La crescita dell’e-commerce ha favorito la diffusione di piattaforme online che permettono agli utenti di effettuare acquisti all’interno di veri e propri “negozi virtuali”, facendo accedere ai più svariati contenuti e e permettendo di sfruttare servizi di scambio e condivisione. Ecco, quindi, che il ruolo di queste piattaforme risulta sempre più centrale. Numerosi, infatti, sono i servizi offerti da tali piattaforme e numerosi risultano i profili di responsabilità relativi agli illeciti che possono essere commessi tramite queste ultime.
È, quindi, senz’altro necessario che si faccia chiarezza sul ruolo che di volta in volta ricopre l’intermediario, monitorando lo stato dell’arte delle norme in materia, ovvero la posizione della giurisprudenza europea ed italiana. In questi giorni è, quindi, certamente opportuno soffermarsi sulle possibili conseguenze derivanti dalla futura pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, interrogata recentemente sul tema della responsabilità dell’intermediario, a fronte dell’Opinione espressa dell’Avvocato Generale, nelle cause riunite C-148/21 e C-184/21.
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I ruoli delle piattaforme online e profili di responsabilità
Le piattaforme che operano su Internet vengono classificate in base ai servizi offerti agli utenti, che possono spaziare da servizi di pubblicità e ricerca (si pensi, ad esempio, ai motori di ricerca), fino a servizi di e-commerce (quali Amazon ed eBay, che fungono da punto d’incontro tra domanda e offerta nelle compravendite online). Fungendo da punto di raccordo, la loro attività rischia di interferire con i diritti degli altri operatori e, in particolare, con i diritti di proprietà intellettuale di questi ultimi, che possono subire violazioni a causa delle vendite online gestite direttamente da dette piattaforme. Pertanto, occorre valutare i possibili profili di responsabilità degli intermediari, da declinarsi a seconda del ruolo svolto da questi nel singolo caso.
La disciplina di partenza è rappresentata dalla Direttiva 2000/31/CE sul Commercio Elettronico (attuato in Italia dal D.lgs. n. 70/2003), che ha cercato di armonizzare le discipline nazionali degli Stati Membri con riferimento al ruolo degli intermediari. Questi ultimi vengono distinti in:
- mere conduit, laddove si occupino del solo “trasporto” di informazioni,
- caching provider, nel caso in cui trasmettano informazioni effettuando una memorizzazione automatica, intermedia e temporanea,
- hosting provider, quali appunto eBay, YouTube e Amazon, qualora memorizzino (non temporaneamente) le informazioni e offrano un servizio più ampio.
In generale, la normativa non pone in capo ai provider un obbligo di sorveglianza sui contenuti da essi veicolati. Tuttavia, possono essere chiamati a risponderne qualora vengano a conoscenza di contenuti illeciti e non provvedano tempestivamente alla loro rimozione (in tale caso, infatti, si imputa loro una responsabilità per colpa). In particolare, l’esonero da responsabilità per gli intermediari opera solo nel momento in cui la loro attività risulti meramente tecnica, automatica e “passiva”, in quanto non sono a conoscenza né si occupano di controllare le informazioni o i contenuti in circolazione. Diverso è, invece, laddove l’intermediario assume un ruolo attivo: in tal caso, se questi partecipa alla redazione o alla rielaborazione del contenuto illecito, o ancora, ad esempio, indicizza i prodotti offerti e riceve compensi per l’attività di intermediazione svolta, la sua posizione non può essere considerata neutrale rispetto allo scambio commerciale e sarà, pertanto, soggetto a responsabilità per la circolazione dei suddetti contenuti illeciti.
La questione sottoposta alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea è stata interrogata sulla corretta qualificazione del ruolo dei provider in relazione all’offerta di beni sulle piattaforme e-commerce. Il caso coinvolge la celebre piattaforma Amazon, in qualità di distributore e gestore di un mercato online. La Corte è chiamata a stabilire se l’uso di un marchio, in un annuncio di offerta in vendita di prodotti contraffatti proveniente da un venditore terzo, sia imputabile direttamente al gestore della piattaforma online (Amazon), ovvero se simile uso risulti rientrante nella comunicazione commerciale del gestore della piattaforma. Da un lato, infatti, l’intermediario rende tecnicamente possibile la violazione dei diritti di proprietà industriale da parte del terzo offrendo accesso ai prodotti in violazione. Dall’altro lato, tuttavia, allargare la portata della responsabilità diretta dei provider a simili casi potrebbe potenzialmente obbligarli ad esercitare un controllo generale su tutte le possibili violazioni che possono verificarsi sui propri siti, disincentivando lo sviluppo delle attività online.
La Corte valuterà la questione alla luce del parere espresso dall’Avvocato Generale Szpunar, il quale, sulla base della giurisprudenza della stessa Corte, rileva come l’”uso” da parte di un intermediario di un segno distintivo di un terzo implica quantomeno che l’intermediario utilizzi detto segno nella propria comunicazione commerciale, in maniera tale che l’utente/destinatario ipotizzi un nesso tra l’intermediario ed il segno. Pertanto, per stabilire se siano violate o meno le funzioni essenziali del marchio, bisognerà necessariamente considerare il punto di vista dell’utente della piattaforma, che si assume essere “normalmente informato e ragionevolmente attento”.
Gli impatti sugli utenti
Centrale a riguardo è la distinzione tra le offerte dei venditori terzi e quelle di Amazon: tutte le offerte comprendono il logo della piattaforma, ma viene sempre specificato se i prodotti sono effettivamente venduti da terzi o da Amazon stessa. Di conseguenza, gli utenti sono teoricamente sempre al corrente che gli annunci pubblicati possono talvolta promuovere prodotti venduti direttamente da Amazon, talvolta promuovere prodotti venduti da terzi. Dunque, sempre in teoria, dovrebbe risultare chiaro agli utenti quale sia il venditore ad offrire prodotti contraffatti e, per quanto i relativi annunci possano essere pubblicati da Amazon, la piattaforma in nessun modo pone in essere atti che integrano l’”uso” del segno contraffatto, determinando così l’assenza di responsabilità diretta in capo al provider.
L’analisi
Per contro, riteniamo, però, che non sempre, la coesistenza dei diversi annunci consente di affermare che un utente normalmente informato e ragionevolmente attento possa in effetti percepire i segni pubblicati all’interno degli annunci dei venditori terzi come parte della comunicazione commerciale di Amazon.
In ogni caso, alla luce delle precedenti pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (si vedano le sentenze Google France, L’Oréal, e Coty), le conclusioni dell’Avvocato Generale sembrano condivisibili, dal momento che, per quanto neghino l’esistenza di responsabilità degli intermediari nei casi analoghi a quello in esame, non sembrano tuttavia escludere la possibilità di configurare, in base al diritto nazionale di volta in volta applicabile, una forma di responsabilità indiretta in capo all’intermediario. Dunque, , sarà interessante osservare che posizione assumerà la Corte in relazione al punto di vista dell’utente “normalmente informato e ragionevolmente attento”: tali future considerazioni, infatti, potrebbero introdurre nuovi criteri di valutazione circa le infrazioni sulle piattaforme in rete.
A tale riguardo, se da un lato sembra emergere l’intento di adottare un approccio più conservativo e protettivo nei confronti delle piattaforme, interpretando restrittivamente il concetto di “uso” di un segno distintivo di terzi, sarà altresì interessante osservare quale sarà la risposta dei giudici italiani, la cui posizione sulla responsabilità dei providers è tendenzialmente più rigida. Infatti, nel nostro ordinamento si registrano numerose correnti di pensiero che suggeriscono un certo favore verso i titolari dei diritti lesi: gli hosting providers vengono spesso obbligati ad intervenire per rimuovere i contenuti illeciti anche a seguito di semplice segnalazione di parte e non solo su comunicazione dell’autorità; e ancora, nel caso di classificazione dubbia sul ruolo – attivo o passivo – della piattaforma, di frequente gli interpreti preferiscono letture che maggiormente aggravano la responsabilità (in tema di hosting providers, si pensi ai casi YouTube e Yahoo! riguardanti i diritti di Reti Televisive Italiane). Pertanto, si ritiene possibile che tali approcci verranno rivisti a seguito della futura pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, o meglio si ipotizza una maggiore apertura verso i criteri di valutazione della responsabilità degli intermediari, soprattutto una volta compresa la posizione assunta dalla Corte riguardo alla percezione dell’utente “normalmente informato e ragionevolmente attento”. La pronuncia sarà conforme al parere dell’Avvocato Generale, o prenderà le distanze da quest’ultimo? Stay tuned!