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eCommerce, Italia battuta: perché la Corte di giustizia Ue dà ragione alle big tech



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La Corte di Giustizia Europea ha stabilito che le norme italiane che impongono obblighi supplementari a società come Airbnb, Amazon e Google sono contrarie al diritto dell’Unione. La decisione riafferma il principio del “paese d’origine”, limitando le misure nazionali che aumentano gli oneri di compliance per le piattaforme digitali

Pubblicato il 5 giu 2024

Barbara Calderini

Legal Specialist – Data Protection Officer



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Un duro colpo per l’Italia nel settore dell’e-commerce.

La Corte di Giustizia Europea ha infatti stabilito che le norme nazionali che impongono obblighi supplementari a società come Airbnb, Expedia, Google, Amazon e Vacation Rentals sono contrarie al diritto dell’Unione.

La Corte Ue conferma il principio del paese d’origine per la regolamentazione online in Italia

In una serie di sentenze[1] emesse il 30 maggio scorso, la Corte ha riaffermato il principio del “paese d’origine” nella regolamentazione del commercio elettronico, avvertendo i governi dell’UE che è necessario soddisfare gli specifici criteri stringenti per ottenere l’esenzione prevista dalla Direttiva sull’e-commerce per regolamentare le piattaforme.

Decisioni che, dunque, non si discostano dal parere non vincolante reso a gennaio dall’avvocato generale della CGUE: Maciej Szpunar aveva infatti già affermato che l’AGCOM non avesse il potere di imporre “obblighi generali e astratti” a società come Google Ireland, Airbnb Ireland e Amazon Luxembourg, poiché queste aziende non hanno la loro sede centrale nell’Unione Europea in Italia.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sarà chiamato a dare esecuzione alle statuizioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Negli ultimi vent’anni, il principio del paese d’origine è stato uno dei pilastri fortemente voluti dall’UE per garantire certezza giuridica alle società operanti nel web nei 27 paesi dell’UE.

Secondo il principio, sancito dalla Direttiva UE sul commercio elettronico del 2000, le aziende sono regolate dalle leggi del paese in cui hanno sede, non da quelle in cui si trovano i consumatori. Questo significa che le regole imposte dall’Irlanda, dove molte piattaforme statunitensi hanno la loro sede centrale europea, o dal Lussemburgo per Amazon, sono quelle che dettano le norme regolamentari.

Le recenti decisioni della Corte vogliono pertanto rappresentare una risposta decisa alle misure nazionali imposte da alcuni governi dell’UE negli ultimi anni; misure che le piattaforme digitali hanno sempre contestato sostenendo che aumentassero in modo sproporzionato ed ingiustificato gli oneri di compliance a cui sono già tenute.

In particolare, le società hanno invocato il principio della libera prestazione dei servizi ottenendo il sostegno della Commissione Europea e della Corte di Giustizia dell’UE.

Gli obblighi oggetto delle contestazioni delle big tech

In Italia i fornitori di servizi di intermediazione online e i motori di ricerca sono soggetti a specifici obblighi di legge. Tali disposizioni nazionali, adottate nel 2020 e nel 2021, sono state emanate con il preciso intento di garantire l’applicazione efficace del Regolamento UE Platform-to-Business volto alla promozione dell’equità e della trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online .

Gli obblighi imposti oggetto delle contestazioni di Airbnb, Expedia, Google, Amazon e Vacation Rentals riguardano alcune nello specifico alcunemisure amministrative che i fornitori di tali servizi devono rispettare, tra cui:

– Iscrizione in un registro tenuto dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM)

– Trasmissione periodica di documenti sulla loro situazione economica

– Fornitura di informazioni dettagliate all’AGCOM

– Versamento di un contributo finanziario

Sono previste ovviamente sanzioni per il mancato rispetto di questi obblighi.

Le società in questione, ad eccezione di Expedia, nei confronti della quale il principio del paese d’origine non si applica poiché la stessa non ha istituito un quartier generale nell’UE pur essendo stata anch’essa parte della causa, hanno contestato tali obblighi davanti a un tribunale italiano, sostenendo come l’aumento degli oneri amministrativi fosse contrario al diritto dell’Unione Europea e violasse il principio della libera prestazione di servizi.

Il giudice italiano ha deciso quindi di rimettere la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

I massimi giudici dell’UE hanno accolto le doglianze delle aziende e la Corte di Giustizia ha in tal modo potuto ribadire come debba essere lo Stato membro d’origine della società a regolamentare la fornitura dei servizi online, e che il diritto dell’Unione ostacola misure come quelle adottate dall’Italia.

Le motivazioni delle sentenze non lasciano dubbi: le misure generali e astratte rivolte a una categoria di servizi online, che si applicano indiscriminatamente a tutti i fornitori di tale categoria, non possono beneficiare dell’eccezione al principio del “paese d’origine” contemplato nell’articolo 3, paragrafo 4 della Direttiva sul commercio elettronico.

E, poiché gli obblighi imposti dall’Italia hanno per la Corte portata generale ed astratta e non sono necessari per tutelare obiettivi di interesse generale previsti dalla Direttiva sul commercio elettronico, la loro istituzione non è giustificata dall’intenzione di garantire l’adeguata ed effettiva applicazione del regolamento sulla promozione dell’equità e della trasparenza. Gli Stati membri di destinazione devono, conseguentemente, salvo circostanze eccezionali, rispettare il principio del reciproco riconoscimento e non possono limitare la libera prestazione di tali servizi.

Pertanto l’Italia non può imporre ai “fornitori della società dell’informazione” stabiliti in altri Stati membri obblighi aggiuntivi che non sono imposti nel loro Stato membro di stabilimento.

Tenuto conto delle peculiarità sociali e culturali nazionali, l’articolo 3, paragrafo 4 della Direttiva sul commercio elettronico permette agli Stati membri di adottare misure che derogano al principio del “paese d’origine”, solo a condizione che tali misure siano:

– necessarie e proporzionate per perseguire obiettivi di interesse generale e

– mirate, ossia dirette verso un fornitore di servizi digitali specifico.

– Inoltre, l’articolo 3, paragrafo 4, lettera b) della Direttiva sul commercio elettronico stabilisce alcuni requisiti procedurali che devono essere rispettati per derogare al principio del “paese d’origine”, previsti dalla Direttiva 2015/1535.

Nonostante ciò, negli ultimi anni, diverse leggi nazionali sulla moderazione dei contenuti hanno posto alla prova i limiti di questa eccezione al principio del “paese d’origine”.

Tra nazionalismo e mercato unico europeo: i precedenti dell’UE sui giganti del web

Le sentenze sono infatti particolarmente significative perché sopravvengono in un momento in cui vari governi nazionali, da Francia e Italia ad Austria e Ungheria, non hanno mai nascosto velleità più o meno concrete volte ad imporre obblighi aggiuntivi, talvolta contrastanti, alle piattaforme on line con sede negli Stati Uniti. Anche il governo polacco non molto tempo fa aveva presentato un progetto di legge che avrebbe impedito, se accolto, a Facebook e a YouTube di rimuovere quei contenuti che non violassero specificamente le leggi nazionali. Varsavia lasciava intendere di voler perseguire in tal modo l’obiettivo della libertà di parola, ma gli attivisti non avevano mancato di rilevare come le nuove regole avrebbero in realtà garantito solo che i messaggi del governo non sarebbero stati eliminati dalle piattaforme, come avvenuto con Twitter e l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Non fa eccezione la Germania che ha adottato il NetzDG, una legge volta a punire le notizie false e i contenuti che incitano all’odio sui social network.

A tanto si aggiunge la considerazione per cui le recenti decisioni, arrivano appena tre mesi dopo l’entrata in vigore del Digital Services Act (DSA) dell’UE dove il principio del paese d’origine è stato lasciato intatto (peraltro già confermato anche nel Regolamento generale sulla protezione dei dati personali GDPR del 2018), tanto che all’articolo 2, paragrafo 3, si afferma esplicitamente che la normativa DSA non pregiudica l’applicazione della Direttiva sul commercio elettronico.

Non mancano in tal senso neppure significativi precedenti giudiziari, peraltro ampiamente citati nelle sentenze di fine maggio 2024.

Le decisioni in oggetto seguono infatti il medesimo tenore di altre determinazioni risalenti a dicembre 2023 che hanno coinvolto Google, Meta Platforms, TikTok e altre piattaforme contro una legge austriaca che imponeva l’obbligo generale di istituire un sistema di notifica per i contenuti illegali. Nella specifica circostanza la Corte ha stabilito che uno Stato membro non potesse discostarsi dal principio del paese d’origine imponendo “obblighi generali e astratti” alle piattaforme di comunicazione.

“Salvo verifica del giudice del rinvio, risulta che i provvedimenti nazionali impugnati hanno portata generale ed astratta, tanto da non poter essere qualificati come provvedimenti «presi nei confronti di un determinato servizio della società dell’informazione» ai sensi dell’art. 3(4)(a)” della Direttiva sul commercio elettronico” precisa la Corte.

Il caso Amazon contro la tariffa minima di spedizione in Francia

Stesso discorso si rivelerà applicabile alla controversia, attualmente pendente presso la Corte di Giustizia dell’UE, tra Francia e Amazon contro la tariffa minima di spedizione.

Il gigante tecnologico ha infatti presentato ricorso contro un’ordinanza ministeriale francese che stabilisce una tariffa minima per le spedizioni dei libri; una misura che sembrerebbe volta a sostenere l’industria editoriale del paese e a proteggere le librerie fisiche e indipendenti.

Inizialmente Amazon ha portato il caso al Consiglio di Stato francese, il più alto tribunale amministrativo del paese, che a metà maggio ha deciso di sottoporre la questione alla CGUE.

Inutile dire che la decisione del Consiglio di Stato è stata accolta con soddisfazione dal colosso dell’e-commerce, convinto dell’illegalità dell’ordinanza ministeriale, a maggior ragione poichè, “avrebbe penalizzato i lettori, gli autori e la lettura in generale, soprattutto nei territori che non hanno librerie fisiche, vale a dire in più del 90% dei comuni del paese”, come riferisce un portavoce dell’azienda.

La stessa Commissione Europea aveva già sollevato dubbi sulla compatibilità della misura con le norme del mercato unico dell’UE.

In un parere del 2023, la Commissione aveva non a caso avvertito che la tariffa minima di spedizione imposta dalla Francia si sarebbe potuta rivelare una restrizione alla libertà di fornire servizi della società dell’informazione da Stati membri diversi dalla Francia, come sancito dalla direttiva sul commercio elettronico. Richiamandosi proprio al principio del paese d’origine anche la Commissione Europea sottolineò il fatto per cui gli obiettivi indicati dalle autorità francesi per giustificare la tariffa minima di spedizione non potessero rientrare nell’elenco dei possibili motivi di esenzione dal principio del “paese d’origine”.

Ad ogni modo, il caso, registrato come Amazon EU, C-366/24, sarà esaminato dalla CGUE che determinerà se la tariffa minima francese possa ritenersi conforme alle normative dell’UE o meno.

Tensioni tra protezione delle industrie locali e promozione di un mercato digitale integrato

Certo è che le ultime sentenze delle CGUE stabiliscono precedenti giudiziari importanti, influenzando la legislazione futura e l’equilibrio tra protezione delle industrie locali e promozione di un mercato digitale integrato e competitivo.

Rappresentano inoltre uno spaccato fortemente emblematico delle tensioni tra regolamentazioni nazionali e principi del mercato unico dell’UE.

Sono in tanti a pensare che Il principio del paese d’origine, pensato per le piccole aziende desiderose di espandersi nei mercati internazionali, non possa valere per le multinazionali già affermate.

Non si può contare sull’Irlanda come unico arbitro per tutta l’Europa.” ribadiscono gli scettici del principio.

I possibili scenari futuri per la regolamentazione dei giganti del web in Europa

Va anche detto che le ultime decisioni si riveleranno di particolare importanza proprio per l’Irlanda, stante che molte delle principali piattaforme online in Europa hanno la loro sede principale nel paese.

Tra queste, vi sono la maggior parte delle grandi piattaforme online (VLOP) e due motori di ricerca online di grandi dimensioni (VLOSE), designati dalla Commissione europea nell’ambito del Digital Services Act.

Non poco, specie considerando lo scetticismo e le critiche riguardo a presunte applicazioni lente e deboli nei confronti delle società tecnologiche; critiche che le istituzioni e le autorità Irlandesi hanno comunque sempre respinto.


[1]Cases C-662/22 | Airbnb Ireland and C-667/22 | Amazon Services Europe, Case C-663/22 | Expedia, Joined Cases C-664/22 | Google Ireland and C-666/22 | Eg Vacation Rentals Ireland, and Case C-665/22 |Amazon Services Europe.

Sentenza cause cause riunite C‑662/22 e C‑667/22

Sentenza Expedia causa C‑663/22

Sentenza cause riunite C‑664/22 e C‑666/22

Sentenza Amazon causa C‑665/22

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