad personam che le Big Tech (per usare i termini del Regolamento parliamo di “fornitori di piattaforme online di dimensioni molto grandi e di motori di ricerca online di dimensioni molto grandi”) saranno tenute a versare all’Unione per contribuire a sovvenzionare le attività di vigilanza sul loro operato.
Ancor prima quindi di sapere chi saranno i “fornitori di piattaforme online di dimensioni molto grandi e di motori di ricerca online di dimensioni molto grandi” (ai sensi dell’art. 33 del DSA serve infatti una decisione della Commissione sul punto, ricognitiva del fatto che tali piattaforme hanno un “numero medio mensile di destinatari attivi del servizio nell’Unione pari o superiore a 45 milioni”) sappiamo come questi fornitori dovranno pagare l’imposta sulla vigilanza, imposta che verrà esatta, verosimilmente, a partire dall’autunno 2023.
La previsione del DSA
Secondo l’articolo 43 del DSA l’importo complessivo dei contributi annuali per le attività di vigilanza è inteso a coprire i costi stimati sostenuti dalla Commissione in relazione ai suoi compiti di vigilanza a norma del Regolamento DSA e, in particolare:
- i costi relativi alla designazione delle piattaforme di grandi dimensioni;
- i costi relativi all’istituzione, alla manutenzione e al funzionamento della banca dati relativa ai criteri secondo cui sono imposte restrizioni in caso di contenuti illegali o incompatibili con le condizioni contrattuali (banca dati che è destinata però ad essere popolata anche dai fornitori non “molto grandi” e che quindi non sembra fisiologico far pagare unicamente a quest’ultima categoria di fornitori);
- i costi relativi all’implementazione del sistema di condivisione delle informazioni tra i coordinatori dei servizi digitali, la Commissione e il Comitato europeo per i servizi digitali istituito in seno al Regolamento DSA,
- i costi relativi alle segnalazioni gestite dal Comitato e/o deferiti alla Commissione;
- i costi relativi al sostegno amministrativo e analitico del Comitato;
- i costi relativi ai compiti di vigilanza veri e propri (indagini, ricorsi, reclami, sanzioni, riscossione delle sanzioni, …).
Siamo quindi di fronte ad un plesso di attività molto variegato ed è proprio per questo che si spiega anche la previsione relativa all’imposizione della tassa a partire dall’autunno 2023 (ovvero prima della data di effettiva applicabilità del DSA nella sua interezza, il 17 febbraio 2024): l’imposta infatti non è propriamente una imposta tesa a rimborsare l’Unione per i soli costi di vigilanza, bensì per tutta una serie di attività che fanno da contorno alla vigilanza vera e propria e, in particolare, l’attività tesa alla designazione delle piattaforme “di dimensioni molto grandi”, che sta avvenendo proprio in questo momento, con i fornitori di servizi che hanno avuto fino al 17 febbraio 2023 per indicare il numero medio mensile di destinatari attivi in UE sui loro siti web (la Commissione ha anche invitato le piattaforme a notificarle il numero di utenti attivi).
Va segnalato che l’obbligo di pubblicazione coinvolge tutti i fornitori di servizi online, ad eccezione delle sole microimprese o piccole imprese (la definizione rimanda alla raccomandazione 2003/361/CE e include le imprese che impiegano meno di 50 dipendenti ed hanno fatturato annuo inferiore ai 10 milioni di €).
Ora la Commissione procederà a individuare le piattaforme/motori di ricerca di dimensioni molto grandi (oltre 45 milioni di destinatari/mese, che corrispondono al 10% della popolazione UE) e notificherà loro la decisione assunta.
A quel punto le imprese avranno quattro mesi per adeguarsi ai più rigidi requisiti imposti dal Regolamento DSA ai fornitori “molto grandi” (identico meccanismo è previsto nel caso in cui una piattaforma raggiunga la soglia per essere definita fornitore “molto grande” in un secondo momento, i dati relativi ai destinatari/mese vanno infatti aggiornati e pubblicati ogni sei mesi).
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Il Regolamento attuativo della Commissione
Il Regolamento attuativo adottato dalla Commissione lo scorso 2 marzo (e che ora sarà sottoposto al vaglio di Parlamento e Consiglio) porta le istituzioni europee solo a metà del guado, per avere una compiuta definizione degli importi che le big tech dovranno pagare è infatti necessario che la Commissione (a valle del compiuto censimento delle piattaforme di dimensioni molto grandi) adotti un ulteriore atto esecutivo in cui stabilirà (anno per anno) il contributo dovuto.
Il Regolamento attuativo costituisce quindi solamente un atto di specifica in relazione ai criteri che la Commissione stessa dovrà seguire nel momento in cui annualmente deciderà la misura dell’imposta sulla vigilanza.
Innanzitutto, la Commissione suddivide il calcolo della “supervisory fee” in due step distinti, il primo destinato alla determinazione del “valore base” per ciascun servizio sulla base di una stima preventiva dei costi in cui la Commissione incorrerà nell’anno a venire, ed il secondo destinato al calcolo dell’importo individuale per singolo fornitore, proporzionata al suo numero di utenti attivi.
L’imposta non può superare la soglia dello 0,05% del fatturato annuo netto del fornitore nell’anno precedente.
L’imposta si applica (pro quota) anche alle imprese che nel corso dell’anno dovessero essere designate quali fornitori “molto grandi” e il Regolamento prescrive il recupero (con interessi e sanzioni) delle somme non pagate entro i termini che verranno annualmente indicati dalla Commissione in una con gli importi da versare.
Il Regolamento attuativo si chiude con una previsione per il recupero dei costi in eccesso rispetto alla previsione nell’anno successivo, ovvero con la diminuzione proporzionale dell’imposta nell’anno seguente caso in cui nell’anno in corso il budget sia stato impiegato in misura inferiore rispetto a quanto stimato.
Conclusioni
Rispetto alla “commissione” dello 0,1% di cui si parlava nelle prime stesure del DSA, la normativa attuale appare più equilibrata nell’imporre a carico delle imprese “molto grandi” solo costi determinati e con una soglia limite dimidiata rispetto a quanto originariamente proposto.
Restano però delle perplessità su questa tassa non perfettamente “sinallagmatica” come vorrebbe apparire, perché impone alle piattaforme “molto grandi” di concorrere a spese che interessano la generalità delle piattaforme web.
Altra perplessità deriva dal fatto che la “soglia” dello 0,05% è calcolata sull’utile netto annuo globale di queste piattaforme, soluzione che (pur calmierata dal criterio di calcolo che calibra la tariffa sulla base degli utenti europei) non sembra a fuoco se pensiamo ad aziende che, pur di grandi dimensioni, generano la stragrande maggioranza del proprio fatturato all’estero (magari proprio perché al di fuori dell’UE possono profittare di discipline più lassiste in tema di profilazione e advertisement online) e potrebbero quindi andare soggette ad una imposizione sproporzionata rispetto agli utili effettivamente generati dal nostro mercato, scoraggiando quindi la piattaforma dall’ingresso o dalla permanenza in UE.
In ogni caso il “meccanismo” della tassa di sorveglianza sembra piacere al legislatore comunitario, che già l’ha adottato nel settore delle telecomunicazioni e della vigilanza bancaria, e c’è quindi da aspettarsi che lo vedremo sempre più spesso affacciarsi nella normativa UE, anche se bisognerà vedere se reggerà alla prova dei fatti, specie per le difficoltà pratiche di intercettare con costanza e nel tempo i fornitori di grandi dimensioni (specie se “insospettabili”) e di contestare i numeri da questi forniti (complice anche l’incertezza definitoria insita nel concetto di “destinatari attivi”).