L’eCommerce ha raggiunto il suo picco? È il quesito che The Economist si poneva poco più di un anno fa, a fronte della frenata dopo l’accelerazione della crescita durante la pandemia (ben evidenziata nella la Fig. 1 per la realtà statunitense).
La risposta è no. La decelerazione c’è stata ed è previsto che prosegua, in alcuni ambiti il retail tradizionale (nel frattempo fortemente rinnovatosi) ha almeno momentaneamente recuperato terreno, ma complessivamente l’ecommerce appare destinato a livello globale a una continua espansione anche nei prossimi anni: non solo in termini assoluti, ove l’inflazione potrebbe costituire il fattore determinante, ma anche e soprattutto in relazione alle vendite retail totali.
La Fig. 2 evidenzia le previsioni a tale riguardo di Statista
e la Fig. 3 quelle di eMarketer (Fig. 3), che arriva alle stesse conclusioni facendo riferimento a un insieme più ampio di beni e servizi. E nella Fig. 3 è messa chiaramente in luce anche la decelerazione nei tassi di crescita.
Cambiamenti strutturali accompagnano la crescita nei volumi
Alla crescita si accompagna un insieme di cambiamenti di natura più strutturale, connessi all’evoluzione nelle tecnologie e nelle infrastrutture logistiche, alle preferenze dei consumatori (geopoliticamente anche molto differenziate), all’apparizione di business model innovativi che in parte si sostituiscono agli esistenti e in parte contribuiscono alla crescita degli utilizzatori dei servizi di ecommerce.
La crescita del numero globale di “digital buyers”
La Fig. 4 mette in luce la continua crescita del numero globale di «digital buyers», dei consumatori cioè che effettuano online una parte più o meno elevata dei loro acquisti: crescita che non avviene solo in termini assoluti, come conseguenza dell’aumento della popolazione mondiale, ma anche in percentuale della popolazione stessa (ovvero in termini di grado di penetrazione).
La Fig. 5 evidenzia come gli acquisti online via mobile abbiano sorpassato due anni fa circa quelli via desktop/PC e come il loro peso percentuale appaia destinato a crescere ulteriormente nei prossimi anni.
Il “recommerce” e il “social commerce”
È in pieno sviluppo (Fig. 6) il cosiddetto “recommerce”, l’utilizzo cioè dell’ecommerce per favorire la compravendita, e il successivo riuso, di beni (più o meno ricondizionati), quali ad esempio smartphone e PC, capi di vestiario, mobilio e accessori vari per l’arredamento, auto.
Il recommerce non è nato sicuramente di recente – il lancio nel 1995 di eBay, pioniera del comparto, è solo di un anno posteriore a quello di Amazon – ma è viceversa molto recente l’accelerazione della crescita (Fig. 6): riconducibile probabilmente in parte a fattori economici ma in parte anche a fattori “di moda”, legati all’importanza sempre più attribuita (soprattutto da parte dei giovani) alla circolarità come componente essenziale della salvaguardia dell’ambiente.
Social commerce: Cina pioniera con Temu
Quantitativamente più consistente lo sviluppo del “social commerce”, che ha giocato un ruolo importante nell’entrata in campo di nuovi protagonisti nel mercato dell’ecommerce: prima quasi esclusivamente in Cina, con Pinduoduo fra i pionieri; ora (come meglio si vedrà nel seguito) negli Stati Uniti e progressivamente nel resto del mondo, con Temu – emanazione di Pinduoduo – in prima fila.
La Fig. 7 mostra come il social commerce abbia avuto in questi anni una crescita globale quasi esponenziale (al lordo però dell’inflazione), ma come tale crescita secondo statista sia destinata al rallentamento nei prossimi anni, in un quadro come detto di rallentamento complessivo dell’ecommerce.
Il social commerce, come noto, utilizza lo strumento dei social network – il più possibile coinvolgenti – per presentare prodotti e servizi ai potenziali acquirenti, influenzarne le scelte e permettere loro di effettuare con facilità gli acquisti “di impulso” rimanendo sempre all’interno delle piattaforme “social”.
Valore globale dell’ecommerce: l’Asia domina il mercato
Secondo le stime di statista oltre il 36 per cento del valore globale del retail ecommerce sarà realizzato quest’anno in Cina. Nei rapporti fra continenti la Fig. 8 mostra – con riferimento al 2023 – il peso dominante dell’Asia, con oltre la metà del mercato mondiale, seguita dal continente americano con il 28 per cento circa e da quello europeo con il 17.
Quasi irrilevanti i pesi di Oceania e Africa, ma mentre la posizione della prima è giustificata dalla quota estremamente bassa della sua popolazione rispetto a quella mondiale, altrettanto non si può dire dell’Africa, le cui popolazione – in continua crescita – è stimata attualmente pari a un miliardo e mezzo di persone, ossia a oltre il 18 per cento della popolazione globale (8,2 miliardi).
Retailer storici e portatori di nuovi business model sfidano Amazon sul mercato statunitense
Uno sguardo alle quote sul mercato retail ecommerce statunitense – quali stimate da eMarketer – ci mostra (Fig. 9) come Amazon mantenga la leadership assoluta con una quota superiore al 40 per cento, ma come immediatamente alle sue spalle (ancorchè distanziato) si collochi Walmart, il più grande retailer tradizionale del mondo (oltre 650 miliardi di $ di capitalizzazione e 665 di ricavi).
Walmart non rappresenta un fenomeno isolato, perché altri 5 retailer tradizionali sono nelle prime dieci posizioni, tra cui – ambedue con una capitalizzazione dell’ordine dei 400 miliardi di $ che li colloca nelle prime 25 posizioni assolute a livello globale – Home Depot e Costco. In forte crescita la presenza di Temu, di cui ho parlato in precedenza e parlerò nel seguito, con il suo business model fortemente innovativo.
Advertising determinante per profittabilità e sopravvivenza nell’eCommerce
I dati del mercato statunitense (Fig. 10) ci mostrano un altro importante fenomeno in progressiva crescita: il peso dell’advertising – nell’ecommerce e nel retail in generale – nel determinare la profittabilità, se non addirittura la sopravvivenza, delle imprese.
Amazon, che ha avuto un ruolo pioneristico nello sviluppo dell’advertising, non riuscirebbe – senza il contributo delle entrate realizzate con esso (in continua crescita come appare dalla Fig. 11) – a mantenere in vita il suo modello basato sull’estrema velocità delle consegne.
Un interessante articolo apparso su FT nell’agosto di quest’anno, “How Walmart became an advertising powerhouse”, spiega come “in the emerging industry known as retail media big retailers flex their muscles as gatekeepers between vendors and consumers to sell ads to brands seeking an edge.
E riporta alcune valutazioni di eMarketer sulla consistenza degli investimenti in “retail media” negli US: 54 miliardi di dollari nel 2024, contro i 18,7 del 2020, con una previsione della crescita a 130 miliardi nel giro del prossimo quadriennio. Ed evidenzia uno dei punti di forza di questa forma di advertising: quello di poter rintracciare, attraverso i potenti sistemi informativi esistenti, quanti di coloro che vedono l’annuncio effettuano poi il relativo acquisto nelle 2-3 settimane successive (un qualcosa di verificabile anche nel retail tradizionale a meno che i pagamenti non siano in contanti).
Pricipali piattaforme di retail ecommerce e imprese di maggior valore del comparto
La Fig. 12 fornisce una classifica delle principali piattaforme di retail ecommerce del mondo, basata sul loro “gross merchandise value (GMV)”, l’unità di misura normalmente utilizzata per omogeneizzare modalità contabili diverse relativamente alle vendite di prodotti di terzi (di cui possono essere alternativamente messi a bilancio fra le entrate i ricavi totali o i margini lordi).
Cinque piattaforme superano i 500 miliardi di $ di GMV: Amazon – che ha la sola piattaforma non cinese – è in prima posizione, seguita da Pinduoduo; ad Alibaba fanno capo Taobao e Tmall, i cui GMV se sommati la proietterebbero in testa con oltre 1000 miliardi di GMW; JD.com, che ha avuto in momenti diversi fra i suoi azionisti Tencent e Walmart, è in quinta posizione.
Le altre piattaforme sono molto distanziate: Walmart è in settima posizione (oltre 136 miliardi); la storica eBay nona (poco più di 71), seguita dalla sudcoreana Coupang (50 circa) e dall’argentina MercadoLibre (38). Nessuna traccia di piattaforme europee o addirittura italiane: è di pochi giorni fa la notizia che Yoox, il primo unicorno italiano (nato meno di 6 anni dopo Amazon e 4 prima di Meta per operare nell’ecommerce del fashion), è uscito sostanzialmente di scena per le grosse perdite, dopo una serie di operazioni di M&A che lo avevano portato all’interno del gruppo del lusso Richemont che lo ha ora ceduto alla startup tedesca MyTheresa.
La Fig. 13 guarda invece alle imprese, che hanno l’ecommerce B2c come attività prevalente, classificandole sulla base della loro capitalizzazione.
Le differenze rispetto alla precedente analisi delle piattaforme possono essere anche molto rilevanti. Sono qui escluse a priori imprese come Walmart, che vendono prevalentemente attraverso la loro rete fisica; di contro il valore delle imprese può sentire fortemente l’influenza degli altri business presenti nel portafoglio, come nel caso di Amazon che è anche leader mondiale nel cloud. L’analisi precedente guarda ai ricavi, quella sulle capitalizzazioni è molto sensibile ai profitti e alle loro prospettive di crescita. Detto questo, anche se con rapporti fra le loro capitalizzazioni molto diversi rispetto a quelli fra i valori totali delle transazioni, Amazon, Alibaba e Pinduoduo dominano la classifica. Interessante il caso della canadese Shopify, quinta, che è entrata sul mercato con un modello di business diverso da quello prevalente di Amazon: mette a disposizione delle imprese clienti gli strumenti necessari perché si gestiscano un loro ebusiness, invece che gestire direttamente le transazioni. Fra le imprese che seguono ce ne sono varie con un mercato geopoliticamente più circoscritto: la sudcoreana Coupang e l’argentina MercadoLibre, già viste in precedenza; Sea, di Singapore; Rakuten e ZOZO, giapponesi. La norvegese Adevinta, l’unica europea fra le top 16 riportate, occupa il quattordicesimo posto con 12,7 miliardi di capitalizzazioni, ma sono solo quattro – e ovviamente tutte con valori più modesti – le altre europee incluse fra le top 30: la polacca Allegro.eu, diciannovesimo posto, 9,43 miliardi; la tedesca Zalando, la più nota in Italia, ventesimo posto, 8,66; la norvegese Schibsted, ventiquattresimo posto, 7,16; l’inglese Ocado, trentesimo posto, 3.86.
Imprese cinesi all’attacco del mercato US e mondiale: il modello Schein
Vendere sul marketplace di Amazon era difficile per i piccoli produttori della “mainland China”, che sapevano ben poco dei gusti in tema di moda – peraltro in continuo cambiamento – dei consumatori statunitensi. Schein, che non aveva (è importante sottolinearlo) nessun precedente di vendite in Cina, venne in loro soccorso. Aprì nel 2019 negli US una attività di moda rivolta al pubblico femminile giovane, che nel giro di pochi anni ne ha fatto il primo “fashion retailer” del mondo, con un fatturato di oltre 24 miliardi di dollari, superiore a quelli di H&M e Zara messi assieme.
È un business model, quello di Shein, molto innovativo nel combinare fra loro una serie di fattori rilevanti. Shein:
- si ritaglia il ruolo di intermediario «senza scorte» fra i produttori cinesi e i consumatori del resto del mondo (inizialmente solo i nordamericani);
- sfrutta i bassissimi costi di produzione cinesi (spesso sollevando pesanti proteste), ma nel contempo mette a loro disposizione una domanda altrimenti irraggiungibile;
- sfrutta, negli US, la presenza di un «buco» nelle tariffe doganali – la possibilità di non pagare nulla al di sotto di un certo valore del pacco inviato al cliente direttamente dalla Cina – che potrebbe però essere annullato a breve;
- non gioca su innovazioni «tech», ma le competenze IT di cui dispone hanno un ruolo molto importante nell’incrociare le conoscenze a monte sui produttori con quelle a valle sui clienti «target»;
- unisce una forte sensibilità sui gusti – in tema di moda – dei suoi clienti «target» a una altrettanto notevole capacità di creare i contatti con essi;
- combina il tutto in un modello «social commerce».
Imprese cinesi all’attacco del mercato US e mondiale: il modello Temu
Temu, che si è ispirata al business model di Shein visto il suo successo e che è nata solo due anni fa (nel settembre 2022), è a differenza di Shein «figlia d’arte». È stata fondata infatti da quella che si definisce una “data and software specialist firm”, già operante nell’ecommerce in Cina: Pinduoduo, ora facente capo insieme a Temu a PDD Holdings.
“Temu uses the software of its parent company [PDD] to match China’s manufacturing capacity to consumer demand in the US, and soon it’ll do the same kind of matching througout much of the world. It does this matching not only for fashion but for retail goods in general”, fu la dichiarazione di intenti. E l’essere presente in comparti molto diversi ha tra le conseguenze che essa interagisce con circa 100 mila produttori, invece dei 6 mila di Shein.
Il sucesso è stato quasi immediato, come si può vedere dalla Fig. 14, anche se non sono mancate le critiche su fronti diversi: sul ricorso strutturale al plagio (senza rispetto per la proprietà intellettuale dei prodotti che vengono copiati) piuttosto che sulla scarsa attenzione nei riguardi dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori nelle imprese produttrici cinesi.
Con il successo le ambizioni di Temu sono aumentate, come spiega The Wall Street Journal in un articolo dei primi di ottobre significativamente intitolato “Amazon and Temu’s New Battleground: Winning Over Sellers – Offering delivery services to merchants is a $140 billion business for Amazon. Temu wants a piece of it”. Temu:
- vuole da un lato continuare a rubare clienti ad Amazon, giocando sulla capacità di far produrre in Cina e vendere a prezzi molto più bassi (a compensazione anche dei tempi di attesa più lunghi) prodotti che rappresentano copie (almeno apparentemente) fedeli di quelli più richiesti al momento, sfruttando con grande abilità il social commerce che ha fatto la fortuna di Pinduoduo in Cina, e
- dall’altro, sfruttando l’infrastruttura e la notorietà che si è nel frattempo create, strappare merchant ad Amazon, conquistandoli con l’offerta di condizioni (almeno al momento) estremamente vantaggiose: accettando le perdite che questo comporta come investimento per consolidare una base cui evolvere.
Temu rappresenta una minaccia reale per Amazon? Difficile fare previsioni in una fase di contenzioso così forte fra US e Cina, di incertezza su chi sarà il nuovo presidente statunitense e forse ancor più su quale realmente sarà la sua politica internazionale una volta al potere. Attualmente il grande divario dimensionale spingerebbe a rispondere negativamente alla domanda. Ma le precauzioni che Amazon sta prendendo, come sostiene anche l’autore dell’articolo, appaiono in qualche misura giustificate dal timore che Temu replichi negli US il successo (Fig. 15) che la “sorella” Pinduoduo ha avuto in Cina.