editori e internet

Direttiva copyright: tutti i rischi di una legge nazionale precipitosa

Quando gli editori invocano l’implementazione frettolosa della Direttiva europea sul copyright evocano un diritto assoluto ed incondizionato alla remunerazione che, invece, la direttiva non contiene. Ecco le incognite di una trasposizione poco ragionata dell’art. 15 della direttiva nel diritto nazionale

Pubblicato il 21 Mag 2020

Innocenzo Genna

giurista specializzato in diritto e policy europee del digitale

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In questi giorni in Italia si moltiplicano le voci, per lo più degli editori dei principali quotidiani nazionali e della rispettiva associazione, la FIEG, che chiedono al governo italiano di accelerare l’implementazione della nuova Direttiva europea sul copyright (la n. 2019/790 del 17 aprile 2019). La richiesta riguarda, in verità, solo una specifica norma della direttiva, vale a dire l’art. 15 sul diritto degli editori di esigere una remunerazione per l’uso online delle loro pubblicazioni giornalistiche, per esempio ad opera degli aggregatori di notizie e delle piattaforme social. Gli appelli fanno riferimento ad altri paesi europei in cui l’art. 15 della direttiva sarebbe già stato applicato (in Francia) ed enfatizzano il tema dei danni economici che gli editori ritengono di subire a causa della presunta appropriazione dei contenuti giornalistici da parte degli operatori Internet.

Come sta andando la direttiva copyright in Europa

I segnali che arrivano dagli altri paesi europei che si sono già cimentati nell’impresa di trasporre in diritto nazionale la direttiva copyright sono tutt’altro che incoraggianti.

In Spagna era stata adottata una legge nazionale già prima della direttiva, nel 2014, ma Google preferì chiudere direttamente il servizio News piuttosto che pagare il compenso agli editori. Pur con queste premesse, il governo spagnolo ancora non ha implementato l’art. 15 della direttiva.

Anche in Germania una legge nazionale aveva provato ad anticipare la direttiva europea, ma l’iniziativa si è risolta con un pagamento di soli 700.000 euro da parte dei piccoli operatori Internet, mentre Google si è rifiutata di pagare, ottenendo invece una licenza gratuita dagli editori dopo averli avvisati che li avrebbe altrimenti deindicizzati, cioè fatti sparire dalla ricerche. Il caso è finito in contenzioso e nel frattempo la Corte europea ha invalidato la normativa tedesca. La Germania ha desistito ed è quindi passata alla trasposizione della direttiva europea, che però è tutt’ora in alto mare.

L’unico paese europeo che ha trasposto l’art. 15 della direttiva è, per ora, la Francia. Anche qui Google si è rifiutata di pagare, ritenendo che la disponibilità degli articoli online nelle sue ricerche debba essere oggetto di una licenza gratuita, avendo gli editori francesi applicato le direttive HTML (con cui si richiede l’indicizzazione in Google) ai propri siti. Come in Germania, anche in Francia il caso è finito in contenzioso poiché gli editori si sono dichiarati costretti a rilasciare la licenza gratuita per non perdere l’indicizzazione in Google. Gli editori francesi sono riusciti a ottenere una decisione favorevole dall’antitrust, ma solo fino ad un certo punto, poiché l’autorità ha disposto che Google sia obbligato a negoziare e debba offrire una qualche utilità economica maggiore di zero, ma si è ben guardata dell’indicare tariffe o criteri da applicare.

Le ragioni di Google (e della comunità Internet)

L’atteggiamento di Google può sembrare quello del bullo, ma in verità è basato su una semplice logica commerciale: il gigante californiano nega di arricchirsi con le pubblicazioni online, anzi ritiene di essere lui stesso a rendere un servizio agli editori portando loro del traffico Internet, vale a dire le visualizzazioni degli internauti che cliccando sulle pubblicazioni in Google News (o Search) sono poi indirizzati sul sito del quotidiano e leggono l’articolo originale per intero. Gli editori replicano che però non sempre gli internauti cliccano sulla notizia e spesso si limitano a leggere i titoli e gli estratti, facendo così venir meno il traffico Internet verso i loro siti. Inoltre ritengono che il potenziale arricchimento di Google debba essere comunque loro remunerato.

Il ragionamento di Google è tecnicamente condiviso dalla comunità Internet che, invece, normalmente critica il gigante californiano su altri temi, ad esempio privacy e concorrenza. Sul tema copyright c’è invece un certo allineamento: la comunità Internet, pur riconoscendo i problemi economici dell’editoria, si è normalmente schierata contro la direttiva sostenendo che le difficoltà degli editori deriverebbero soprattutto dal loro antiquato business model e dall’incapacità di adeguarsi alla digitalizzazione delle informazioni (analogamente a quanto accaduto nel settore musicale già da anni).

In effetti, numerose testate giornalistiche hanno ormai accettato che occorra cambiare business model per adeguarsi alla digitalizzazione del settore ed hanno cominciato a migrare verso le offerte a pagamento (paywall), in modo da ricostituire il reddito basato sulla vendita dei giornali cartacei. Tuttavia, tale migrazione è talvolta ancora in mezzo al guado oppure non perseguita con abbastanza convinzione: questo è il motivo per cui molti editori continuano a puntare ancora così tanto sulla direttiva copyright, e quindi sulla condivisione dei proventi della pubblicità online.

Dura lex, sed lex

La posizione di Google e della comunità Internet non è stata premiata dalla direttiva europea approvata a Bruxelles nell’aprile 2019, che invece ha riconosciuto, con l’art. 15, il principio generale secondo cui qualsiasi utilizzo online delle pubblicazioni giornalistiche debba ricevere una remunerazione da parte di coloro che nel web fanno un tale uso. Su questo principio (in particolare sul “qualsiasi” uso) vi è stato un aspro dibattito in sede europea che ha coinvolto non solo i diretti interessati e, cioè, editori e grandi piattaforme online, ma anche attivisti civili, padri fondatori di Internet, la comunità tecnica di Internet, i giornali online (schierati contro la direttiva, anche perché non avevano un vecchio business da difendere, e cioè la tiratura cartacea). Alla fine del dibattito la distanza tra gli opposti schieramenti non è stata colmata, ma il legislatore europeo ha preso comunque la sua decisione. Quindi il principio della remunerazione per l’uso online delle pubblicazioni giornalistiche è passato e da qui l’Italia deve ripartire per la trasposizione in diritto nazionale, pur avendo peraltro votato contro la direttiva a Bruxelles: dura lex, sed lex.

Tuttavia, come si vedrà nel prosieguo, il diritto alla remunerazione si applica solo sulla base di circostanze qualificanti, e cioè la rilevanza, in termini quantitativi o qualitativi, dei testi delle notizie effettivamente pubblicati online (si tratta del tema degli snippet, che verrà analizzato in seguito). In altre parole, il legislatore europeo ha sancito il diritto alla remunerazione degli editori, ma non in modo assoluto, prevedendo invece che gli operatori Internet possano decidere di pubblicare estratti talmente ridotti e tali che per essi la remunerazione non sia più dovuta. Infatti, secondo il considerando 58 della direttiva, l’utilizzo online di estratti ridotti delle pubblicazioni online non mette a rischio gli investimenti degli editori. Si tratta di una scelta legislativa di buon senso e obbligata, perché una soglia per la remunerazione doveva per forza essere fissata, ma che si porta dietro una conseguenza deflagrante: gli operatori Internet, Google compresa, possono scegliere di posizionarsi al di sotto della soglia di remunerazione in modo che, legittimamente, niente sia più dovuto agli editori. Purtroppo, questi ultimi sembrano aver dimenticato questo aspetto fondamentale della direttiva copyright e quando invocano l’implementazione frettolosa dell’art. 15 evocano un diritto assoluto ed incondizionato alla remunerazione che, invece, la direttiva non contiene in detti termini. Si tratta, peraltro, di un diritto di esclusiva, e non di remunerazione. 

Le incognite della trasposizione in diritto nazionale

A differenza dei regolamenti, le direttive europee non si applicano direttamente negli Stati membri e devono essere “riprodotte” in una legge nazionale, che ne riporta le norme fondamentali e stabilisce i dettagli che sono necessari per l’applicazione pratica. Per quanto riguarda la direttiva copyright, il termine di trasposizione è di due anni, e scadrà il 7 giugno 2021. Prima di quella data l’Italia non è obbligata ad attuare la trasposizione, ma l’appello di FIEG e editori è quello di anticipare i tempi. Curiosamente, la relazione al DDL 1721 del Senato che contiene la delega per la trasposizione della direttiva copyright, sostiene che la direttiva stessa sia “self-executing”, cioè già sufficientemente dettagliata, ma poi si contraddice indicando alcune aree dove invece il legislatore nazionale deve provvedere ai dettagli (anche per l’art. 15).

Le difficoltà che si stanno avendo in paesi ben attrezzati come Francia e Germania, e il fatto che nel resto d’Europa nessun altro paese abbia ancora trasposto la direttiva europea, suggeriscono cautela piuttosto che fretta. Trasporre velocemente la direttiva non vorrebbe dire tutelare efficacemente editori e giornalisti, se non si ha contezza delle difficoltà applicative della direttiva stessa. Il rischio è quello di adottare un testo di legge che semplicemente faccia chiudere un servizio (Spagna), oppure dia luogo a inutili contenziosi e benefici irrilevanti (Germania), o che richieda un successivo passaggio in antitrust dagli esiti velleitari (Francia).

La vaghezza dell’art. 15 della direttiva copyright  e, in particolare, la definizione di “estratto molto breve

Il problema fondamentale della direttiva copyright è che il dispositivo dell’art. 15 è estremamente generico: riconosce agli editori i diritti circa la pubblicazione online dei loro articoli, da cui deriva la facoltà di eventualmente negoziare un compenso o una licenza, ma senza ulteriori specificazioni. Di tale genericità erano peraltro consapevoli le istituzioni europee, che l’hanno però mantenuta per facilitare il raggiungimento di un accordo in Parlamento e Consiglio. Gli stessi editori hanno supportato, in sede legislativa, l’estrema genericità della norma, probabilmente perché ritenevano che tale genericità potesse costituire un vantaggio nelle negoziazioni con le piattaforme: essendo essi titolari di un diritto di esclusiva ai sensi dell’art. 15, avrebbero avuto buon gioco nel negoziare, soprattutto se organizzati collettivamente, tutte le ulteriori condizioni.

La norma sancisce quindi un principio importante, ma senza dettagli. Tuttavia, proprio i dettagli che mancano sono in verità presupposti normativi fondamentali, senza i quali la norma è inapplicabile. Per intendersi, non sono definiti gli “estratti molto brevi” (c.d. “snippet”) che fissano la soglia al di sotto della quale l’esclusiva (e quindi la remunerazione) degli editori non opera. Commissione, Parlamento e Consiglio si sono scervellati per trovare un punto d’incontro, alternando soluzioni “quantitative” (ad esempio: numero delle parole) e qualitative, ma invano. Così la norma è arrivata agli Stati membri “in bianco”, il che vuol dire che essi la devono redigere per intero, senza potersi basare su alcun criterio europeo di riferimento. Quindi, come viene definito lo snippet, oltre il quale l’estratto online della pubblicazione deve essere remunerato agli editori? Potrebbe trattarsi di un certo numero di parole, ma quante?

Gli editori tedeschi propongono un tetto di 3 parole, mentre il governo di Berlino intende porre la soglia ad 8 parole. Anche il governo finlandese sembrerebbe voler difendere un siffatto limite di 8 parole. Si tratta di soglie quantitative che possono avere impatto diverso a seconda dell’idioma con cui è scritta la pubblicazione. Le lingue germaniche e ugro-finniche tendono ad accorpare espressioni in singole parole composte, quindi un tetto di 8 parole potrebbe già incorporare una parte significativa di una pubblicazione. Lo stesso non può dirsi invece per gli idiomi latini, dove le parole composte sono meno utilizzate e per i quali sarebbe perciò necessaria una soglia quantitativa più alta.

Al momento non è neanche chiaro se il titolo dovrebbe essere compreso nello snippet, in altre parole se quest’ultimo  riguardi solo il corpo della pubblicazione, e se inoltre possano essere riportate le foto, come nelle anteprime.

Il tema degli hyperlink

L’incertezza è stata solo parzialmente dipanata con riferimento ai collegamenti ipertestuali (gli “hyperlink”). In un primo momento gli hyperlink sembravano soggetti al diritto degli autori, ed in relazione a ciò la parte avversa alla direttiva ha coniato il termine “link-tax” per indicare l’art.15. Fortunatamente, la versione finale della direttiva ha escluso che di per sé gli hyperlink possano essere tecnicamente “tassati”, ma ha lasciato delle zone d’ombra che ne rendono problematica l’applicazione. La norma infatti non chiarisce come trattare gli hyperlink quando (cioè quasi sempre) essi siano strettamente combinati con parole e testi estratti dall’articolo a cui rimandano: in genere si tratta del titolo dell’articolo, che viene richiamato nell’URL o al di fuori di esso.

Si tratta di un punto che suscita incertezza e che pertanto dovrebbe essere chiarito dal legislatore nazionale in sede di trasposizione della direttiva.

Il ruolo della tecnologia e l’impatto sulle start-up

Non si tratta di dettagli banali, perché la soluzione legislativa scelta per lo snippet avrebbe l’effetto di “disegnare” il modo con cui gli operatori Internet riportano le pubblicazioni giornalistiche (o almeno per quanto riguarda coloro che non intendano essere soggetti al diritto degli editori). Una soluzione troppo rigida, ad esempio il criterio di max 3 parole come proposto dagli editori tedeschi, potrebbe essere sostenibile per Google, che avendo già una piattaforma conosciuta potrebbe permettersi un “restyling” al ribasso del servizio senza perdere utenti, mentre per piattaforme più piccole, meno conosciute ed ancora in crescita, questa soluzione sarebbe più problematica. Non dimentichiamo che l’art. 15 della direttiva non riconosce una regola de-minimis per le start-up (differenza dell’art.17 sul video-sharing) e quindi non vi è alcuna esenzione per i “piccoli” al pagamento verso gli editori. Alle start-up quindi converrebbe pagare, ma con ciò si perderebbe lo scopo “politico” della direttiva, che era quello di costringere al pagamento i giganti di Internet, e non certo i piccoli.

Tutto questo, ovviamente, senza tenere conto dell’evoluzione della tecnologia. Infatti molte piattaforme stanno già sviluppando tecniche di NLP – Natural Language Processing, vale a dire l’elaborazione di linguaggio tramite il processo di trattamento automatico mediante un calcolatore elettronico delle informazioni scritte o parlate in una lingua naturale. In altre parole, in un futuro imminente dei semplici algoritmi potrebbero creare degli estratti del tutto originali rispetto alla pubblicazione a cui si riferiscono, rendendo del tutto obsoleta la discussione sui limiti quantitativi degli snippet.

Quanto vale il diritto degli editori

La direttiva non formula alcun criterio per misurare i benefici che gli editori procurano alle piattaforma Internet consentendo l’utilizzo online delle pubblicazioni giornalistiche, e pertanto come definire l’appropriatezza del compenso. Questa lacuna è un’ulteriore tegola per una efficace implementazione dell’art. 15.

Allo stato, non esistono studi indipendenti che possano obiettivamente quantificare l’ammontare economico che dovrebbe essere corrisposto, nel suo complesso, dal mondo Internet e dalle grandi piattaforme come Google, agli editori. Si tratterebbe di capire quanta parte degli introiti pubblicitari online degli operatori Internet sia attribuibile all’uso degli articoli online degli editori. La Commissione europea commissionò uno studio del genere nel 2017 che però arrivò a conclusioni dubitative.

In effetti si tratta di una valutazione tecnico/economica delicata e persino insidiosa. Prendiamo l’esempio di Google. Gli editori conoscono quanto traffico arriva loro da Google News o Google Search, ma tale traffico misura solo il beneficio che essi ricevono dalla piattaforma californiana (in quanto crea visualizzazioni sui loro siti). Per avere invece idea del beneficio inverso, cioè di quello creato a Google (in termini di introiti pubblicitari) attraverso la pubblicazione online degli articoli, bisognerebbe conoscere almeno il numero delle visualizzazioni di detti articoli sulle piattaforme di Google. Si tratta però di cifre che solo il gigante californiano conosce con precisione. Inoltre, bisognerebbe attribuire un valore a tali visualizzazioni, qualora siano rilevanti per il business della pubblicità online. In base a quale criterio andrebbe fissato tale valore? La direttiva tace e, nel silenzio della stessa, viene a mancare un elemento essenziale per la negoziazione tra le parti.

Si potrebbe riconoscere una valorizzazione economica ai dati che Google raccoglie attraverso la profilazione degli utenti, coprendo in questo modo anche il caso degli utenti che si limitano a leggere titoli e snippet senza cliccare sugli articoli (e quindi senza farsi indirizzare sul contenuto originale nel sito dell’editore). Ma pure qui entriamo in un terreno incerto, perché quei dati non hanno un valore assoluto, ma solo relativo in quanto collegato agli altri dati posseduti da Google (che non conosciamo). Inoltre, potrebbe essere una soluzione insidiosa per gli editori, il cui business model dovrebbe essere quello di creare notizie, non quello di profilare i lettori.

Calcoli sbagliati o approssimativi

Nell’adottare la direttiva copyright le istituzioni europee non hanno mai voluto addentrarsi in valutazioni economiche complesse. Su richiesta degli editori, si voleva semplicemente rafforzare il potere negoziale di quest’ultimi nei confronti di Google e delle piattaforme Internet, affinché essi ottenessero una qualche compensazione per l’uso online dei propri articoli. In effetti, l’idea sostenuta dagli editori è che avendo le piattaforme online beneficiato enormemente dalla digitalizzazione, e avendo gli editori invece perso molto da questo processo, le prime dovrebbero compensare i secondi.  Tale ricostruzione, che a volte viene presentata come un vero e proprio “furto” di Internet ai danni dei settori tradizionali, non è però condivisa da tutti. Ad esempio, nel settore musicale il picco delle entrate musicali pre-Internet era dovuto anche a pratiche controverse, come ad esempio quella di obbligare all’acquisto di un intero CD anche quando il consumatore era interessato ad un solo brano. Allo stesso modo il calo nelle entrate dei giornali sarebbe in realtà dovuto, almeno in parte, alla stessa dinamica: mentre prima si comprava un intero quotidiano pur essendo interessati solo a singole rubriche, ora invece si possono scegliere i singoli articoli.

La tecnologia non ha operato alcun furto, ma ha semplicemente plasmato le pratiche commerciali a vantaggio dei consumatori.

Ad ogni modo, anche volendo accettare acriticamente la teoria del “furto” di Internet, alla stessa manca però la coerenza economica sottostante. Come già accaduto con la musica, la digitalizzazione non ha semplicemente trasferito valore da un attore all’altro, ma ha agito in modo più complesso: nel breve periodo ha bruciato valore senza crearne di nuovo, e poi ha progressivamente creato nuovo valore del tutto altrove, attraverso nuovi modelli di business. Il crollo delle vendite dei CD non è stato compensato dalla musica digitale, anzi ci sono voluti anni, attraverso lo streaming, per risalire la china. Per l’editoria il problema è lo stesso: le perdite (pubblicitarie e di vendita) dei giornali tradizionali non possono essere lontanamente compensate dalla pubblicità che Google ricava dall’uso online degli articoli dei giornali, tanto che Google, piuttosto che pagare, preferisce chiudere tale tipo di servizio, oppure deindecizzare gli editori che chiedano tale pagamento. In altre parole, il valore che gli editori hanno perso a causa della digitalizzazione non si è spostato verso Google o altri operatori Internet, ma è stato in larga parte distrutto.

La triste verità è che Google non è diventata ricca e potente grazie agli articoli online, ma perché più di ogni altro si è avvantaggiata di un nuovo ecosistema basato sulla digitalizzazione di tutte le informazioni, non solo degli articoli giornalistici. In questo nuovo ecosistema il valore di un articolo di una grande firma può essere meno rilevante, in termini di click e quindi di introiti da pubblicità online, di una foto di gattini. Se gli editori ritengono di avere diritto ad una parte della fortuna capitata a Google, la direttiva copyright è un’arma spuntata, perché basata sull’idea banale che una parte significativa di quella torta sia ascrivibile alle loro pubblicazioni giornalistiche. Sebbene tali contenuti abbiano un indubbio valore intrinseco, il loro valore economico è stato quasi azzerato dalla dematerializzazione digitale e dal modello di business basato sulla pubblicità online. Al momento, un modo per provare a ricreare del valore editoriale in Internet è il paywall, ma anche in tal caso bisognerà aspettare ed avere pazienza. L’esempio della musica online resta fondamentale: dopo la botta del 2000, ci sono voluti anni per ricominciare a creare valore attraverso i nuovi servizi a pagamento (streaming, live, merchandising ecc).

La posizione dominante di Google

L’incoerenza economica sottostante alla direttiva copyright emerge palesemente quando gli editori prendono la mira e puntano le loro pretese su qualche soggetto in particolare. L’obiettivo principale è normalmente Google, ritenuto, a torto o ragione, il maggiore beneficiario della circolazione degli articoli  giornalistici online. Tuttavia, vi sono piattaforme come Facebook e Twitter che dipendono più di Google dalla condivisione degli articoli online, ma tuttavia esse non rientrano nella lista degli obiettivi degli editori. Facebook ha fatto degli accordi commerciali con gli editori che utilizzano la sua piattaforma, mentre Twitter non sembra avere delle significative risorse economiche – a riprova del fatto che la monetizzazione delle notizie online è attività meno lucrativa di quello che sembri , se basata sul modello free e della pubblicità online. Il resto del mercato Internet non appare abbastanza ricco per fornire le risorse che gli editori ritengono dovute (come accaduto in Germania, dove la raccolta è stata abbastanza deludente). Alla fine, l’obiettivo principale degli editori resta Google perché è il soggetto più ricco del mercato digitale e che ha a che fare, in qualche modo, con la circolazione di contenuti giornalistici.

Ma la direttiva non è stata disegnata per costringere al pagamento un operatore dominante come Google. L’art. 15 lascia alle piattaforme la facoltà di “non utilizzare” le pubblicazioni giornalistiche e quindi di non dover niente agli editori. Nel caso degli aggregatori di notizie, questa facoltà si attua attraverso la deindicizzazione degli editori che non hanno concesso un accordo di licenza per le loro pubblicazioni. In un contesto di mercato dovrebbero essere le parti a decidere cosa è meglio sulla base di una semplice valutazione commerciale. Se però la facoltà di de-indicizzazione viene esercitata da un operatore dominante come Google, agli editori viene a mancare del traffico Internet fondamentale. È questo il motivo per cui Google, a differenza di altri operatori, può imporre le proprie tariffe agli editori, fino alle licenze gratuite. Può sembrare un comportamento brutale ma resta in linea con la Direttiva ed il meccanismo di funzionamento dell’art. 15. Qualcuno potrebbe sostenere che tale comportamento non corrisponda allo “spirito” dell’art. 15 ma, più onestamente, forse bisognerebbe riconoscere che la Direttiva è stata raccontata dai media in un modo differente da come è stata scritta. Si è parlato di una direttiva per “far pagare” i giganti di Internet, ma in verità l’art. 15 è stato scritto in un modo per cui le vere negoziazioni possono avvenire solo con le piccole piattaforme Internet, non con Google.

Il tema della negoziazione, libera o obbligatoria, dei diritti 

La direttiva non obbliga le parti ad addivenire ad un accordo, ma le lascia libere di fissare tariffe e condizioni per la licenza degli editori. Durante i lavori legislativi presso la UE fu abbandonata l’idea di una licenza obbligatoria, in quanto avrebbe potuto condurre le negoziazioni ad epiloghi simili al caso spagnolo dove Google, di fronte all’obbligo di concludere un contratto di licenza, ha preferito chiudere il servizio Google News.

Il rischio di addivenire ad una situazione di stallo tra le parti, come avvenuto in Germania e Francia, è quindi molto alto ed è insito nel dettato della direttiva. Il problema non sta nelle licenza in sé, ma nell’ammontare da corrispondere agli editori. In mancanza di un accordo sugli aspetti economici, la direttiva non costringe Google e le altre piattaforme a concludere un contratto di licenza. Qualsiasi tentativo degli editori di forzare la negoziazione sarebbe facilmente rintuzzato dai più grandi, in particolare da Google che ha già in varie occasioni dichiarato di preferire la deindicizzazione degli editori e la chiusura del business dell’aggregazione delle news. E’ questo il motivo per cui istituti come la negoziazione obbligatoria  o l’imposizione di tariffe d’imperio (comunque non previsti dalla direttiva) sarebbero strumenti velleitari, perché la direttiva non prevede l’obbligo per gli aggregatori di notizie di operare a qualsiasi costo.

La situazione non potrebbe certo migliorare cercando di superare lo stallo attraverso la previsione dell’intervento di un’autorità di regolazione o arbitrale. Anche tale autorità sarebbe soggetta agli stessi limiti della direttiva che non prevede né la licenza obbligatoria, né l’obbligo di svolgere il servizio di news aggregation contro la volontà della piattaforma.

E’ dubbio se si possa delegare a un’autorità terza il compito di fissare le tariffe. Se anche così fosse, tale autorità non potrebbe però imporre tali tariffe a quegli operatori che preferiscono dismettere il servizio e l’indicizzazione delle notizie. Un intervento tecnico di tal genere sarebbe peraltro rischioso per gli editori, perché le valutazioni economiche di un’autorità di regolazione dovrebbero essere, per l’appunto, tecniche e non politiche. Un’analisi tecnico-economica del diritto degli editori potrebbe finire con rivelare l’incoerenza economica della direttiva, evidenziando come il valore economico estratto da Google dall’indicizzazione delle notizie sia poca cosa o addirittura negativo (al netto del traffico Internet consegnato agli editori).

I nodi vengono al pettine: il caso francese

La direttiva copyright sancisce quindi un principio ed un diritto, ma manca di presupposti economici e condizioni applicative fondamentali, e scarica il problema sugli Stati membri. La soluzione per i governi è tutt’altro che lapalissiana, perché compensare il potenziale travaso dall’editoria ad Internet è un’idea semplice a livello di principio, ma difficile da mettere in pratica, soprattutto se si volesse passare velocemente all’incasso.

La Francia ha scientemente ignorato questa complessità ed invece, per dare un forte segnale politico, ha puntato tutto sulla velocità, trasponendo in tutta fretta e pedissequamente la direttiva, senza definire ulteriormente le condizioni di applicazione. In questo modo ha però fatto il gioco di Google perché mandando gli editori francesi a negoziare sulla base di un testo di legge vago, ha messo in una posizione di forza il soggetto che, oltre ad essere il più grosso, ha il monopolio delle informazioni necessarie per negoziare. Certo, l’antitrust francese potrebbe costringere Google a scoprire le carte, cioè i propri dati economici relativi alla pubblicità online legata alla pubblicazione di articoli giornalistici, ma il rischio è che, dati economici alla mano, si finisca col concludere che il beneficio generato a Google dagli editori sia poco significativo, o addirittura negativo (al netto dell’indicizzazione).

Il caso francese ha ancora una volta dimostrato, come già sospettato in Spagna e Germania, che una normativa come quella della direttiva copyright è un’arma spuntata nei confronti di un operatore dominante come Google, il quale può permettersi, a fronte di condizioni di licenza ritenute inique, di poter negoziare con la minaccia (legittima, in base alla direttiva) di chiudere il servizio di business aggregation o eventualmente deindicizzare gli editori scontenti. Si tratta di una scelta commerciale che invece i piccoli operatori ed aggregatori di notizie non possono perseguire, ma ciò non costituisce una buona notizia per gli editori che invece considerano Google come il principale obiettivo dell’art.15.

In altre parole, la direttiva copyright è di fatto poco utile per gli editori perché non è stata redatta tenendo contro della struttura del mercato e della posizione dominante di Google che, ancor prima di trarre qualche beneficio dall’indicizzazione delle notizie, appare fondamentale per il loro business: infatti gli editori dipendono fortemente da detta indicizzazione e non possono farne a meno. Peraltro, il ruolo predominante di Google e delle grandi piattaforme online era stato molto enfatizzato nel dibattito pubblico sull’art.15, ma poi questo elemento non è stato incorporato nella norma.

E in Italia, quindi?

Il quadro di cui sopra è poco confortante e dovrebbe suonare da avvertimento per coloro che anche in Italia vorrebbero trasporre la direttiva europea in tutta fretta, pensando magari che basti copiare la norma europea in diritto italiano per ottenere, dal giorno successivo, le condizioni per sedersi al tavolo con Google e negoziare un accordo soddisfacente. Non è così purtroppo, e le vicende di Parigi e Berlino dovrebbero insegnare qualche cosa. Il problema non è Google, che si limita a fare i propri interessi: la questione sta nella norma europea che sancisce un principio di difficile applicazione pratica e dal fondamento economico dubbio.

In Italia non basterà una norma giuridica di principio per consentire alle parti di addivenire ad un accordo soddisfacente, neppure se l’elaborazione dei dettagli fosse demandata ad AGCOM o AGCM. Anche volendo investire le due autorità di tale compito, le loro decisioni sarebbero comunque soggette al controllo giurisdizionale: questo vuol dire che dovrebbero basarsi su norme legislative precise e certe, su analisi economiche incontestabili, non certo su principi vaghi, slogan o richiami all’equità. Senza una norma italiana precisa e dettagliata, i relativi provvedimenti sarebbero facilmente impugnabili. Alla fine, si finirebbe come in Francia, in cui Google è stata “condannata” dall’antitrust a negoziare qualche cosa che non sia zero, ma potrebbe alla fine risultare in un’inezia al di sopra dello zero.

I danni collaterali della direttiva copyright

Nel frattempo, sarebbe opportuno riflettere su come ridurre i potenziali danni collaterali dell’art. 15 e ricordarci che la direttiva copyright si applica a tutti i servizi Internet, non solo a Google.

Ad esempio, sappiamo che la norma sullo snippet si applicherà anche a Wikipedia, nonché a Wikiquote, Wikidata, Wiktionary ecc. (i sottoprodotti di Wikipedia, meno noti dell’enciclopedia online), compromettendone seriamente il modello con cui vengono presentati i contenuti creati dalla community. In base all’art. 15 della direttiva, Wikipedia & Co. dovrebbero rimuovere (salvo accettare di pagare gli editori) tutti i riferimenti agli articoli di giornale, che sono generalmente contenuti nelle note (ma a volte anche nel corpo delle varie voci). Questa situazione si pone in conflitto con l’art. 70 della legge italiana sul diritto d’autore, che invece riconosce il diritto/dovere alla citazione. Vi è quindi spazio per portare fin da subito qualche utile chiarimento alla norma europea, a cui Wikipedia deve sottostare nonostante la vulgata generale creda che essa vi sia esente (l’esenzione, in verità, si applica solo alle enciclopedie online e limitatamente all’art. 17 sulle piattaforme di video sharing, e relativi filtri).

Per risolvere questi problemi, che non riguardano solo Google ma tutti i servizi Internet, il legislatore italiano dovrebbe, invece di correre, riflettere e trovare il modo di garantire esplicitamente l’uso libero di titoli ed estratti fino a un certo numero di parole, nonché l’intero titolo e indirizzo di una notizia usati a fini di attribuzione per una citazione a fini di critica o di discussione. Una definizione chiara di tali usi mirati aiuterebbe per contrasto a identificare gli usi che per sistematicità e ampiezza devono necessariamente essere retribuiti.

Conclusioni

La direttiva copyright è legge e quindi deve essere trasposta in diritto italiano, anche se si può non essere d’accordo. Dura lex, sed lex. Ma vi è bisogno di tempo per ragionare sul modo migliore per trasporla in modo efficace, ed eventualmente aspettare e basarsi sulle esperienze degli altri paesi europei e le relative buone pratiche.

Quanto sopra è ancora più importante se si tengono a mente le debolezze della direttiva copyright. L’idea che una parte significativa del valore degli aggregatori di notizie sia dovuto all’uso online degli articoli, e che tale valore possa essere restituito agli editori per compensarli delle perdite causate dalla digitalizzazione, è purtroppo priva di coerenza economica. L’errore fondamentale è stato quello di equiparare la depauperazione dell’editoria, seguita al digitale, al potenziale guadagno percepito dalle piattaforme per l’uso degli articoli online. Si tratta di valori del tutto disconnessi. Tutti i tentativi di quantificare il valore economico dell’uso online degli articoli, eventualmente per via contenziosa o antitrust, rischiano di svelare questa amara e scomoda verità.

L’idea che i più grandi beneficiari della rivoluzione Internet, vale a dire Google, Facebook e le grandi piattaforme online debbano in qualche modo compensare coloro che vi hanno perso, in particolare gli editori, è affascinante, ma non può essere attuata con la direttiva copyright, il cui art. 15 non può tecnicamente servire a tale scopo. Se si voleva attuare una sorta di giustizia sociale per risarcire gli editori degli scompensi creati dalla digitalizzazione, e porre i costi a carico di coloro che si sono maggiormente arricchiti, la direttiva copyright ed in particolare l’art. 15 avrebbe dovuto essere scritti diversamente.

L’esistenza di un mercato editoriale ricco e competitivo è fondamentale per una moderna società democratica, ma andrebbe protetto con strumenti ed analisi adeguati. La fiducia degli editori italiani verso la direttiva copyright sembra purtroppo mal riposta, poiché tale nuova legislazione non può risolvere la crisi dell’editoria tradizionale di fronte alle sfide della tecnologia. Al contrario, l’enfasi per la direttiva copyright può persino essere dannosa, perché con la promessa di irrealistici ritorni economici viene ritardata la migrazione dell’editoria verso nuovi e più efficienti modelli di business.

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