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Dupe culture: l’economia dell’imitazione al tempo di TikTok



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La Dupe Culture, fenomeno alimentato dalla Generazione Z e amplificato da piattaforme come TikTok, sta mettendo a dura prova i confini legali e normativi legati alla tutela dei marchi. Un’analisi approfondita del fenomeno, delle sue implicazioni e delle possibili evoluzioni future

Pubblicato il 2 apr 2024

Elisabetta Berti Arnoaldi

Partner di Sena & Partners

Francesca La Rocca

Partner di Sena & Partners



disinformazione, fake news

Il fenomeno della Dupe Culture si è diffuso in maniera esponenziale negli ultimi anni, permeando ogni angolo del mercato globale e investendo una vasta gamma di settori, dalla moda all’elettronica, dal beauty al lifestyle. Questa tendenza, ampiamente alimentata dalla Generazione Z e amplificata da piattaforme come TikTok, sta mettendo a dura prova i confini legali e normativi legati alla tutela dei marchi.

What is dupe culture? - BBC World Service, Business Daily podcast

Mentre alcuni vedono nella Dupe Culture una forma di democratizzazione del consumo, altri sollevano preoccupazioni riguardanti la violazione dei diritti di proprietà intellettuale.

Ma cosa significa realmente “dupe” in questo contesto? E quali sono le implicazioni per i marchi rinomati? Domande complesse che richiedono uno sguardo attento alle sentenze recenti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e alle possibili evoluzioni future.

Dupe Culture: un fenomeno globale

La Dupe culture è un fenomeno che nasce negli Stati Uniti e che rapidamente si è diffuso in Europa, anche per via della rapidità di comunicazione attraverso i canali social e l’attività degli influencer.

Una nuova tendenza culturale ma non solo, in quanto muove un grosso volume di affari.

Generazione Z e Dupe Culture: il ruolo di TikTok

La Dupe culture coinvolge principalmente le giovani generazioni, le quali desiderano esibire gli status symbol di lusso tanto citati dai loro artisti preferiti, ma spesso si trovano costretti a virare verso alternative più economiche, come abiti, accessori, profumi e prodotti cosmetici che imitano o replicano i prodotti originali.

Parlando di Generazione Z, bisogna fare riferimento a TikTok per osservare attentamente la diffusione di questo fenomeno. Sul social più utilizzato dai ragazzi della Gen Z, l’hashtag #dupe raggiunge miliardi di visualizzazioni, così come l’hashtag #dupechallenge, relativo ai filmati brevi di confronto tra il prodotto duplicato e quello originale. In questo genere di filmati i prodotti Dupe vengono presentati accanto ai prodotti originali, con chiari riferimenti ai brand originali e ai loghi corrispondenti.

Attenzione, non sono solo gli influencer e in generale gli utenti che usano i social a confrontare i prodotti, originale e duplicato, tra loro, ma addirittura tale raffronto è spesso effettuato direttamente dal concorrente.

Dupe: significato ed esempi pratici

Cosa significa Dupe? Il termine richiama esplicitamente l’idea di duplicato.

Un esempio può essere quello dei profumi equivalenti, messi in vendita nei grandi negozi di cosmetici e articoli per la casa e anche nelle farmacie, la cui fragranza è pressoché identica a quella dei brand più famosi che vengono richiamati nella presentazione degli equivalenti attraverso la menzione dei relativi marchi.

È evidente, però, che si tratta di pratiche commerciali che possono sminuire il valore e l’attrattività dei marchi altrui.

Tutela del marchio e Dupe culture: un delicato equilibrio

Tutelare i brand dei prodotti originali è importante, tanto per quanto riguarda quelli famosi, quanto per quelli meno conosciuti, poiché ogni utilizzo improprio ne danneggia la reputazione ed il valore di mercato.

La questione della Dupe culture è del tutto rilevante dal punto di vista legale, in quanto la replica dei prodotti è una pratica che percorre perennemente il limite della contraffazione, nonostante alcune differenze sostanziali.

Nel caso di merce falsa o contraffatta si può configurare anche una lesione dei diritti dei consumatori, che può determinare altresì un reato penale in quanto, con l’offerta di un prodotto falso come autentico, si persegue il fine di ingannare i consumatori sull’origine del prodotto e delle sue caratteristiche.

Nel caso dei prodotti Dupe la situazione si presenta in una maniera differente, dal momento che il prodotto offerto non è falso e non riproduce un marchio altrui, ma si accosta a questo richiamandolo espressamente, approfittando del credito di cui gode sul mercato.

La protezione del marchio è un punto fondamentale e critico se si parla di Dupe ovvero di prodotti equivalenti, in quanto è funzionale all’esigenza di preservarne il valore attrattivo che subisce un attacco per effetto dell’uso fattone con riferimento ai Dupe.

Al giorno d’oggi, infatti, appare inadeguata una protezione del marchio limitata alla funzione distintiva, dal momento che il valore suggestivo e la funzione di collettore di clientela che il marchio arriva a possedere sono il risultato degli investimenti dell’impresa.

Ciò che viene pubblicizzato, nel caso dei Dupe, è un prodotto di per sé originale, con un marchio proprio, ma che risulta variamente agganciato ad un marchio (e ad un prodotto) altrui perché quest’ultimo ha il potere di trainare la vendita dell’equivalente.

Non c’è dunque lesione della funzione distintiva del marchio altrui attraverso l’uso di un segno confondibile; tanto meno il consumatore è ingannato sull’origine del prodotto Dupe che viene offerto in vendita o sulla natura di “copia” dello stesso, che risulta addirittura conclamata.

Tuttavia, la leva esercitata sul marchio altrui pare connotata da tale scorrettezza da doversi domandare se sia dato al titolare del marchio “abusato” di reagire a questa pratica, non solo azionando il divieto di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 Codice Civile, quando sussiste un rapporto di concorrenza tra le imprese, ma anche promuovendo un giudizio di contraffazione sulla base dei propri diritti di esclusiva sul marchio.

È una questione di non poco conto, considerata la diversa natura delle azioni, che possono essere proposte anche in concorso tra di loro, oltre che la differente disciplina ed i vantaggi, che soprattutto sul piano probatorio e del risarcimento, sono previsti per l’azione di contraffazione dal Codice di Proprietà Industriale.

Del resto, il fatto che il marchio altrui sia impiegato per trainare il prodotto Dupe, porta a riflettere anche sull’incidenza della eventuale rinomanza del marchio per la soluzione di questa questione.

Gli articoli 20 e 21 del Codice di Proprietà Industriale (CPI)

Occorre prendere in considerazione gli articoli 20 e 21 del Codice di Proprietà Industriale (CPI), riguardanti il contenuto dell’esclusiva e le limitazioni del diritto di marchio.

L’articolo 20 del CPI, che riguarda i diritti conferiti dalla registrazione e l’utilizzo esclusivo del marchio, attribuisce al titolare il diritto di vietare a terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica un segno uguale o simile per prodotti identici o affini.

Nel caso in cui il marchio goda di rinomanza la norma estende la tutela oltre l’affinità merceologica ed anche al caso di utilizzo del marchio senza giusto motivo che consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi, con la precisazione, aggiunta nel 2019, che tale uso può essere posto in essere “anche a fini diversi da quello di contraddistinguere beni e servizi”.

Sulla base di questa previsione, dunque, nel caso il marchio altrui impiegato nella presentazione di un Dupe appartenga alla categoria dei marchi che godono di rinomanza, l’azione di contraffazione è sempre esercitabile.

Ma potrebbe giungersi alle medesime conclusioni anche riguardo ad un marchio ordinario, vale a dire che non gode di rinomanza.

È vero infatti che l’art. 21 CPI nel prevedere le cosiddette limitazioni al diritto di marchio, ovvero le ipotesi di uso atipico del segno, alle quali, purché tale uso sia conforme ai principi della correttezza professionale, il diritto sul marchio non può essere opposto, non distingue tra marchi rinomati e non rinomati.

Le ipotesi previste dall’art. 21 CPI si riferiscono sostanzialmente ai casi in cui il riferimento al marchio altrui risulti necessario e non sostituibile mediante il ricorso ad altri strumenti, in quanto avente funzione meramente descrittiva dei prodotti commercializzati.

Al di fuori da queste ipotesi eccezionali l’uso del marchio altrui, sia esso rinomato oppure no, parrebbe quindi potere essere perseguito a titolo di contraffazione, ove ne ricorrano i presupposti.

Il verdetto della Corte di Giustizia Ue sulla Dupe culture

Che la giurisprudenza vada orientandosi in tal senso, parrebbe desumersi, tra l’altro, dalla recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) in data 11 gennaio 2024, nel caso C-361/22.

La Corte di Giustizia ha infatti ravvisato gli estremi della contraffazione nell’utilizzo che, al di fuori delle esigenze descrittive di un’operazione promozionale in cui il premio in palio era un buono di acquisto per prodotti a marchio “Zara”, veniva fatto di tale marchio con un’evidenza eccessiva, indice rivelatore dell’intento di agganciarvi tutt’altri prodotti del soggetto da cui promanava l’iniziativa.

Nella medesima direzione, si potrebbero collocare alcune decisioni della giurisprudenza nazionale[1], per lo più intervenute a riguardo della tecnica commerciale della cosiddetta “tableaux de concordance” antesignana rispetto a quella dei Dupe che qui ci occupa, che risultano estremamente restrittive rispetto all’applicazione delle esimenti dell’art. 21 c.p.i. nei casi in cui la citazione del marchio del terzo non risulti indispensabile per indicare le caratteristiche di un prodotto differente.

Note


[1] Trib. Milano 2 dicembre 1993, in Riv. Dir. Ind. 1994 II, 286; Trib. Milano 1° febbraio 1999 in Giurisprudenza annotata di diritto industriale 2000, 209; Trib. Bologna, 12 febbraio 2008, in Giurisprudenza annotata di diritto industriale, 2009; Trib. Bologna, 4 giugno 2012, in banca dati Sprint; Trib. Torino 22 ottobre 2014 in banca dati Sprint ; Trib. Torino 16 gennaio 2015, in Giurisprudenza delle Imprese; Trib. Roma, 19 giugno 2017, in banca dati Sprint.

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